VERTICE DEL G8

NON SIANO SOLO PROMESSE

 

Nei giorni scorsi, i ministri delle finanze del G8 hanno definito a Londra alcune significative proposte che rilanciano la questione della remissione del debito estero dei paesi più poveri e che ora dovranno essere decise dal prossimo vertice del G8 di Gleaneagles del 6-8 luglio prossimi.

Non si è trattato certo di una decisione di portata epocale e l’eccesso di enfasi rilanciato dai media è servito a coprire i ben più magri risultati sul resto delle questioni che Tony Blair voleva rilanciare, in particolare per ciò che concerne l’Africa. I ministri hanno deciso di cancellare il debito a 18 paesi dell’Africa tra i più poveri e i più indebitati, per un totale di 40 miliardi di dollari; una misura estendibile ad altri paesi, fino a circa una quarantina, per un totale di 55 miliardi. Una misura pari a circa la metà, in termini reali, di quanto fu deciso nello storico vertice di Colonia del 1999, che lanciò la prima remissione “giubilare”, e assai distante dal volume di circa 1000 miliardi di dollari di debito che ancora oggi pesa sui paesi più poveri.

Rimane però il fatto che solo dieci anni fa – al summit sociale di Copenhagen – parlare di cancellazione o remissione del debito era considerato follia dai grandi e battaglia irenica delle reti sociali e delle Ong. Dieci anni dopo, è oggetto di accordo “minimo” tra i Grandi è per ciò stesso si tratta di un passaggio degno di nota.

Non bisogna però perdere di vista il quadro delle più ampie necessità e che toccano il complessivo e grave ritardo nella messa in opera di tutte le misure già decise negli anni passati circa la remissione del debito, anche da parte del nostro paese. Cui si aggiungono alcune altre gravi preoccupazioni: il finanziamento di tali condoni non rischia di essere pagato con ulteriori detrazioni dei contributi dei paesi ricchi per gli aiuti allo sviluppo?

E se – come ha affermato a Milano in un recente convegno sul tema il card. Tettamanzi – il primo debito è quello di onorare gli impegni presi, che ne è del probabile fallimento circa il raggiungimento degli 8 obiettivi di sviluppo del millennio per dimezzare la povertà nel mondo entro il 2015?

Oggi, secondo i dati dell’Ocse, nel 2004 i paesi ricchi hanno destinato all’aiuto allo sviluppo 78 miliardi di dollari, pari allo 0,25 del loro prodotto interno lordo. Ce ne vogliono almeno altri 50 per mantenere gli impegni del millennio. Peraltro ribaditi formalmente a Londra: l’Unione europea si è impegnata a raggiungere lo 0,55%, la Gran Bretagna si è impegnata per lo 0.7% entro il 2013, la Francia entro il 2012, mentre Germania e Italia hanno assunto l’impegno dello 0,51 entro il 2010. Per l’Italia si tratterebbe di quadruplicare i propri stanziamenti, visto che oggi sono appena allo 0,15%, fanalino di coda di tutti i paesi ricchi.

Il cammino da qui a Gleanegles è pertanto ancora tutto in salita e ci sembra di poter esprimere due indirizzi specifici.

In primo luogo, un deciso sostegno politico allo sforzo voluto da Tony Blair, perché si giunga a stabilire da subito un concreto meccanismo per liberare ulteriori risorse straordinarie per l’Africa, sia attraverso nuove emissioni obbligazionarie, che attraverso una tassa mondiale sui biglietti aerei. La reticenza esplicita degli Stati Uniti, deve invece trovare una decisa concordia dei paesi europei. Di fronte alla crisi del progetto europeo, Blair indica una concreta meta esterna, che già intuirono i fondatori (si veda la Dichiarazione Schuman) e forse questo può essere il modo concreto per ripartire dal futuro nella costruzione europea.

In secondo luogo, nei prossimi tre mesi tutti i governi europei definiranno le proprie leggi di bilancio per il 2006: una concreta occasione di verifica del mantenimento degli impegni di aumento degli aiuti.

 

Infine una considerazione più generale, che tocca l’urgenza e la necessità di rilanciare un antico collegamento tra armi e fame.

In questi stessi giorni, nella quasi generale disattenzione, salvo qualche pregevole eccezione (vedi Benessia su La Stampa o il settimanale Vita) il ben noto Sipri di Stoccolma ha reso noti i dati relativi alla spesa militare mondiale nel 2004: oltre 1000 miliardi di dollari (841 miliardi di euro), con una crescita dell’8% rispetto al 2003…!

Gli Usa da soli rappresentano il 47% della spesa totale e l’Italia questa volta è tra le prime, al settimo posto, con una spesa di 27,8% miliardi di euro, anch’essa in crescita, contro i miseri 2,5 miliardi di euro per la cooperazione, in calo da alcuni anni.

Si tratta di dati molto semplici eppure di una evidenza lampante, in un rapporto di quasi 13 a 1, che richiamano scelte morali e giudizi di valore rispetto a diverse opzioni di spesa dei denari pubblici.

È ora di tornare a dire che una simile spesa militare è folle, che non si può continuare a fare violenza alla giustizia in nome di presunti altri nobili propositi (la sicurezza mondiale, la lotta contro i tiranni), che nascondono invece la pura e semplice affermazione del potere, come già diceva Euripide nelle Fenicie.

Sarà forse opportuno che, come già avvenne negli anni 1960 e poi negli anni 1980, i movimenti della società civile trovino i modi concreti per rilanciare questa concreta battaglia di civiltà. Ricordando quanto ci suggerisce san Giovanni Crisostomo:

«Se Dio vi ha destinati al possesso di molti beni, è perché voi li distribuiate ai poveri… Rifiutare ai poveri una parte dei propri beni è levare loro la vita».

Su queste parole si può forse rifondare un concreto e corale impegno sociale e politico per il mondo. La stessa Europa, come scrissero con lungimiranza i fondatori, può ritrovare il senso della sua missione di civiltà.

 

Luca Jahier