BLAIR, BUSH E IL G8
NUOVI PIANI PER L’AFRICA
Aiuti all’Africa?
Non resta che sperare che i progetti americano e britannico trovino una
fruttuosa articolazione e che finalmente ci si occupi di questo continente che,
lasciato a se stesso, non riuscirà mai a vincere la sua condizione di povertà.
Ma anche gli africani devono assumersi le loro responsabilità.
Come sempre avviene in questi casi, anche in vista del
nuovo G8, previsto a Gleneagles in Scozia, sotto la presidenza britannica, e
messo in agenda per 6-7 luglio, già qualche mese prima si era cominciato a
lanciare dei programmi in favore dell’Africa, perché ormai, sembra proprio che…
noblesse oblige.
Tony Blair, rinforzato dalla vittoria elettorale di
maggio, ha presentato il suo piano che aveva annunciato nei primi mesi
dell’anno1 e il suo ministro dell’economia, Gordon Brown, esponendone a
Edimburgo i punti principali, ha dichiarato che «non è il caso di essere timidi
con gli aiuti all’Africa». Vogliamo sperarlo, anche se un certo scetticismo è,
non dico di rigore, ma …quasi.
IL PROGETTO
BRITANNICO
Il progetto di Blair prevedeva la cancellazione totale
del debito africano e il raddoppio dei finanziamenti diretti alle nazioni più
povere del mondo, passando dagli attuali 50 miliardi di dollari l’anno a 100
miliardi entro il 2015. Questo ultimo obiettivo doveva essere realizzato
attraverso una nuova istituzione temporanea, l’IFF (International Finance
Facility) incaricata di raccogliere gli aiuti, aumentarne il valore accedendo
ai mercati internazionali per garantire ai governi africani un flusso costante
di aiuti su cui contare per gli investimenti a lungo termine. Tra l’altro,
questo stesso IFF avrebbe consentito ai governi dei paesi beneficiari di
prendere in prestito nuovi capitali offrendo come garanzia gli aiuti loro
promessi dai governi occidentali.
Cinquanta paesi occidentali avevano già detto sì al piano
di Blair, ma il progetto aveva ha bisogno dell’ok di Washington per poter
decollare ed essere proposto alla riunione dei paesi più industrializzati del
mondo, appunto il prossimo G8 di Glasgow. Ma l’ok di Washington non c’è stato,
perché Bush ha candidamente affermato che la remissione del debito ai paesi
poveri «non si addice (sic!) al nostro bilancio». Poteva essere più netto nella
sua dichiarazione? Nessuna Santa Alleanza internazionale per affrontare le
urgenti e improcrastinabili necessità del continente più povero del mondo,
probabilmente perché l’Africa non ha, agli occhi di Bush, l’importanza strategica
che riveste l’Iraq o, quanto meno, non la ha ancora…
In occasione della sua visita a Washington ai primi di
giugno, Tony Blair ha cercato di far cambiare idea al suo potente alleato e di
farlo avvicinare al suo programma, ma non ha trovato quell’ascolto che si
attendeva. Blair stesso ha affermato che gli Stati Uniti non credono nelle
organizzazioni internazionali, preferiscono decidere direttamente chi aiutare e
come. Così Bush e Blair hanno trovato «un accordo al ribasso», come ha scritto
Loretta Bricchi Lee per Avvenire.
Il presidente Bush non ha accettato di entrare nella
proposta dell’IFF, ha proposto invece «un’iniziativa congiunta diretta ad
alleviare la fame di 14 milioni di africani». Gli Stati Uniti si addosserebbero
«una spesa di 674 milioni di dollari per emergenze umanitarie, di cui quasi 500
milioni in aiuti alimentari per l’Etiopia e l’Eritrea, in aggiunta all’1,4
miliardi di dollari già promessi alle Nazioni Unite» (Avvenire 8 giugno 2005).
Il resto dei grandi progetti di Tony Blair e Gordon Brown si è sciolto nelle
buone intenzioni: si cercherà di raccogliere 25 miliardi di dollari al G8, si
cercherà di rimettere il debito a condizione che venga eliminata la corruzione
e che si facciano le riforme. Buoni propositi che dimostrano una volta di più
che a parole l’Africa è in cima alle priorità di entrambi, ma poi…
UNA DECISIONE
EPOCALE?
Anche i ministri finanziari del G8 riuniti a Londra il 10
giugno, per preparare la riunione del prossimo luglio, hanno discusso le
proposte britanniche e hanno raggiunto un accordo sulla cancellazione del
debito internazionale di 18 paesi poveri promettendo che altri 9 potranno avere
lo stesso trattamento entro 1-18 mesi. Alcuni nella conferenza stampa finale
hanno parlato di decisione storica o epocale. A noi pare che si tratti di una
decisione importante di cui non c’è che da rallegrarsi, ma ancora insufficiente
rispetto alle esigenze in gioco, come ha detto Riccardo Moro, della fondazione
«Giustizia e Solidarietà» della CEI: «Parlare di decisione storica o epocale
come hanno fatto i ministri del G8 è francamente fuori luogo e rischia di
rasentare il cattivo gusto». La stessa iniziativa era stata lanciata già a
Colonia nel 1999, ma da allora ad oggi ha riguardato soprattutto il debito
“bilaterale”, quello dovuto alle nazioni ricche. I governi altamente indebitati
sono oltre 70 e questo significa che la maggioranza è rimasta fuori
dell’intesa. Non è fuori luogo chiedersi: queste ultime promesse del G8 saranno
mantenute o, ancora una volta, lasciate alla buona volontà dei singoli governi?
Non ci sarà il pericolo che la montagna, il G8, partorisca il classico
topolino, un compromesso in cui si spegneranno gli entusiasmi che sono stati
accesi in questi ultimi mesi? Domande legittime, visti i precedenti di questa
campagna per il debito.
ALCUNE
CONSIDERAZIONI
Certamente le dichiarazioni e le scelte di Bush
contribuiranno a confermare i pregiudizi antiamericani e antioccidentali che
già sono così consolidati (e non senza ragione) in tante parti dell’Africa. Per
questa ragione non resta che sperare che i due progetti, americano e
britannico, nel quadro del G8, trovino una fruttuosa articolazione e che
finalmente l’occidente si occupi di questo continente che lasciato a se stesso
non riuscirà mai a vincere la sua condizione di povertà, che inviti i capi di
governo a trattare una cooperazione di cui l’Africa ha bisogno, ma che anche
l’occidente deve offrire in modo diverso dal passato.
A questo proposito alcune considerazioni paiono essere
opportune oltre che interessanti e appropriate.
Sembra evidente, in primo luogo, che i programmi di
assistenza allo sviluppo dei singoli stati in favore dell’Africa devono trovare
coordinamento e sincronizzazione, perché nessun stato da solo, fossero pure gli
USA, può immaginare di fare un’opera che sia efficace e duratura. Non si
dovrebbe procedere più in ordine sparso facendo ciascuno quello che può e
vuole. Non si può che sottoscrivere quanto ha scritto Gerolamo Fazzini, in un
editoriale di Avvenire del 4 giugno 2005: «Non si può considerare l’aiuto allo
sviluppo un (nobile, per carità) optional o la questione della remissione del
debito mero argomento per dibattiti. Quando da Londra il cancelliere dello
scacchiere Gordon Brown insiste nel dire che “questo è il momento di rimettere
il 100% del debito, non è tempo di timidezza”, dimostra di avere la percezione
della posta in gioco».
Una seconda considerazione: tutti sanno che sull’Africa
sub-sahariana grava attualmente un fardello di 218,4 miliardi di dollari. Le
proposte della Gran Bretagna, che sulla remissione del debito si è impegnata
con un pacchetto di misure precise e chiede alla comunità internazionale
provvedimenti urgenti e drastici, non fanno che rinverdire promesse e discorsi
espressi ormai da anni e che sembra nessuno voglia prendersi il fastidio di
mettere in esecuzione. Rilanciare di nuovo lo stesso obiettivo, non finirà per
mostrare che è qualcosa che neppure si può tentare? Ma tant’è, siamo in un
tempo di progressiva chiusura ai problemi dei paesi poveri o impoveriti.
PROMESSE
DA MANTENERE
E una terza considerazione. La remissione del debito è
una condizione importante per riavviare l’economia dei paesi poveri, per
riaprirli alle dinamiche dello sviluppo e toglierli dall’inerzia in cui sono
caduti e nella quale sono stati abbandonati. Certamente. E non c’è che da
rallegrasi dei propositi di Blair e del G8, se alle proposte, pure
insufficienti, corrisponderanno progetti concreti di realizzazione. Ma la
remissione del debito non è l’unica strada per promuovere un autentico
sviluppo. C’è bisogno di altro! Occorre una distribuzione più equa delle
ricchezze e una lotta più decisa contro la povertà.
I paesi sviluppati devono alzare il livello del
finanziamento per la cooperazione allo sviluppo: attualmente l’Europa viaggia
intorno allo 0,3, mentre l’Italia sta guadagnandosi la maglia nera, smentendo
tutte le sue promesse, con uno scandaloso 0,14%, quando da tempo si è additato
lo 0,7 % come obiettivo minimo della cooperazione. C’è poi un dato paradossale
che pochi ricordano e che la dice lunga sull’aiuto dei paesi sviluppati
all’Africa: le rimesse di denaro degli emigrati dai paesi poveri ammontano a
150 miliardi di dollari, superano cioè di molto i contributi offerti dai paesi
ricchi a quegli stessi paesi.
NON RECRIMINAZIONI
MA PROPOSTE
Nell’Africa subsahariana ci sono 320 milioni di persone
che vivono con meno di un dollaro al giorno. Le alchimie finanziarie e
politiche dell’occidente risultano incomprensibili e interessano davvero poco.
C’è fortunatamente un’Africa (che non è quella dei governanti) che si rende
sempre più conto che non deve contare solo sugli aiuti dall’estero, a meno di
non voler continuare a essere l’eterna mendicante del mondo che siede fuori
della stanza dei bottoni in attesa di ricevere l’elemosina dei paesi ricchi del
G8.
L’Africa non chiede più l’elemosina, ma si attende che
gli altri paesi ricchi investano sul continente. C’è in Africa una società
civile, che non si identifica con la classe dirigente, consapevole che per
questo deve cambiare la sua maniera di amministrare il bene comune, sanare la
corruzione e cambiare le sue prospettive. C’è un’Africa che attende e merita di
trovare gente che creda allo sviluppo del continente e l’appoggi con
convinzione. Un economista senegalese, Sanou M’Baye, si è chiesto
polemicamente: perché mai l’occidente dovrebbe investire in Africa quando
ottiene già, e abbondantemente, ciò che vuole senza correre rischi? Nello
stesso tempo l’occidente deve rendersi conto che se non aiuta l’Africa a venire
fuori con le sue gambe dalla palude in cui si trova, essa diventerà un peso che
l’occidente dovrà trascinarsi dietro spendendo forze che potrebbe investire
altrove.
In Africa sta nascendo una rinnovata consapevolezza della
propria dignità che dovrebbe essere sostenuta e che potrà ridarle rispetto. Lo
dice Wole Soyinka, premio Nobel nigeriano, in un articolo apparso su Avvenire
(9 giugno 2005), in cui chiede di «rimettere i destini dell’Africa nelle mani
delle popolazioni africane». Non si tratta di uno slogan. Molti africani
sentono che è ora di finirla di recriminare contro gli altri e di scaricare
sull’occidente la responsabilità del proprio sottosviluppo. Certo l’occidente
ha le sue colpe, ma gli africani sentono che la strada delle recriminazioni non
produce nulla e non fa migliorare la situazione. È invece di rivedere la
propria responsabilità. «C’è un’enorme quantità di cose che possiamo e dobbiamo
fare: anche se ci fosse più equità nei rapporti commerciali fra il nord e il
sud del mondo, anche se il debito pubblico del Sud fosse largamente cancellato
e l’aiuto internazionale fluisse abbondante, fino a che il malgoverno governo e
la corruzione verranno tollerati, la povertà continuerà a regnare», ha scritto
p. Oscar Wermter S.J. su The Zimbabwean, the Voice of the Voiceless. «La vera
prosperità non deriva dal mettere le mani sulla ricchezza creata da altri, come
fanno i potenti impadronendosi delle terre e delle abitazioni degli altri… la
prosperità duratura deriva dalla conoscenza e dalla buona amministrazione dal lavoro
e dalla produttività. Non è vero che «la terra è l’economia» (uno sciocco
slogan!). Lo sono invece le persone, con la loro creatività e con il loro
lavoro. Prima di poter bene utilizzare nuovi flussi di capitali di aiuto,
abbiamo bisogno di una mentalità completamente rinnovata».
Quando in Africa si parla con la gente che riflette sulla
situazione del proprio paese, è sempre più frequente sentire affermazioni come
queste. E questo fa sperare molto più dei piani Marshall o dei piani di Blair
…anche se questi restano necessari!
Gabriele Ferrari
s.x.
8 giugno 2005.
1 Cf. Gabriele Ferrari s.x., È ormai tempo di aprire gli
occhi, in Testimoni 2005/n. 8, pp. 17-19.