I CRISTIANI IN PAKISTAN

TRA DIFFICOLTÀ E SPERANZE

 

Una realtà di Chiesa molto diversa dalla nostra dove essere cristiani vuol dire essere emarginati, privati di quasi tutti i diritti civili e condannati a vivere nell’insicurezza e nel pericolo. Pesanti le ricadute su questa comunità delle guerre in Afghanistan e Iraq. Eppure non mancano segni di speranza.

 

I cristiani in Pakistan rappresentano una piccola minoranza – 2% – immersa in un paese a stragrande maggioranza musulmana. Vivono in una condizione molto difficile eppure con la loro presenza e la loro testimonianza costituiscono un piccolo ma sicuro segno di speranza, come afferma in questa intervista mons. Lawrence J. Saldhanha, arcivescovo di Lahore, pubblicata dall’agenzia asiatica Ucanews e ripresa anche da Églises d’Asie (16 maggio 2005).

Prima di essere chiamato a questo incarico mons. Saldhanha viveva con la sua famigli in Canada, dove era emigrato. «Ho accettato, ha detto, perché laggiù il lavoro era veramente urgente e necessario». L’intervista, come si può costatare, ci permette di conoscere una realtà di Chiesa molto diversa dalla nostra e mostra come è possibile vivere la fede in condizioni di emarginazione e spesso anche di insicurezza e pericolo. In secondo luogo sottolinea le ricadute negative che hanno avuto le due guerre dell’Afghanistan e dell’Iraq sulla comunità cristiana.

 

Quali sono le condizioni dei cristiani in Pakistan?

 

Il Pakistan, come sapete, è uno stato islamico e di conseguenza i musulmani sono i primi cittadini di questo stato. I membri delle altre religioni, come anche le diverse minoranze, sono considerati cittadini di seconda classe perché non aderiscono alla religione ufficiale. Ma noi siamo cittadini di questo paese e ci sentiamo pakistani. Siamo nati qui, siamo cresciuti qui, siamo stati educati qui. Parliamo la lingua del paese e sentiamo che questo è il nostro paese. I cristiani, cattolici e protestanti insieme, rappresentano circa il 2% della popolazione. Ma noi dobbiamo continuamente lottare per far riconoscere la nostra identità. I musulmani ci considerano certo come pakistani, ma non come pienamente pakistani.

Un certo numero di leggi introdotte in questi ultimi vent’anni ci attribuiscono uno statuto di seconda zone. Per esempio, c’è stata la legge degli “elettorati separati” per le diverse comunità religiose. Questa ci ha tagliato fuori dal resto della gente.

Per il fatto che tu sei cristiano, ti trovi fuori del sistema a motivo della tua religione. C’è anche la legge sulla blasfemia che punisce di morte chiunque sia sospettato di aver insultato il profeta Maometto o aver parlato male di lui. Con questa legge molti musulmani e un certo numero di cristiani sono stati ingiustamente accusati di blasfemia e messi in prigione. Noi pensiamo che questa legge è utilizzata soprattutto contro i poveri e spesso per compiere una vendetta o risolvere una disputa di carattere privato. Ma il governo non vuole abolirla a causa dei partiti politici musulmani, degli estremisti e dei conservatori.

Una delle ragioni è dovuta agli avvenimenti recenti successivi agli attacchi dell’11 settembre 2001. Ne è seguita una polarizzazione tra il mondo cristiano e il mondo musulmano. E noi ci troviamo tra i due. Noi affermiamo chiaramente che siamo pakistani, sostentiamo il nostro paese, e in tutte le maniere condanniamo ogni forma di aggressione contro i musulmani. Ma le guerre in Afghanistan e in Iraq non sono state buone per noi. Ci troviamo di fronte a una discriminazione e ci sentiamo sempre più stranieri nella nostra società.

All’origine della nazione pakistana ci fu la separazione dall’India e dagli indù. Di conseguenza, i pakistani ritengono sempre di doversi difendere e rivendicare la loro appartenenza all’islam. Gli avvenimenti recenti come quelli dell’11 settembre li hanno indotti a insistere ancor di più sull’islam perché si sentono con le spalle al muro. Un esempio è l’atteggiamento verso la politica di moderazione che il presidente Musharraf cerca di promuovere. I musulmani pensano che lo faccia su istigazione degli americani i quali vogliono “diluire la nostra fede”. In questo modo ora sono più intransigenti, per esempio, obbligando le donne a portare il velo. E noi ci troviamo in mezzo.

 

Com’è il governo del presidente Musharraf verso i cristiani?

In linea generale è buono. Musharaff ha studiato nelle scuole cristiane ed è certamente un uomo che dà prova di apertura di spirito, per l’educazione ricevuta. Non ha tutti i pregiudizi che condividono gli altri pakistani. È stato cresciuto in una scuola cristiana, ha degli amici cristiani, è dunque aperto.

Dopo gli avvenimenti dell’11 settembre ha soppresso la legge degli “elettorati separati”. Ha restituito alla Chiesa le scuole cattoliche che erano state nazionalizzate. Vorrebbe abolire la legge sulla blasfemia, ma il problema sta nel trovare il momento opportuno. Come stratega formato dall’esercito, egli si rende conto che ciò non andrebbe bene in questo momento; se lo facesse susciterebbe un’opposizione da tutte le parti. Attualmente è relativamente indebolito e le circostanze si sono rivolte contro di lui. Egli non è padrone della situazione e ha bisogno del sostegno dei partiti musulmani.

 

Come si comportano i musulmani verso i cristiani nella vita di tutti i giorni?

 

Esiste un pregiudizio molto vecchio che viene dal sistema delle caste, il quale dice di non mischiarsi mai con persone di casta inferiore. Ci sono quindi delle circostanze in cui dei musulmani non vogliono bere il tè con i cristiani. Le persone di un rango elevato lo faranno, ma, a un rango inferire, non permetteranno mai a un cristiano di venire al ristorante a bere un tè. Ciò sta scomparendo, ma esiste ancora. Quando un cristiano cerca lavoro può sentirsi dire: «Non assumiamo dei cristiani». E glielo dicono in faccia. Ma se anche ottiene un lavoro, dovrà far fronte a rimbrotti, scherni e anche a degli attacchi.

La maggior parte dei cristiani sono poveri. Lavorano nei campi come giornalieri ma non possiedono terre. Sono dunque obbligati a mantenere buone relazioni con il loro proprietario, il quale è molto paternalista: «D’accordo, noi vi proteggeremo».

Oppure lavorano come spazzini o netturbini, e sono molto numerosi a Karachi, a Lahore e nelle grandi città. È un buon impiego, nel senso che fanno un buon lavoro, ma sono disprezzati perché è un lavoro non considerato. Non è facile! Anche i matrimoni tra cristiani e non cristiani sono sconosciuti qui. Una musulmana non si sposerà mai con un cristiano. Troverete forse una giovane cristiana che sposa un ragazzo musulmano, e può anche andare, ma il contrario non avviene. I musulmani possono diventare molto violenti, oppure la coppia dovrà emigrare.

Non ci sono molti rapporti sociali tra cristiani e musulmani. Ce ne saranno sul posto di lavoro, ma i cristiani tendono a vivere nei ghetti, o in “colonie” molto povere, o anche nei tuguri, dove si sentono più protetti. Possono difendersi e devono difendersi!

Quando l’Afghanistan è stato attaccato dagli americani nel 2001, noi abbiamo perduto 41 cristiani, 41 martiri. Ci sono stati degli attacchi contro di noi. Hanno gettato delle bombe contro le chiese e le scuole. Uno degli attacchi peggiori è stato quello contro gli uffici di Justitia et pax, frutto di una collaborazione tra cattolici e protestanti, a Karachi. Gli assalitori sono entrati nei locali, hanno legato sette impiegati e li hanno uccisi tutti. Questo drammatico episodio ha avuto luogo nel settembre del 2002.

 

Esiste una tensione tra la società moderna e la società tradizionale più povera?

 

Certamente. Le classi colte sono state influenzate dai valori occidentali e sono più aperte di spirito. I loro membri comprendono la propria cultura, ma vedono anche il valore della cultura occidentale attraverso l’internet e gli altri mezzi di comunicazione. Pensano che sia il futuro e il progresso.

Esiste anche una classe media, poco numerosa, composta di persone bene istruite e interessate ai diritti dell’uomo. Alcuni di questi sono in contatto con la nostra commissione Justitia et pax. Noi lavoriamo con loro. Sono persone che militano per i diritti delle donne, per la commissione dei diritti umani del Pakistan e sono anche nostri avvocati. Tutti costoro hanno frequentato le nostre scuole dove l’insegnamento è impartito in inglese.

 

Alcune delle personalità più conosciute del Pakistan sono state educate nelle nostre scuole cristiane. L’ex primo ministro Benazir Bhutto, il generale Pervez Musharraf sono stati tutti e due formati nelle nostre scuole cattoliche, come pure l’attuale primo ministro Shuakat Aziz. «Abbiamo frequentato queste scuole – dicono – e nessuno ci ha chiesto di diventare cristiani. Ci hanno insegnato delle cose molto belle. E io sono sempre un musulmano». Ecco come ragionano. Sono persone che testimoniano per noi.

Ma c’è anche un’altra classe di persone che non hanno mai frequentato le nostre scuole e hanno contro di noi un mucchio di pregiudizi. È tra di essi che le organizzazioni estremiste musulmane reclutano i militanti di base come i terroristi. È molto difficile entrare in dialogo con loro.

 

Avete dialogato con dei gruppi musulmani?

 

Sì. Incontriamo delle persone sul problema della pace, per delle manifestazioni o dei seminari. E alcuni dei principali responsabili religiosi musulmani accettano di venire e di sedersi con noi. Ma certi gruppi politico-religiosi vogliono tornare indietro. Non accettano che il sistema degli “elettorati separati” sia stato soppresso due anni fa. Alcuni dicono che quando riprenderanno in mano il potere, ristabiliranno questa legge.

Due province, quella di frontiera del nord-ovest e il Beluchistan vogliono introdurre la sharia, la rigorosa legge musulmana. Una legge secondo la quale ci saranno degli individui che percorreranno la città con dei bastoni per indurre i negozi a chiudere all’ora della preghiera e per obbligare la gente a pregare. Personalmente penso che bisogna lasciarli fare, e saranno gli stessi musulmani a rifiutarli.

 

Sono tre anni che lei è diventato arcivescovo di Lahore; che cosa è avvenuto di importante nella sua chiesa in questo tempo?

 

Per me questo è stato un tempo in cui ci siamo sforzati di mostrare che la Chiesa può inserirsi in maniera più sicura nella vita della nazione e che possiamo costruire delle relazioni migliori con i nostri fratelli musulmani. Ho cercato di promuovere quest’armonia sociale nella nostra Chiesa e nelle parrocchie. Con i musulmani ciò ha funzionato bene a questo livello e alla base.

Questo è stato anche un tempo difficile per noi, specialmente con queste guerre in Afghanistan e in Iraq. La situazione è stata tesa e la gente dei villaggi continua a sentirsi insicura.

Malgrado le difficoltà è in queste circostanze che dobbiamo essere dei testimoni. Ho chiesto al clero e ai cristiani di incoraggiare un maggior numero possibile di laici a impegnarsi nella vita della Chiesa.

Due anni fa io ho dato avvio a un consiglio pastorale diocesano. Da qui è nata l’idea di avere un piano pastorale diocesano. Da gennaio fino alla Pentecoste di quest’anno, sono stati consultati i laici, in piccoli gruppi, nelle parrocchie per chiedere il loro parere su questo argomento: «Qual è lo scopo della Chiesa qui? Quali sono i nostri tre o quattro obiettivi più importanti, le nostre tre o quattro priorità?».

In giugno ci sarà un’assemblea generale a cui parteciperanno 150 persone per riflettere e riuscire a determinare tre o quattro finalità che vogliamo raggiungere. Successivamente, in settembre, stabiliremo una strategia per i prossimi tre o quattro anni. Dovrebbe essere pronta per il nuovo anno.

Infine, sentiamo fortemente la necessità di diventare una Chiesa indipendente in materia di finanze e di personale. Noi siamo una chiesa molto povera e dipendiamo molto dagli aiuti stranieri. Ma questi fondi si esauriscono. Dobbiamo cercare come poter costituire dei fondi a partire dalle nostre stesse fonti e dalla nostra gente. Ma non possiamo fare tutto. Dobbiamo piuttosto fissarci uno o due obiettivi ben precisi.

È la prima volta che domandiamo il parere a delle persone ordinarie, della base. Essi non comprendono bene le cose perché non sono istruiti, ma sono contenti di sentirsi interpellati. Prima avevamo dei missionari stranieri, belgi, olandesi, americani, ma erano tutti molto individualisti. Ma sono partiti. Ora possiamo vedere che quello che hanno fatto è buono, ma noi dobbiamo organizzarlo.

 

Come vede la missione della Chiesa in Pakistan?

 

Quella di essere testimoni dei valori del Vangelo, come l’onestà, il perdono, l’amore, l’umiltà, la, pazienza, la tolleranza, la fiducia. Noi dobbiamo sostenere questi valori e anche incoraggiare la pazienza e l’armonia, essere dei ponti. Anche se siamo molto piccoli, abbiamo un ruolo da svolgere. Questi valori possono essere trasmessi attraverso le nostre scuole, dal momento che disponiamo di un’ampia gamma di scuole e di collegi, e questi valori possono essere praticati attraverso queste istituzioni. Ci occupiamo anche dei malati e dei lebbrosi. Aiutiamo la gente a prendere coscienza dell’Aids, formiamo dei giovani perché vadano nelle scuole e informino gli alunni su questa malattia che è in crescita in India e in Pakistan.

Non facciamo molte conversioni. Dialoghiamo. Non è questo il momento del proselitismo o di un’evangelizzazione porta a porta. La situazione dei cristiani non è buona per cui la gente non ha voglia di unirsi a loro.

 

Che tipo di comunità è quella cristiana del Pakistan?

 

Penso che ormai abbiamo superato la fase dei “cristiani della ciotola di riso”. Da quando abbiamo i nostri preti e le nostre suore anche i cristiani sono molto cambiati. Noi infondiamo in essi il senso della loro responsabilità e inculchiamo l’idea “voi siete la Chiesa”. Ed essi rispondono. In secondo luogo, i cristiani stessi hanno formato delle piccole comunità che pregano insieme. Essi amano riunirsi e incontrarsi. A Natale e a Pasqua le chiese sono piene. Inoltre abbiamo un luogo molto grande per riunirci, cioè Marianbad, un santuario mariano a 80 chilometri da Lahore. Ogni anno in settembre teniamo un grande festival, che è una manifestazione di carattere popolare e culturale. La cultura locale ama avere la propria preghiera (mela) (festival). Ogni anno questo festival cresce in qualità e diventa sempre più importante.

 

È stato compiuto uno sforzo per costruire un ponte con la Chiesa dell’India?

 

Sì. L’anno scorso è stato tenuto un Forum sociale mondiale e vi ha partecipato anche un gruppo del Pakistan. Ha incontrato la sua controparte in India e, insieme, hanno elaborato un piano per delle visite reciproche. Non è difficile perché in Pakistan e in India noi ci sentiamo cristiani. Quando invece ai musulmani e agli indù, tocca ad essi infrangere le barriere.