INTERVISTA ALLE CLARISSE MINORI

CLAUSTRALI SENZA RIMPIANTI

 

Nella specificità della nostra scelta, ci sentiamo sorelle in mezzo a tutti gli altri, con un dono diverso, ma anche con responsabilità e con impegni comuni a tutti gli altri cristiani. Cerchiamo di vivere in modo più radicale gli stessi valori a cui è chiamato ogni cristiano.

 

Nel maggio scorso ho partecipato a un corso di aggiornamento e di formazione delle abbadesse e delle formatrici delle clarisse minori della federazione laziale, a Bagnoregio, in una accogliente casa di preghiera, lontane dai loro rispettivi monasteri. In un dopo-cena, incoraggiato dalla loro piena disponibilità e dalla loro insospettata vivacità, ho posto alcune domande sulla loro vita contemplativa. Dalle risposte è forse più facile comprendere il significato della loro scelta di una vita integralmente contemplativa e insieme anche l’esigenza di una piena relazione con la Chiesa e il mondo esterno. La nostra vita, dicono, è solo «un pochino più radicale» di quella di ogni cristiano.

 

Quante siete attualmente?

 

Attualmente le clarisse minori in Italia sono 1.445, con 91 professe temporanee, 61 novizie, 38 postulanti. Esistono in Italia 111 monasteri, raggruppati in federazioni, con un coordinamento nazionale composto da tutte le presidenti delle federazioni e a capo del quale c’è una coordinatrice. Nel mondo le clarisse minori sono 18.000 circa.

 

Si può parlare anche tra le clarisse di crisi di vocazioni?

 

La crisi esiste sicuramente, anche se, rispetto ad altre realtà della vita consacrata, abbiamo forse un’identità più precisa. Il problema che percepiamo con maggiore evidenza è dato dalla distanza della nostra vita contemplativa rispetto alla vita normale di una giovane di oggi. Purtroppo manca tutta la mediazione della famiglia, la mediazione di una tradizione cristiana più diffusa, tipica di altri tempi e che naturalmente favoriva anche la nascita di vocazioni contemplative.

Anche da noi il grande problema è quello della “tenuta” delle vocazioni, con un numero considerevole di uscite alla vigilia delle professioni solenni, prima dell’impegno definitivo, a causa di tanti altri fattori non sempre facilmente ponderabili.

 

Qual è la vostra precisa identità, la vostra missione?

 

Potremmo rispondere che la nostra identità precisa è quella data da sempre dalla Chiesa stessa: una vita integralmente contemplativa. Con una esplicita connotazione claustrale. Anche se oggi una simile connotazione può assumere molteplici valenze. Rientra nella nostra propria identità una chiara priorità dell’essere sul fare e sull’avere. In un mondo tutto proteso verso l’azione, di fronte all’uomo che troppo spesso vale ed è considerato più per quello che ha e che fa e non per quello che è, dichiaratamente privilegiamo una capacità di relazione.

In una parola potremmo dire che il nostro carisma, secondo quanto ci ha trasmesso santa Chiara, è quello di osservare il santo Vangelo e pregare. Non dimentichiamo che la nostra è fondamentalmente una scelta di tipo francescano. In questo senso le categorie con le quali intendiamo entrare in una più stretta relazione sono quelle degli anziani, degli emarginati, degli ammalati, di tutte quelle persone considerate non efficienti dalla nostra società.

 

Ma vivendo in clausura, come riuscite a esplicare questa missione, questa vicinanza ai poveri, agli ammalati, agli emarginati?

 

Innanzitutto il fatto stesso di essere delle claustrali, ci mette già a livello di quei poveri che non hanno scelto le loro situazioni di povertà. Noi viviamo questa relazione come testimonianza, come scelta di vita. Inoltre, non bisogna dimenticare che noi viviamo stabilmente nello stesso monastero, nello stesso posto. Siamo pertanto facilmente raggiungibili. Tutti sanno dove trovarci. Sono sempre più numerose le persone che vengono a parlare con noi dei loro problemi, a chiedere ogni genere di aiuto, non solo materiale, ma sempre spesso anche spirituale.

 

Ben sapendo le vostre concrete condizioni di vita, materialmente che aiuto potete dare?

 

Sono sempre tanti i poveri che bussano alle porte dei nostri monasteri. Li aiutiamo con il frutto del nostro lavoro, che per noi è molto importante. Una volta che abbiamo assicurato il necessario per la nostra sopravvivenza, il resto lo destiniamo ai poveri. Non c’è una persona che si avvicini al nostro monastero e vada via a mani vuote. Ma appunto, non c’è solo la povertà materiale a cui cerchiamo di far fronte. Ci sono anche altri tipi di povertà, compresa la povertà fatta molto spesso di disperazione. Quante persone vengono a confrontarsi con la nostra vita, con la nostra preghiera.

 

Vivete anche di offerte?

 

Certamente, anche di offerte. Solo che una volta le offerte potevano bastare. Oggi, invece, non bastano più. Anche per questo valorizziamo maggiormente il nostro lavoro, che cambia, naturalmente, con il cambiare dei tempi. I lavori possono essere i più disparati, compatibilmente con le nostre condizioni. I lavori cambiano anche in rapporto alle capacità, alle esigenze, alle sensibilità delle persone che entrano in monastero. Dove ci sono delle giovani, questo comporta inevitabilmente anche dei cambiamenti nei monasteri. Oggi, con il cambio generazionale, la giovane fa più fatica ad accettare certi lavori tipici di altri tempi, come il cucito. Anche nel lavoro, non solo come singole monache, ma come comunità, cerchiamo di compiere un cammino e di dare il meglio di noi stesse.

 

Ogni monastero è autonomo e indipendente dagli altri?

 

Sì, ogni monastero ha una sua totale autonomia. Da sempre, e, se così possiamo esprimerci, anche in piena democrazia. S. Chiara è stata la prima donna che nella storia ha scritto una regola per delle donne. I capisaldi della nostra vita, quelli che noi professiamo più convintamene sono la “santa unità” e la “altissima povertà”, per cui il principio di una autentica fraternità è per noi un principio importantissimo. Chiara, nella sua regola, affida le decisioni più importanti della vita del monastero a tutto il capitolo.

 

La federazione che ruolo occupa nella vostra vita monastica?

 

La federazione ha un ruolo essenzialmente di coordinamento tra un monastero e l’altro. Ma insieme svolge anche una funzione di aiuto a livello soprattutto formativo e informativo. Sono stati esperimentati anche dei noviziati e altre strutture di formazione a livello intercomuniario, dove ogni federazione poteva inviare le proprie formande. Ma per tutta una complessa serie di problemi, finora non si è camminato molto in questo senso.

 

Chi decide della chiusura di un monastero?

 

Nessuno può interferire dall’esterno sulla chiusura di un monastero. Teoricamente, neanche la Santa Sede! Il monastero si chiude con la morte dell’ultima sorella. Se in un monastero rimane un’unica sorella, questa, se lo desidera, si può aggregare a un altro monastero, ma nessuno la può costringere a compiere questo passo. Tutto questo risponde appunto al principio dell’autonomia, che poi, però di fatto, può dar luogo, a volte, anche a situazioni incresciose. Non dimentichiamoci mai che i primi monasteri erano tutte delle piccole roccaforti, con moltissime monache al loro interno. Erano monasteri dotati di grandissime strutture, nelle quali una monaca poteva anche trascorrervi, in pratica, tutta la sua esistenza, senza mettere piede al di fuori di quelle mura. Oggi, fin dalla formazione iniziale, c’è un’altra visione. Il monastero è sempre molto importante, un segno di fedeltà, però la vita che vi si vive al suo interno non è più quella di una volta. Tutte le nostre costituzioni sono state riviste in tempi molto recenti e hanno avuto l’approvazione della Santa Sede.

 

Il vescovo locale che ruolo ha sui vostri monasteri?

 

Per tradizione i monasteri possono essere dipendenti o dal vescovo locale o dal superiore della propria provincia francescana. Il passare da una dipendenza all’altra, dipende da tante cose, dipende soprattutto dalle tradizioni proprie di un determinato monastero.

 

L’autorità della madre abbadessa fin dove arriva?

 

In un certo senso il ruolo della sua autorità non costituisce un grosso problema, dal momento che per noi, nella vita concreta di tutti i giorni, c’è un continuo scambio reciproco fra le sorelle. Si condivide tutto. Non c’è nulla che la comunità non sappia. Non abbiamo nulla da nascondere.

C’è comunque il discretorio. Più che per governare, serve soprattutto per animare la vita della comunità. Il mandato di ogni abbadessa dura tre anni. Può essere rieletta per quattro trienni consecutivi. Per il terzo e il quarto triennio c’è comunque bisogno della postulazione presso la Santa Sede. Insieme all’abbadessa viene eletto appunto il discretorio, composto da una, tre o cinque consigliere, a seconda del numero delle sorelle del monastero. Ogni tre anni almeno una sorella del discretorio dev’essere cambiata.

La madre si avvale della collaborazione di queste sorelle soprattutto per portare avanti insieme un cammino. Più che di un governo vero e proprio, il ruolo del discretorio è quello di porsi realmente a servizio della comunità e per il bene della comunità.

 

Nell’immaginario collettivo i monasteri vengono spesso visti come i “parafulmini” della Chiesa e della società. È un’immagine che vi convince?

 

È un’immagine che, per la verità, non ci convince molto. Per rispondere a questa domanda ci si dovrebbe prima intendere sul concetto di vita consacrata contemplativa. Qui entrano in gioco diverse visioni di vita consacrata. Se in passato si poneva l’accento sugli “stati di perfezione”, oggi invece, pur nella specificità della nostra scelta, è più diffusa la tendenza a sentirci sorelle in mezzo a tutti gli altri, con un dono diverso, ma anche con delle responsabilità e con degli impegni comuni a tutti gli altri cristiani. Noi cerchiamo di vivere in modo più radicale gli stessi valori che ogni cristiano è chiamato a vivere. Se proprio vogliamo evidenziare la differenza che intercorre tra un battezzato e noi, potremmo rispondere che noi vorremmo essere appunto “un pochino più radicali” degli altri, nel senso più autenticamente evangelico del termine.

 

Comunque, sono sempre numerose le persone che si affidano alle vostre preghiere.

 

Giovanni Paolo II, in visita a un nostro monastero, una volta ha affidato espressamente alle nostre preghiere l’umanità intera. Siamo ben felici e disposte a pregare per quanti ce lo chiedono. Anche questo è un tratto specifico della nostra “radicalità” evangelica di cui parlavamo sopra. Ma siamo consapevoli che in questa richiesta ci potrebbe essere anche una deresponsabilizzazione da parte degli altri cristiani, quasi fossimo delegate solo noi alla preghiera. Noi vorremmo essere solo e soprattutto un segno di speranza per tutti, nel senso di ricordare sempre, a noi e agli altri, la priorità della relazione con Dio. È su questa relazione che poi di fatto si fonda la nostra missione.

 

Con la Chiesa locale che rapporto avete?

 

In diverse diocesi in cui siamo presenti, ci sembra di poter dire che i rapporti con i nostri vescovi sono molto buoni. Per quanto possiamo, collaboriamo attivamente in vari settori della pastorale diocesana, compresa quella giovanile, anche solo favorendo e mettendo a disposizione i nostri locali, quando richiesti, per degli incontri pastorali. In genere intercorrono buoni rapporti con la chiesa diocesana. Se a volte non mancano vescovi che possono avere dei problemi con la vita consacrata in genere, ne conosciamo tanti altri che ci stimano, ci aiutano a vivere, con fedeltà, la nostra vocazione, a respirare con due polmoni, sia con quello della chiesa locale che con quello della nostra vita contemplativa.

 

Che tipo di informazione passa in monastero?

 

Per certi versi, ne passa fin troppa! Vediamo il telegiornale, leggiamo il quotidiano cattolico. Non mancano anche altre riviste di vita consacrata – fra le quali, naturalmente, anche Testimoni! – e di formazione liturgica. Sul come vanno le cose nel mondo non mancano persone che si incaricano di tenerci sempre aggiornate. Anzi, qualcuno dice che per essere informati su quello che avviene nel mondo, basta telefonare alle clarisse! All’occorrenza facciamo anche un uso intelligente e discreto di internet. Grazie al sito “Vidimusdominum” abbiamo potuto seguire i lavori del congresso internazionale sulla vita consacrata. Ma la nostra giornata è già talmente impegnata che non possiamo certo perdere tempo navigando in rete.

 

Il termine “clausura”, anche nei nostri ambienti, è sinonimo di segregazione, quasi di una certa chiusura anche mentale che invece non corrisponde alla verità. Non avete mai pensato di sostituirlo con un termine più significativo?

 

È forse il caso di ricordare, una volta ancora, che noi non siamo solo suore di clausura, ma anche e soprattutto di vita integralmente contemplativa. Solo in funzione di questa scelta può avere senso anche la clausura. A noi comunque preme di più porre in evidenza quello che siamo.

Non è facile trovare un termine alternativo a quello di clausura. Quando noi promettiamo di vivere in obbedienza, senza nulla di proprio, nella castità e in clausura, è un po’ complicato sostituire questo termine. Non dimentichiamo che la clausura com’era vissuta 30 anni fa non è più quella di oggi. Oggi sono cambiate molto le cose. La clausura è solo uno strumento per vivere in maniera più profonda la nostra vita contemplativa. Più che la forma, a noi interessa la sostanza. Quando la Chiesa ci chiederà di toglierla, lo faremo senza la minima esitazione. Con il cambio generazionale delle persone in corso, cambieranno inevitabilmente anche certe forme esterne di vivere la nostra consacrazione.

 

Se una giovane vi chiedesse il perché vi siete fatte suore di clausura?

 

La risposta è semplice, almeno per noi, e cioè perché il Signore ci ha chiamato. Non ci siamo mai chiesti perché mai una ragazza si innamora di un ragazzo piuttosto che di un altro? Potremmo rispondere che questo avviene per tante ragioni e per nessuna ragione insieme. Non sempre è il ragazzo più bello e più intelligente. Ogni vocazione, ogni forma di vita dipende dal tipo di desiderio che Dio ha messo nel cuore delle persone. In noi ha posto il desiderio della vita contemplativa. Non possiamo che gioirne interiormente e ringraziarlo.

 

a cura di Angelo Arrighini