UNA LETTERA DI P. WILHELM STECKLING

UNA MISSIONE OBBEDIENTE

 

L’ascolto attento della volontà del Padre e verso il prossimo armonizza l’obbedienza con gli altri voti religiosi e le dà, per gli Oblati di Maria Immacolata,

un valore speciale.

 

«Missionari per obbedienza»: così recita il titolo della nona lettera, datata maggio 2005, che il superiore generale p. Wilhelm Steckling ha indirizzato ai suoi religiosi, gli Oblati di Maria Immacolata (OMI). Un titolo che non contrasta con l’idea che comunemente si ha della vocazione missionaria, intesa come segnata nel profondo da una tendenza personale irresistibile a partire ad gentes e vivere tra loro in nome del Vangelo, e dunque indirizzare la scelta di vita consacrata verso un istituto propriamente missionario, dove quella tendenza possa avere la migliore attuazione per la vita del chiamato e per la missione della Chiesa.

Missionari per obbedienza, dunque, non perché “costretti” da un mandato dell’autorità religiosa ma perché sono divenuti per vocazione parte viva di un corpo missionario animato dal voto di obbedienza nello stesso senso in cui esso è animato dai voti di castità e di povertà, che il carisma proprio rende fonti sempre rinnovate di missionarietà.

Con due precedenti lettere, infatti, il superiore generale della congregazione fondata da s. Eugenio de Mazenod aveva invitato gli OMI a riflettere sui voti di castità e di povertà che egli qualifica, con quello di obbedienza, «sorgenti di vitalità» sia per la vita di ciascuno che «per la missione oblata. Le due realtà vanno insieme; praticando i voti, diventiamo missionari».

«Scegliendo il voto di povertà – scrive – riveliamo al mondo un modo per diventare ricchi agli occhi di Dio. Il celibato consacrato ha lo scopo di parlare agli altri dell’amore di Cristo. La nostra oblazione, con il voto di obbedienza, nasconde un tesoro per l’evangelizzazione del mondo: consacriamo la dimensione di tempo, ogni istante della vita, al disegno di salvezza di Dio e lo facciamo insieme, sotto la guida dei superiori»: protesi alla libertà dello Spirito e in costante atteggiamento di ascolto.

 

CERCANDO

LIBERTÀ

 

L’obbedienza cristiana esiste solo per aprire la porta alla libertà evangelica nella nostra vita, prima ancora di proclamarla agli altri» con l’azione evangelizzatrice. È questo il primo pensiero che p. Wilhelm espone nella sua nona lettera proiettandone il senso anche sugli altri voti nella spiritualità degli Oblati: obbedienza – ribadisce – come ascolto e quindi apertura alla libertà dello Spirito e alle singole persone nonché verso le necessità di un mondo che è amato anzitutto da Dio.

Farsi missionari nell’obbedienza è possibile mediante l’impegno perseverante a diventare sempre più persone libere: «Divenendo membri di un istituto missionario, abbiamo spezzato vari legami, ci siamo liberati da molte preoccupazioni. In cambio, abbiamo guadagnato la libertà di lavorare per i poveri, senza alcun ostacolo nell’impegno di annunciare loro il Vangelo. È in funzione di tale fine che possiamo liberamente prendere il tempo di riflettere, di pregare, di prepararci prima di incamminarci per le vie del mondo con cuore leggero. Infatti, come Oblati, godiamo di una meravigliosa libertà per compiere la nostra missione!».

Tutto ciò non toglie – aggiunge – che si abbia a che fare anche con altri aspetti del voto di obbedienza in relazione alla libertà, come ad esempio quello della disciplina e della perseveranza. Occorre ammetterlo, infatti: «Sentendo la parola obbedienza difficilmente pensiamo alla libertà», mentre verrebbe spontaneo accostarla al termine disciplina.

Certamente – prosegue la lettera – associando l’obbedienza alla disciplina proviamo un certo disagio; eppure, come dimostra anche l’esperienza di ogni raggruppamento umano importante, «la disciplina e l’ordine sono necessari in una congregazione religiosa che voglia funzionare come corpo missionario»; e pertanto, mentre si ama una vocazione missionaria informata alla libertà cristiana che è fonte di gioia, si deve pure «pagare il prezzo di una certa disciplina», non sulla base di un ragionamento puramente umano, ma passando a una più alta dimensione che è quella della fede, nella quale soltanto cessa l’opposizione tra libertà e obbedienza.

 

IN CRISTO

OBBEDIENTE

 

Un ascolto attento che apre senza riserve lo sguardo alla volontà del Padre e in quella volontà vede il prossimo e ne ascolta la parola in qualsiasi modo espressa: è il cuore dell’identità di Gesù – leggiamo ancora nella lettera ai missionari OMI – e nessuna missione obbediente può prescindere dall’esempio unico di lui. «Durante la permanenza sulla terra, nella sua limitata esistenza umana, questa obbedienza ha la sua espressione nel fatto che egli è il missionario del Padre, il cui nutrimento è fare la volontà del Padre», e compierla nell’ascolto e nell’obbedienza colmi d’amore fino alla croce.

Le stesse costituzioni proprie – osserva il superiore generale – impegnano a tal punto gli OMI: “Sforzandosi di riprodurlo nella propria vita, si fanno obbedienti al Padre, anche fino alla morte, mettendosi al servizio del popolo di Dio con amore disinteressato” (Cost.OMI/2).

Tradurre tutto ciò nel quotidiano della vita missionaria esige il perseverare (altro verbo tipico della spiritualità/OMI) su un piano alto dell’imitazione di Gesù, per cui torna continuamente, nel pensiero espresso dal generale, il senso dell’ascolto caratterizzante l’obbedienza nella fede come via assoluta per raggiungere la conformità all’immagine del Figlio; torna il senso dell’apertura allo Spirito d’amore, come persona della divina Trinità e come modalità di approccio ai fratelli, così che «tutto diventa amore e questo amore si riversa sul prossimo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”».

E qui la lettera considera con realismo anche un aspetto particolare dell’amore al prossimo che è come un rischio nel vivere, pur ben motivati, la dimensione ecclesiale della missionarietà. «Avendo delle responsabilità nella Chiesa, ci riesce difficile accettare di stare dalla parte degli obbedienti come gli altri discepoli di Cristo. Di fatto, ogni prete o fratello esercita, in un modo o in un altro, nel ministero una certa autorità, nelle missioni, parrocchie, scuole, ecc. sia come superiore o in virtù di certi privilegi».

Ma non c’è strada diversa, per i missionari, da quella che impegna a riprodurre il modello del Cristo, il primo inviato, che dipende con amore filiale dalla volontà del Padre; è la strada in qualche caso ardua ma necessaria di un vero cammino di libertà; cammino di un’obbedienza che arriva – scrive ancora p. Steckling – a suscitare la verità, verità su se stessi che è fonte di umiltà nella constatazione dei propri limiti non solo creaturali, e la verità circa l’autorità umana: da una parte, infatti, «non troveremo la nostra pienezza senza accettare la realtà... Ci sentiamo fortemente incoraggiati a farlo, per il fatto che Cristo stesso ha accettato tale condizione. Se continuiamo a sognare l’onnipotenza, che caratterizza l’infanzia e l’adolescenza, ci ritroveremo chiusi in un mondo di sogni. Se ci imponiamo dei limiti obbedendo alla verità, raggiungeremo paradossalmente la libertà». E dall’altra parte: «Obbedendo a Dio solo, accettando la verità della nostra condizione umana, potremo accettare le manifestazioni della volontà di Dio trasmessaci da persone umane». E ciò sapendo distinguere tra una falsa obbedienza, che è quella servile, «imposta a volte in modo abusivo da autorità che pretendevano parlare in nome di Dio, ma solo per perseguire i propri fini», e l’obbedienza vera, la quale riconosce la legittima autorità grazie a una formazione che «conduce a comportarsi con maturità verso i fratelli e verso quanti sono costituiti in autorità».

 

NELLO SPIRITO

OBLATO

 

Informata all’ascolto e alla libertà è naturalmente, sulla base delle costituzioni proprie e del patrimonio storico della congregazione, la spiritualità degli Oblati alla quale p. Steckling attinge nella parte della lettera che dedica all’obbedienza da vivere nell’oggi missionario dell’istituto. Così egli cita senz’altro il fondatore s. Eugenio in sue espressioni belle e ricche di un’esperienza che lo rendeva «contento di tutto e veramente felice sotto il dolce governo dell’obbedienza»; ma cita pure, di lui, parole forti esortanti all’obbedienza, fedele «nel conformarsi allo spirito e alla lettera delle costituzioni».

Una interessante osservazione di p. Wilhelm rileva la saggezza di Eugenio riguardo a quello che oggi chiamiamo principio di sussidiarietà e che gli fece dettare, per una lettera circolare ai superiori locali, queste parole: «Il superiore locale, pur vegliando a tutto e su tutti, deve lasciare a ognuno, secondo la regola, lo spazio necessario nel fare il bene e anche per adempiere i propri doveri in casa e fuori(...); ma non conviene che intervenga in tutto e si metta personalmente in tutto. Resti al suo posto!».

Tratti di un senso più rigido dell’obbedienza propri della spiritualità dell’ottocento nella vita religiosa verranno eliminati del tutto nella tradizione/OMI successiva al concilio Vaticano II con le costituzioni rinnovate. In queste, articoli molto belli ribadiscono un voto di obbedienza che rende servitori di tutti e testimoni di un mondo nel quale le persone si riconoscono dipendenti le une dalle altre; e ricordano che anche i superiori «sono chiamati a servire come uomini di fede e di preghiera: in spirito di umiltà e di obbedienza sincere, chiederanno lumi a Dio, come pure consiglio ai fratelli» (Cost.OMI/82).

È la linea ribadita anche nei capitoli generali finora celebrati nell’istituto e ai quali l’ultima parte della lettera fa riferimento, prima di proporre una lettura dell’oggi che impegna a vivere l’obbedienza come non mai in ascolto attento e con cuore libero: da singoli religiosi che formano tuttavia una comunità missionaria responsabile di un annuncio credibile del Vangelo di Gesù e in un presente variamente problematico.

 

OBBEDIENTI

NELL’OGGI

 

Il superiore generale attira pertanto l’attenzione su tre odierni atteggiamenti culturali che contrastano con la vita consacrata e in particolare con il significato stesso, oltre che con il voto, di obbedienza.

Il primo di tali atteggiamenti riguarda la spiritualità personale, aggredita da una cultura che diffida dell’ascolto di osservazioni altrui e propone una filosofia dell’autonomia, la quale «con la sua ricerca di autorealizzazione può prendere una tale importanza da farci perdere i punti di riferimento e farci andare alla deriva»; il secondo tratto verte sulla testimonianza comunitaria, insidiata da un approccio individualista che scoraggia una riflessione comune sui problemi; e il terzo mostra uno spirito di corpo stravolto dalla tendenza a creare nelle comunità altrettanti «isolotti di benessere piuttosto che la cura del bene comune e dei progetti d’insieme».    

Tuttavia – scrive p. Steckling – vivere il voto di obbedienza nella sua radicalità entro la situazione culturale odierna può essere «un rimedio a tutto ciò; non esclude la realizzazione della persona ma stabilisce una gerarchia di valori. Siamo entrati nell’istituto per essere mandati e impegnarci a perdere la vita per il bene altrui. Lì un religioso troverà la sua realizzazione personale e non in un progetto di vita autonomo».

Anche la tensione che si può creare tra il carisma personale e quello comunitario, specialmente davanti al fascino di “progetti missionari” personali – scoraggiati, del resto, nella tradizione OMI – può essere superata mediante «una intensa vita spirituale vissuta alla presenza di Dio». Dio cercato nell’intimità di un rapporto da figlio al Padre, da fratello a Cristo obbediente fino alla croce, ma pure in quella sincera condivisione che nello spirito di obbedienza «ha la capacità di vincere l’individualismo e di costruire la comunità», conferendo nello stesso tempo una nuova qualità alla missione.

Infine il superiore generale degli OMI sottolinea il fatto che la qualità di vita nelle comunità dipende anche dagli animatori e quanto sia necessario raccomandare la formazione dei superiori e di coloro che sono partecipi dell’autorità, poiché «il bisogno di superiori che siano veri capi» rimane sempre. Tanto più oggi, mentre occorre guidare le comunità a «prendere sul serio l’internazionalità, che vuol dire riconoscere la necessità di una cooperazione che oltrepassi le frontiere, mettendo in gioco la nostra disponibilità a dare e a ricevere», nell’impegno missionario di condurre quanti vi sono chiamati nel disegno di Dio all’obbedienza della fede.

 

Zelia Pani