RELAZIONE DI BRUNO SECONDIN ALL’ASSEMBLEA USG

NUOVI ORIZZONTI DAL CONGRESSO

 

Una ricchezza congressuale forse sottovalutata. Nuovi modelli e nuovi paradigmi di vita consacrata già in atto. Felicemente sorpresi dalla ricchezza del linguaggio e dalle provocazioni. Ricreare la spiritualità e aprire nuovi percorsi teologici, dentro e non fuori dalla storia quotidiana. Demolire mitologie e criteri antievangelici, in attesa di intraprendere altri esodi.

 

Non è stato facile lasciare decantare le emozioni e le impressioni dopo un congresso così imponente per numero di partecipanti, per complessità di organizzazione, per ricchezza di idee e di differenze. Per cui la prima sensazione che restava era quella di aver partecipato a un evento che è stato allo stesso tempo confuso e suggestivo, provocatorio e non privo di una certa perplessità, creativo e ripetitivo. Dico perplessità a motivo della mancanza di immediate opzioni forti e condivise: tutto è rimasto come sospeso a mezz’aria, in attesa di una decantazione che faccia discernimento delle prospettive più valide e anche riesca a ridimensionare sensazioni e delusioni.

Alla lettura degli Atti – che per fortuna sono apparsi velocemente nelle varie lingue – uno si domanda come mai tanta ricchezza non è stata colta nella sua qualità, ma si è mescolata con altri interessi, più di scenografia e di contorno. La delusione per la mancata udienza del papa, il ritardo della stesura definitiva della sintesi finale, una scarsa conoscenza reciproca nella grande massa dei tavoli e nella babele delle lingue, la frammentarietà degli interventi diretti liberi, la sensazione poco luminosa che dava il salone delle riunioni, perfino il tempo piovoso di Roma, ecc., sono stati elementi di contorno senza alcun valore. Ma lì per lì sembravano quasi alla pari con la sostanza delle prospettive teologiche, carismatiche, ecclesiali, culturali. Per questo c’è stato bisogno di ritornare alla quies del proprio habitat, per ritrovare le coordinate giuste e per interpretare e per rileggere.

 

A distanza ormai di sei mesi, e dopo aver più volte riflettuto sugli esiti e gli orizzonti emersi nel e dal congresso, mi pare che si possa riconoscere una serie di proiezioni affermate con molta chiarezza attraverso tutto l’evento. Sono finestre che si aprono e orizzonti che si allargano, ma sono anche sfide e opportunità. Ne scelgo una decina, fra le tante che potrebbero venire in mente. Spero che bastino per suscitare interesse.

 

UN CAMMINO

INSIEME

 

La sinergia è stata una chance e una sfida. Sia nel lungo cammino della preparazione del congresso in tutti i suoi aspetti, sia nella stessa celebrazione romana del grande incontro, è apparso chiaro che il lavoro va fatto insieme fra uomini e donne, fra differenti appartenenze carismatiche e sensibilità culturali, fra generazioni molteplici. Il gioco della collaborazione e della corresponsabilità non è solo apparso visibilmente nei momenti pubblici, ma è stato un lungo e intenso cammino di rispetto, di fiducia, di attesa, di dialogo, di sintesi negli anni di preparazione. Bisogna ora che questa macro-esperienza si diffonda capillarmente in tutti gli ambiti e i contesti, superando reciproche diffidenze, abitudini di autarchia e di marginalità, creando vortici locali di incontri e sinergie. E non si tratta solo di lavorare insieme con fiducia e corresponsabilità, ma anche di discernere insieme, di celebrare e intuire insieme, di intrecciare anche le tradizioni spirituali e carismatiche in nuovi progetti di vicinanza e di fraternità, di comunione e forse anche di unione giuridica.

Credo che molti partecipanti silenziosamente si siano convinti che è urgente non tanto declamare la propria differenza, ma piuttosto fecondare la convergenza in molti campi di formazione e di attività, di memoria e di profezia. Specialmente quando i carismi provengono da una stessa matrice storica e spirituale, e per la cui fecondità oggi si chiede di sfidare chiusure e paure, per convergere e collaborare, fino anche a condividere e intrecciarsi. È finito il tempo di dare alle scissioni storiche il senso di una provvidenziale opportunità, bisogna smetterla di vedere in ogni separazione del passato – non esenti da fanatismi e egoismi umani – un impulso carismatico. Oggi queste autocertificazioni sono spesso una fonte di debolezza e la negazione della convivialità feconda e testimoniante.

La sinergia deve ampliarsi ancora, anzitutto includendo, con più chiarezza ed efficacia alcune forme di vita consacrata rimaste al margine nel congresso: penso alla vita monastica maschile e femminile, agli istituti secolari, alle nuove comunità, alle tradizioni monastiche non cattoliche, dagli ortodossi che ereditano il monachesimo classico, alle modalità evangeliche e anglicane.

Ma penso anche alla sinergia con i laici: questo proliferare di nuove esperienze attorno a molte famiglie religiose, in cui i laici hanno un ruolo molto evidente, esige che si passi dalla curiosità e dalla benevolenza, alla strategia della corresponsabilità, al riconoscimento di una creatività nuova nell’incarnazione delle virtualità dei carismi e infine a modelli giuridici più aperti e inclusivi, non puramente paternalistici o di buon vicinato.

 

NUOVI MODELLI

GIÀ IN ATTO

 

Sono in molti a domandare in che cosa consiste il nuovo modello di vita consacrata, quali ne sono le caratteristiche, come riuscire a riconoscerlo. Vedo nella domanda qualche problema di sincerità e di discernimento. Chi ha conosciuto la vita consacrata che si viveva all’epoca del concilio, e la confronta con l’ attuale realtà della vita consacrata, può facilmente constatare che le due esperienze toto coelo differunt. La fisionomia anche esterna è profondamente cambiata: dall’abito agli orari, dall’ambiente di vita alle forme di comunicazione, dall’esercizio dell’autorità all’attività apostolica, dal rapporto tra persone alla relazione con i laici, dalle modalità economiche alla forma della liturgia. Dalla prassi del rinnovamento è germogliato di fatto un nuovo modello, anzi si potrebbe dire, un nuovo paradigma. Non sono stati inutili questi 40 anni dal concilio: e gli interventi dei latinoamericani, degli africani e degli asiatici al congresso lo hanno dimostrato.

Ma soprattutto i grandi assi della spiritualità sono profondamente cambiati e ricreati. Si pensi al linguaggio e alla spiritualità che circondava i voti: nessuno più parla di distinzione fra voto e virtù, ma piuttosto si collocano i “consigli evangelici” nel grande orizzonte biblico del radicalismo, che comprende molte più cose. La stessa vita in comune, su cui tanto si insisteva, in vista della “regolare osservanza”, ormai è caratterizzata dall’insistenza sulla dimensione fraterna, dialogante, orizzontale, rispettosa delle diversità antropologiche e caratteriali, dei contesti ecclesiali, culturali e sociali.

La spiritualità vissuta e praticata si è fatta decisamente biblica e liturgica, creativa e raffinata, meno spersonalizzante e meno legata alle molteplici pratiche ascetiche obsolete. Veramente sono sparite montagne di pratiche pie, e tutto è diventato più essenziale, e anche più partecipato e relazionale. La “fuga mundi” e tutta la costellazione di precauzioni che la accompagnava oggi non ha più senso né vocabolario a proprio servizio. Anzi, si insiste perché gli elementi essenziali e qualificanti della vita consacrata – imitando quanto propone il papa in Vita consecrata (84-95),dove parla dei voti, della comunità, della liturgia e della lectio divina – siano vissuti come una “testimonianza profetica di fronte alle grandi sfide”, operando con intenti di cultura alternativa e insieme di “terapia spirituale per l’umanità”(VC 87).

Le grandi opere, così tipiche del modello anteriore, sono ormai in via di smantellamento, per lasciare il protagonismo a forme più flessibili, provvisorie, sperimentali, in mezzo alle nuove povertà e alle nuove emergenze. E di conseguenza gli itinerari formativi in vista della corresponsabilità nella missione dell’istituto di appartenenza, si sviluppano nel rispetto delle doti personali e non in supporto della funzionalità ed efficienza delle attività esistenti. Questo comporta non solo la chiusura di attività troppo pesanti o anche di supplenza ormai inutile, ma l’esplorazione di nuovi modelli e spazi di diaconia, guidati dal primato delle esigenze dei poveri, con nuove forme di risposta alle emergenze in ogni campo. Ne consegue che anche lo stile di governo si è visto costretto a grandi cambiamenti di senso e di priorità, di corresponsabilità e di progettazione: non più vigilantes della disciplina e fautori di sottomissione, ma guide al discernimento, ispiratori di iniziative profetiche, garanti di un dialogo a rete, efficace e partecipato, non strozzato dal centralismo o dal verticismo.

Il “nuovo modello” di vita consacrata, perciò, è già ampiamente in atto. Eppure ha bisogno di altri esodi, di altre esplorazioni coraggiose e appassionate, di rischi profetici e creatività sapiente. La fragilità che stiamo patendo in tanti settori, può essere il grembo di una grande fecondità. Il Signore ci chiede di crescere con lui, portandoci “oltre”. E la più autentica e sana spiritualità che viviamo può essere il grembo per nuove stagioni di profezia e di libertà. Bisogna però migliorare ancora la nostra spiritualità.

 

LA VERA

SORGENTE

 

La parola di Dio può ancora darci ispirazione originale, che ci costringe a fare delle riflessioni meno ripetitive e pigre. Da sempre i carismi di fondazione hanno trovato alimento e ispirazione nella Parola biblica, in particolare nei vangeli e nella ecclesiae primitivae forma. Resta un paradigma ancora valido ed efficiente. Lo si è visto molto bene nella ispirazione biblica del Documento di lavoro: è stato possibile esprimere molti dei valori tradizionali della vita consacrata, ma in linguaggio diverso e orizzonti nuovi, e tutti da esplorare. Con lo stimolo e il sostegno delle due icone non usuali abbiamo potuto dire noviter ciò che era classico come valore, ma ripetitivo come linguaggio.

Molti sono rimasti sorpresi, anche felicemente sorpresi, da questa ricchezza e freschezza rinnovatrice di linguaggio e di provocazioni. Sarebbe opportuno per l’avvenire che questo esercizio di scavo e di illuminazione – di cui anche Vita consecrata ci aveva dato un esempio molto interessante con la icona della Trasfigurazione – venisse continuato per l’avvenire. Ma non solo in prospettive ampie e generali, ma con migliore pertinenza e precisione anche per quanto riguarda, per esempio, i cosiddetti “consigli evangelici” e il radicalismo evangelico, i modelli di comunità, la passione per l’umanità, la dimensione profetica e escatologica.

Appare evidente oggi, che molte risorse bibliche usate dalla tradizione devono essere sottoposte a una migliore verifica esegetica e teologica, per purificarle da letture ideologiche che le strumentalizzano. E nello stesso tempo si deve introdurre come vincolante tutta una serie di “consigli” di radicalità che – pur essendo ben attestati nel Vangelo e nella parola di Dio (cf. gli studi di Th. Matura) – tuttavia sono stati confinati al settore della spiritualità personale e delle buone virtù della gente fervorosa. Si pensi all’impegno per la giustizia, al perdono e alla riconciliazione, all’ascolto obbediente della parola, alla preghiera assidua, alla centralità dei piccoli, alla fraternità e al servizio: sono consigli molto più chiari ed evidenti di quelli che in questo secondo millennio sono stati isolati e assolutizzati per farne la sostanza dei voti ( i così detti tria substantialia).

 

LA VITA

NELLO SPIRITO

 

Rielaborare la spiritualità coniugando radicalità della fede e prossimità empatica: questa esigenza si pone come prolungamento della indicazione detta ora sopra, ma anche come rielaborazione di tutta la dinamica della vita nello Spirito. Abbiamo ereditato un enorme patrimonio di esperienze e di schemi orientativi, frutto di storie prima vissute e poi rielaborate alla luce dei grandi paradigmi teologici e delle esigenze ecclesiali.

Ma proprio il ritorno alla centralità della Parola nella vita della Chiesa e nell’esperienza cristiana oggi, il recupero del mistero pasquale come criterio dinamico di autenticità, la koinonia tou Theou come dono teologale nel cuore della Chiesa, devono portare le loro conseguenze, purificatrici anzitutto, e poi anche liberatrici e trasformatrici in tutta la sintesi della spiritualità che i consacrati vivono e propongono. Non si tratta solo di dare una “verniciata”(cf. EN 20) alle cose di sempre, perché appaiano un po’ nuove. Si tratta di ritrovare il vero primato della Parola e delle sue grandi categorie, della Pasqua e della koinonia, come virtualità attive, come mediazioni sacramentali non puramente verbali ma efficaci, per la nostra storia e la nostra vita nello Spirito.

Troppo facilmente anche la parola di Dio si trasforma in supporto devoto per vecchi schemi, in dolcificante per paradigmi ormai aspri, obsoleti e amari, elaborati in altri contesti culturali dove regnava l’ascetismo volontaristico e l’individualismo spirituale.

La riplasmazione della spiritualità non può avvenire se non dando la possibilità alla Parola di realizzarsi davvero come “sorgente pura e perenne di vita spirituale” (DV 21). Sorgente cioè, e non pura benedizione di progetti ispirati da altre antropologie e da altre sensibilità di fede e di speranza.

La lectio divina pertanto – mi limito ad un esempio – non può che essere il tramite privilegiato per una “rigenerazione” totale e radicale che nessuna illuminazione teologica può garantire, e neppure nessuna pianificazione ecclesiale può pretendere di realizzare. Il metodo usato dal congresso nell’illuminare con la Parola la realtà e così aprire la strada al giudicare e all’agire, deve proseguire, con maggiore ampiezza e profondità, per scrostare schemi idolatricamente sacralizzati, e incoraggiare tutti ad aprire nuove stagioni di creatività e di esplorazione, guidati e alimentati dalla Parola. La centralità della Parola è evidente in tutte le fasi di rinnovamento creativo della vita consacrata: è una costante da notare.

 

UNA TEOLOGIA

DEL VISSUTO

 

Una delle preoccupazioni dette esplicitamente nel congresso era quella di non ripetere le teologie già note. Certamente non abbiamo bisogno di una teologia della vita consacrata in più, da aggiungere alle altre che già sono numerose. Tuttavia questo non significa che non si debba prendere sul serio la riflessione teologica, specialmente per quanto riguarda la identità della vita consacrata nella Chiesa e dentro la storia.

Proprio perché c’è un grande fermento di nuove prassi, abbiamo bisogno di tematizzare il vissuto, che nasce anche per impulso dello Spirito. Forse nel passato recente a volte le proposte teologiche erano elaborazioni di teologi pensatori, i quali si auguravano che nella prassi potessero, in seguito, anche funzionare. Erano proposte suggestive, forse al limite anche utopiche in certi passaggi, che però nella realtà faticavano a prendere corpo. Oggi siamo stanchi di questo genere di teologie; mentre la prassi per frammenti e provvisorietà sta esplorando nuovi sentieri e nuovi orizzonti. Abbiamo pertanto bisogno di una riflessione teologica su queste nuove prassi.

Non per ricondurre ai vecchi schemi anche il nuovo, ma per scoprire nel nuovo sia la continuità con i nuclei anteriori, che le nuove stagioni inedite donate dallo Spirito e che esigono discernimento e sistematizzazione. Per questo abbiamo bisogno di una “parola seconda” – come è la riflessione teologica sul vissuto – che dia alla nuova prassi una interpretazione onesta ma anche incoraggiante, consolidandola nei suoi valori portanti, ma anche segnalando ulteriori passaggi di conferma.

La diminuita passione per la riflessione teologica, evidente negli ultimi decenni, ha forse ottenuto il vantaggio positivo che il valore della prassi ha preso vigore e attenzione. Ma sentiamo che bisogna tornare a pensare grezzo, ad elaborare di nuovo una visione teorica che dia robustezza alla stessa prassi, la orienti e la consolidi.

Una congregazione o un istituto che non apprezza né stimola la riflessione teologica dei suoi esperti, si impoverisce di ragioni di vita e di sapienza orientatrice per la sua stessa prassi. E l’interpretazione del carisma rischia di essere lasciata alla superficialità e avventatezza delle iniziative (cf. VC 98) o alla pura ripetizione ideologica di formule e schemi fuori della vita.

 

SPORCARSI

LE MANI

 

La storia attuale è ancora un kairòs provvidenziale per ripensare radicalmente le ragioni e gli orizzonti della nostra vita. Nel congresso, attraverso le varie relazioni e tutti i lavori di gruppo, è apparso evidente a tutti che stiamo vivendo avvenimenti specifici (come l’onda lunga dopo la caduta del muro di Berlino e il trauma dopo l’11 settembre 2001) che si sono trasformati in cataclismi che non consentono un ritorno allo status quo. Ma anche i mega trends palesi o silenziosi di cui s’è parlato parecchio nel congresso – e che sono grosso modo riconducibili alla postmodernità, di cui però non è ancora chiaro il contorno e la specificità – hanno mostrato che influenzano pervasivamente pensieri e stili di vita, emozioni e processi di identificazione. La relazione di J.B. Libânio è stata molto illuminatrice su questi punti.

Questa lettura delle chances e delle sfide per la vita consacrata – in controluce con i nodi e le utopie del mondo contemporaneo – ha dimostrato, a chi vuol capire, che non possiamo attardarci a distillare criteri di identità e di funzione ecclesiale o storica limitandoci al mondo delle essenze, alle idee astratte chiare e distinte, a una visione distaccata e catara rispetto alla storia.

Ma solo scendendo dalle nostre cavalcature e dalle nostre precauzioni di purità e di legalità, possiamo ritrovare senso e funzione, linguaggi e presenze trasformatrici, entusiasmo nuovo e solidarietà concentriche.

Nel congresso è emersa molto bene una grande fiducia nelle possibilità – dei consacrati di oggi – di abitare questa storia con capacità di discernimento e di vigilanza critica, ma anche con l’arte maieutica di cercare di far emergere dal proprio seno nuove stagioni di giustizia e di autenticità, di fraternità e di guarigione. Bisogna continuare a “stare di sentinella” su questa storia ormai dilatata a dimensioni globali, rendendosi interpreti lucidi e liberi delle esigenze evangeliche ma anche lanciando segnali in grado di suscitare speranza e coraggio di vivere. Dobbiamo sporcarci le mani e intervenire per riparare gli esiti e le distruzioni degli tsunami catastrofici a livello terrestre, ma anche attraversare con cuore appassionato e occhio vigilante quelli morali e spirituali, meno appariscenti e che pure sconquassano valori e significati della vita, e (forse) in maniera ancora più irreversibile.

 

ROTTURE

STRATEGICHE

 

Un altro modello di vita consacrata è pensabile e possibile: anche se non si riesce ancora a delinearne bene i contorni. La difficoltà reale deriva dal fatto che il modello in uso nell’ultimo secolo – sacralizzato in mille maniere da santi e tradizioni – è così totalizzante e tetragono, che non riusciamo facilmente a smontarlo, nemmeno per parti. Eppure proprio questa scomposizione del monolito, cominciando da alcuni elementi importanti, è operazione necessaria se si vuole avviare un processo ristrutturante significativo. Finchè si gira attorno a questa specie di “pietra nera” intangibile e monoblocco, non se ne viene a capo per i cambiamenti.

Allora bisogna procedere per parti, strategicamente significative, anche tali procedimenti se esigono certezze provvisorie e vigilanza critica, e non mancheranno allarmi e avvertimenti inquisitori. È quello che è avvenuto nell’aggiornamento postconciliare, con qualche errore e rischio, ma anche con molti vantaggi. Bisogna individuare percorsi strategici.

Sotto questo profilo, al congresso è apparsa indovinata la scelta dei due settori chiave del governo e della formazione. Possiamo dire che da questa testa e da questo cuore dipendono tutte le altre funzioni vitali. Una nuova fase nella riplasmazione dei modelli sta in realtà emergendo con l’apparire delle nuove forme di vita consacrata formate da laici e chierici, celibi e sposati, uomini e donne, perfino credenti e non credenti. Si tratta di dare forma alla religiosità della vita, alla passione e compassione per l’umanità, alla danza e alla fatica, alla solidarietà e alla guarigione delle ferite del cuore. A me pare che per troppo tempo e in maniera esagerata la vita consacrata si è plasmata secondo le categorie di un perfezionismo erculeo che poco aveva a che fare con la categoria evangelica dei piccoli, dei poveri, degli ultimi.

Troppe volte i consacrati si sono identificati con le grandi strutture e i criteri dell’efficienza e della visibilità onnipotente. Eccessiva enfasi è stata data alla diversità e anche alla superiorità, e anche alla superbia (teorica e farisaica, spesso) di una vita che intenzionalmente avrebbe dovuto esprimere, invece, maggiore vicinanza al colui “che è venuto per servire e dare la vita”(Mc 10,45), e si è identificato “con il più piccolo dei fratelli” (cf. Mt 25,40.46). Un nuovo modello di vita consacrata nascerà e si consoliderà nella misura in cui il principio della compassione, della empatia, della prossimità commossa, ma anche del dialogo a cuore aperto, della vulnerabilità e del rispetto paziente e guaritore, si faranno sacramento che plasma la vita.

Troppe volte i consacrati ritengono (o hanno ritenuto) che questi valori detti “del mondo” siano la negazione della loro “identità” di specialisti della sequela e della santità. Invece proprio recuperando questi valori, nella società oggi resi marginali e niente affatto ricercati, rinascerà la vita consacrata: forse meno numerosa, meno appariscente, ma certamente ispiratrice di altre forme di esistenza e di utopie. Logicamente per arrivare su questa soglia, bisogna che si accetti che tutto il sistema – attività di diaconia e visioni teologiche, criteri di discernimento e linguaggi/itinerari della formazione, percorsi di mistagogia spirituale e modalità di gestire la responsabilità – si alleggerisca, diventi flessibile e ricco di improvvisazione, generi protagonisti audaci nel rischio, ma anche pazienti e fiduciosi nei mezzi semplici e fragili. È questa la convinzione ribadita nella sintesi conclusiva del congresso.

 

LA FORZA

DELLA FERIALITà

 

Vivere il quotidiano lasciandosi sorprendere: è uno degli insegnamenti spontanei che si ricavano dalle due icone guida del congresso. La samaritana conosce il quotidiano andare al pozzo, noioso e in orario che indicava una cura di nascondersi; e il samaritano fa quell’incontro imprevisto sulla strada che doveva portarlo verso altre mete e altre urgenze: episodi che indicano come sulle strade del quotidiano si fanno incontri che possono avere significati di infinito. Molte volte la vita consacrata si è esercitata nella profezia e nella diaconia più luminose attraverso incontri semplici, quotidiani, terra terra: misurandosi così con le ferite e le domande che vengono dal mondo reale, con le inquietudini che di fatto tormentano le persone concrete, e richiedono risposte concrete e interlocutori dotati di prossimità fattiva, di bende e olio e vino, una brocca o due denari e una semplice cavalcatura.

Applicando in prospettiva di futuro, direi che si dovrà recuperare, con più decisione e determinazione, il radicamento nel contesto concreto, storico, locale, se si vuole che abbia senso la funzione e la profezia della vita consacrata. Troppe volte per amore di concordia e di comunione trasversale e globale, la profezia si evapora in propositi generici, in slogans roboanti ma distanti dalla realtà sanguinante e dai cuori assetati, come anche dalla vera cultura e dalle sensibilità religiose della gente concreta. Ci illudiamo, fideisticamente, che un buono slogan abbia effetti salvifici o taumaturgici, a prescindere dalla corrispondente qualità della nostra vita. Quanti nominalismi nella nostra vita!

Meglio sarebbe invece intrecciare la propria funzione carismatica con gli altri carismi sul posto, con le diaconie e le responsabilità locali, senza identificarsi platonicamente con i grandi schemi siderali delle curie centrali, lontane dal reale. Una più evidente e tenace incarnazione in loco, una solidarietà raso terra, una accoglienza nelle ore meno canoniche verso chi cerca parole di vita e di guarigione, potrà ridare slancio e profezia a certi stili di vita. Le nostre presunzioni di missionarietà universale perché non riescono mai a farci scendere fino mordere la polvere, a sporcarci realmente le mani, a sederci presso i pozzi dove si dialoga e si beve, si ricorda e si domanda, si danza e si fanno confidenze?

Io credo che la vita consacrata ha esagerato nella sua rincorsa verso la globalizzazione onnicomprensiva, perché si è poi trovata disincarnata, sovratemporale, sognatrice di un mondo che non arriva mai all’alba. Bisogna conoscere davvero sia l’ora del mezzogiorno assolato sia quella della sera che propizia la violenza dei briganti e quella del mattino che sollecita alla solidarietà e alla cura. Non è lecito vivere una antropologia senza tempo e senza i volti reali, perchè in fondo finisce per essere senza storia e anche senza compassione.

 

FERMENTO CRITICO

E SIMBOLICO

 

Ritrovare la funzione simbolica, critica, trasformatrice. Questa qualifica per la vita consacrata la si poteva leggere nel Documento di lavoro del sinodo sulla vita consacrata (9) e anche nelle proposizioni finali del Sinodo stesso. Difficile dire se davvero nell’attuale esperienza della vita consacrata e nei gesti e nella vita dei consacrati, si possano rilevare queste qualità che sembrano sfuggire al calcolo paneconomico ed efficientista. Eppure proprio su questo punto io credo che ci conducano molti accenni che sono stati trasversalmente espressi dal congresso.

Sia le icone bibliche, che molti accenni dei gruppi, che la stessa sintesi finale, risentono di questa richiesta e di questa esigenza. In una contingenza storica nella quale il linguaggio iconico è fin troppo sfruttato - e talora predomina l’arte del suggestionare e dell’impressionare shoccando – dobbiamo ritrovare le forme del fascino discreto che emana da esistenze che hanno una marcia in più di sapienza e di trasparenza, di pace e di libertà. La vita consacrata deve ritrovare proprio queste virtualità, questa “esistenza trasfigurata capace di sorprendere il mondo” (VC 20), che riluce di trasparenza e di gratuità (VC 104).

Possiamo parlare, come ha fatto Vita consecrata di “filocalia”(VC 19), come bellezza interiore ed equilibrio sereno, ma anche come civiltà della sobrietà, della solidarietà, della compassione in una società del consumismo idolatrico, dell’egoismo che tutto arraffa, dell’hybris della violenza e della prepotenza. Ritengo probabile che proprio la crisi numerica di membri e soprattutto la non significanza di tante strutture e opere gestite con piglio manageriale mondano, dovrebbero aiutarci a demolire mitologie e criteri antievangelici che guidano il modo di pensarci e di programmarci. Per recuperare invece un ruolo audace nel dare forma e cittadinanza ai valori alternativi, agli stili di vita che mostrino, facciano intuire, siano parabole e simbolo di esistenze che si costruiscono su altri valori e altre virtù, su significati che “conducono altrove”, ma intanto profanano le plausibilità qui e ora mitizzate e idolatrate da una mentalità che non è evangelica.

Ma per arrivare a questa soglia, direi anzi a questa frontiera vertiginosa e inquietante per molti, bisogna scendere ancora di forze e risorse, conoscere una “diminutio” scorticante e una “restitutio” alla vita raso terra, che però alla fine sarà il vero grembo di una trasformazione non di facciata né opportunistica. La funzione trasformatrice prima di essere operazione dentro la storia e il mondo, deve verificarsi dentro la nostra carne, deve essere esperienza di annichilazione e di spogliazione, perché solo così sarà proposta in autenticità liberante e redimente. Altrimenti è solo ideologia vuota e utopia malata di miracolismo idolatrico.

 

ALTRE

PROSPETTIVE

 

Certamente ci sono anche altre prospettive aperte che meriterebbero essere oggetto di riflessione seria, sulle tracce lasciate dal congresso. Per esempio sarebbe urgente trovare forme e canali di comunicazione migliore fra le Unioni dei superiori e delle superiori generali e i dicasteri romani. Il congresso ha sofferto per questa comunione incompleta e non solo per la mancanza di incontro col papa. Altro tema che potrebbe meritare attenzione sarebbe il diritto della vita consacrata ad un processo di inculturazione nei contesti continentali (soprattutto Africa, Asia, America latina) più deciso e più aperto alle novità, almeno come strategia iniziale. Altro ambito da esplorare, perché rimasto appena accennato, è trovare e collaudare pedagogie di formazione (iniziale e permanente) adeguate alle nuove situazioni culturali e religiose. E tanti altri temi…

Mi accontento di queste nove grandi prospettive. E spero che bastino per far riflettere e ispirare nuovi percorsi. O almeno per non perdere di vista le opportunità e le sfide venute in risalto con questa grande esperienza mondiale.

 

Bruno Secondin