PARTECIPI DELL’UNICO PANE

 

All’altare dell’eucaristia siamo tutti convocati come alla sorgente dell’unità ecclesiale, assieme a coloro che hanno creduto nel Signore in tutti i tempi e in tutti i luoghi.

 

L’eucaristia è il sacramento principale della Chiesa.       «Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane». Lo esprime il simbolo stesso del pane, come nota Cipriano di Cartagine: «Quando il Signore chiama suo corpo il pane fatto con l’insieme di un gran numero di chicchi, sottolinea l’unità del nostro popolo».

Gli fa eco Giovanni Crisostomo: «Il pane è fatto di molti grani. Non li vediamo, ma scorgiamo solo il pane senza distinzione; i grani sono già uniti. Così anche noi siamo uniti con Cristo e fra di noi».

L’eucaristia è quindi sorgente dell’unità ecclesiale.

L’unione con Cristo non può essere vissuta diversamente che come unione con tutti i fedeli.

Il momento della comunione è, quindi, anche opportuno per pregare per gli altri, per quelli che ci sono affidati e per quelli che sono dimenticati.

Nel rito siro-orientale c’è un uso particolare. Durante la messa si conserva un pezzetto di pane consacrato per la messa seguente. Si chiama “fermento sacro”, perché ricorda l’usanza popolare di quando si faceva il pane in casa e si doveva conservare un pezzo di pane lievitato per far fermentare la farina del nuovo pane.

Nella liturgia romana conserviamo un altro rito che pochi comprendono. Prima della comunione, il sacerdote rompe l’ostia e ne mette un piccolo pezzettino nel calice con il vino consacrato. Gli storici della liturgia ci spiegano l’origine di questa usanza. Le diverse chiese locali, per professare la loro unione con le altre, si inviavano a vicenda un pezzo di pane consacrato. Quando arrivava ai destinatari, questo pane era già duro. Per poter essere accettato come comunione, doveva essere messo prima nel calice. Il rito attuale non corrisponde più alle condizioni originarie, ma può ricordarci il pensiero: l’unione eucaristica fra le diverse chiese locali sparse nel mondo.

È quanto suggerisce la Didaché, un’opera cristiana della fine del II secolo originaria dell’Asia Minore: «Come questo pane spezzato, già sparso sui monti, è stato raccolto per farne una cosa sola, raccogli così la tua Chiesa, dai punti estremi della terra, nel tuo Regno».

Nella Chiesa infatti, all’altare dell’eucaristia, siamo convocati insieme a tutti coloro che hanno creduto nel Signore appartenenti a tutti i tempi e a tutti i luoghi: la Madre di Dio, Giovanni Battista, gli angeli, i santi, i morti, i bambini non ancora nati, diceva l’autore russo Chomjakov.

“Consanguinei” di Cristo, “incorporati” a lui, “innestati” in lui, con l’eucaristia diventiamo anche «membra gli uni degli altri». Queste espressioni paoline, dove si sente l’eco dell’eucaristia, sono state commentate senza sosta dai Padri.

Se il corpo di Cristo è l’umanità intera, allora il venticinquesimo capitolo di san Matteo non va preso come una metafora ma nel suo senso più reale: quelli che hanno fame, che hanno sete, i forestieri sono veramente Cristo.

Perciò, dice Giovanni Crisostomo, il «sacramento dell’altare» deve estendersi «per strada» al «sacramento del fratello».

Condividere il pane dell’eucaristia invita così ad associare alla liturgia una vita effettiva di comunione.

La cena di Gesù con i suoi non è però un banchetto normale come quelli che si fanno tra amici, dove prevale un clima allegro e spensierato.

Questa cena si svolse alla vigilia della sua passione e della sua morte.

Si può in un certo senso dire che il giorno successivo già proietta la sua ombra su questa cena, come tutti gli eventi della pasqua, compresa la domenica di resurrezione. Tutta la pasqua è presente in quella cena.

Lo esprime bene Efrem il siro affermando: «Beato sei tu, Cenacolo, perché nessuno ha visto/ ciò che tu vedesti, né lo vedrà:/ il nostro Signore che si fece vero altare,/ sacerdote, pane e coppa della salvezza./ Egli da sé basta a tutto: non c’è nessun altro che possa bastare! /Altare e agnello,/ sacrificio e sacrificatore, sacerdote e cibo».

Il carattere di pasto e di comunione non contrasta così con quello di sacrificio, ma trova nel sacrificio la sua dimensione più vera e profonda.

 

Tomás Špidlik

da L’eucaristia farmaco d’immortalità,

Lipa Edizioni, Roma 2005.