LA VC NEGLI ATTUALI CAMBIAMENTI

UN FASCINO DA RITROVARE

 

La vita religiosa è nata da una passione per Cristo e il suo progetto di vita. Dimenticare questa prima seduzione vuol dire perderne tutto il fascino. Perché invece di rivelarlo, lo oscuriamo? È giunto il tempo di superare strutture mentali e materiali sclerotizzate che impediscono il flusso vitale del Vangelo e la libertà dello Spirito.

 

Viviamo in un’epoca carica di incertezze, ma anche piena di speranza. Sono tempi di tramonto ma anche di una nuova aurora. Attraversiamo un periodo di dolorosa gestazione nell’attesa che risplenda un nuovo stile di vita religiosa più significativa nell’attuale congiuntura storica. Posta in un contesto di cambiamento mai visto prima – anzi di un cambiamento epocale – lo Spirito Santo scuote la vita religiosa e la induce ad abbandonare strutture obsolete e anchilosate che le fanno perdere di significato per l’uomo d’oggi, e la stimola a lasciarsi ricreare dallo Spirito. Non viviamo in una capsula, ma facciamo parte di una umanità ferita e mezzo morta, esclusa e impoverita, violentata e insicura, malata e affamata come l’uomo caduto sulla strada della violenza, delle guerre e del terrore dell’egoismo accaparratore.

Siamo in un cambiamento di epoca caratterizzato:

– da sorprendenti progressi della scienza e della tecnologia ma che non giungono a tutti e non sono in grado di risolvere i grandi problemi che ci preoccupano e angustiano;

– dove le possibilità di comunicazione sono meravigliose ma spesso mortificano le culture e colonizzano gli spiriti, proponendo un mondo light con la sensazione che è inutile tutto quello che non si tocca, non si controlla o non si gode;

– dalla sete o crisi del “significato” della vita che fa sì che molti vivano alla deriva senza sapere da dove vengono o dove vanno. Per rispondere a questo problema si fanno mille proposte e promesse ecc., che non giungono a risolverlo.

Eppure la soluzione ci sta vicina. È Gesù, risorto e Signore della storia, che vive e opera nel nostro tempo. Noi viviamo in una speranza indomita. Quale il nostro segreto? Il fatto di credere che Gesù è l’uomo giusto, integro e perfettamente tale, con una personalità ineguagliabile che sorprende, attrae e affascina. Gesù di Nazaret infonde un infinito rispetto e allo stesso tempo ispira una fiducia totale. Suscita non solo ammirazione, ma soprattutto amore. Possiede una limpidezza mentale, una rettitudine di giudizio e una libertà veramente affascinante, e quest’uomo che non lascia nessuno indifferente e davanti al quale nessuno può rimanere neutrale, questo Gesù di Nazaret che ha sedotto tanti lungo i secoli, continua a chiamare uomini e donne a seguirlo a tempo pieno, con tutto il cuore e con rischio totale a condividere la sua vita e la sua missione, trasformandoli in “memoria vivente del suo modo di esistere e di parlare (VC 22).

 

UNA PASSIONE

PERDUTA?

 

Come è allora possibile che seguire Gesù non faccia di noi persone affascinate? Che cosa è mai avvenuto? Kierkegaard racconta un episodio sorprendente. Un europeo, in viaggio attraverso il misterioso oriente, conobbe una giovane con la quale si incontrò una sola volta. Il “colpo di fulmine” fu talmente forte che si appassionò perdutamente di lei. Ma non conosceva il cinese e quindi non poteva conversare con la sua amata. Ritornò al suo paese e decise di imparare quella lingua per comunicare con lei. Dopo molte difficoltà si mise a studiarla e tanto si sforzò da diventare un esperto di quella lingua e cultura e cominciò a tenere conferenze un po’ dovunque. I suoi studi, viaggi e impegni furono talmente numerosi che all’inizio scriveva ancora alla sua amata la quale le rispondeva felice. In seguito non trovò più tempo per scriverle ed essa non sapeva più dove inviarle le sue lettere. Divenne così importante da dimenticare la donna per la quale aveva imparato il cinese.

La storia non può essere più istruttiva. La vita religiosa è nata da una passione per Cristo e il suo progetto di vita. Tutto il resto che abbiamo imparato fu per conoscerlo maggiormente e testimoniarlo meglio. Dimenticare questa prima seduzione e passione vuol dire perdere tutto il fascino della vita religiosa. Questo non è avvenuto ai nostri fondatori e alle nostre fondatrici. La loro passione per Cristo andò sempre crescendo e questa fu anche l’esperienza dei grandi credenti di tutti i tempi i quali hanno lasciato una traccia indelebile nel cuore della Chiesa, che ogni giorno più ci sorprende e ci stupisce. Essi sono un’incarnazione viva del fascino della vita religiosa.

Tra questi voglio ricordare Charles de Foucauld e p. Pedro Arrupe. Charles de Foucauld il quale scrisse: «Dal momento che compresi chi era Dio per me, mi resi conto che non potevo più vivere senza di lui». Da quel momento egli divenne il “fratello universale” poiché gli uomini e le donne che hanno un amore unico verso Dio diventano, a partire da questa esperienza, anche uomini e donne pieni di amore verso tutti e verso tutto.

 

P. Arrupe era un uomo affascinante. È l’impressione unanime di tutti coloro che l’hanno conosciuto da vicino. Impressionava la sua freschezza evangelica e la sua libertà di spirito. Diffondeva contagiosamente un ottimismo stimolante. Era di una creatività straordinaria e di una semplicità sconcertante. La sua personalità incantava e seduceva. Dove stava il suo segreto? Nel fatto di vivere una passione per Cristo appassionato dell’uomo.

«Niente, diceva, deve importare di più che incontrare Dio, vale a dire, innamorarsi di lui in maniera definitiva e assoluta. Ciò di cui ti innamori afferra la tua immaginazione e finisce per lasciare tracce in tutto. Sarà esso che decide ciò che ti scuote fin dal momento dell’alzata, e quello con cui riempi le tue serate, e spendi i tuoi fine-settimana, ciò che leggi, quello che conosci, ciò che muove il tuo cuore e ti riempie di gioia e di gratitudine. Innamorati! Rimani nell’amore. Tutto sarà diverso...»

 

LA CHIAVE

È LA SPIRITUALITÀ

 

Il credente è uno che si lascia condurre dallo Spirito. In questo consiste in definitiva la spiritualità: essere docili allo Spirito di Gesù che ci parla al cuore per orientare il nostro cammino verso di lui e darci la forza di seguirlo in maniera incondizionata.

Il p. Longhaye, un maestro che aveva formato una trentina di generazioni di gesuiti, un uomo di robusta spiritualità e di grande libertà interiore, aperto al nuovo della sua epoca e pioniere, per la sua creatività, di ciò che si sarebbe vissuto presto nella formazione, scriveva al suo discepolo p. Grandmaison:

«Ami Gesù Cristo fino all’ultimo respiro appassionatamente, ogni giorno più, per la sua adorabile persona... lo contempli ostinatamente fino a conoscerlo a memoria, meglio ancora fino ad assimilarsi a lui, fino a trasformarsi in lui. Egli sia sempre e del tutto il centro di tutti i suoi pensieri, la chiave delle sue conoscenze, il termine pratico dei suoi studi, qualunque siano... Gesù Cristo meditato, Gesù Cristo conosciuto, Gesù Cristo amato con passione sempre maggiore e conseguente con se stessa: qui ha tutto... Qui sta la dignità della sua vita religiosa, qui la forza, la consolazione, la potenza efficace» (Testamento).

Per il p. Longhaye questa era la spiritualità nella quale credeva e che trasmetteva ai suoi discepoli, una spiritualità che generava energia, originalità e fecondità e che trasmetteva pace e gioia.

Mi convinco sempre più che il problema chiave della vita religiosa è quello della spiritualità. Solo i mistici saranno i grandi costruttori del futuro dell’umanità. Non abbiamo bisogno di funzionari della Chiesa ma di testimoni del Signore. A questo ci ha chiamati lui: «Di questo mi sarete testimoni” (Lc 24,48). Ma questo esige di vivere sempre con nuovo fascino per Gesù Cristo, appassionati di lui, entusiasti della sua causa.

Il fascino della vita religiosa nasce da una spiritualità incarnata, che diventa storia concreta. Si impara in due libri: dalla Bibbia e dalla vita, leggendo una alla luce dell’altra. Il vero mistico, a somiglianza di Gesù, non perde di vista la storia, anzi si ritrova in essa, la rilegge e la reinterpreta, connette la sua vita spirituale e religiosa con la vita quotidiana e con l’impegno verso il fratello, in particolare verso gli emarginati e le persone impoverite. Chi sperimenta Dio in tutte le cose, agirà necessariamente come il suo figlio Gesù Cristo.

La spiritualità cristiana non può essere bigotta, di routine e disincarnata, che si riempie di preghiere, ma vuote di contenuto. Quanto meno dovremmo rivedere certe formule ripetitive e abitudinarie che hanno sostituito “la freschezza” che deriva dall’incontro con Gesù. Non è raro fare l’esperienza di liturgie vuote e formalistiche. Quanta routine, a volte, nelle nostre manifestazioni religiose e quanta superficialità! Non confondiamo persone che recitano preghiere con quelle che pregano.

La spiritualità cristiana non ha nemmeno niente a che fare con la passività, l’insediamento, la paura, il mettersi sulla difensiva... semplicemente perché questi sono segni che lo Spirito è stato soffocato (cf. Ts 5,19) o non è stato atteso o ricevuto. La spiritualità nella sequela di Gesù è una spiritualità di cambiamento, di apertura alla novità, di ricerca inquieta e di speranza, di impegno a qualsiasi costo. Richiede rotture e rinunce, ma suscita e genera anche molta gioia e entusiasmo e manifesta tutto il suo fascino. Avviene a noi come a quel tale che “trovato un tesoro nel campo, lo nascose e per la gioia vendette tutto quello che aveva per comprarlo” (cf. Mt 13,44). Così è la spiritualità e questa è la sua attrattiva: aperta alla novità dello Spirito che è sempre libero, creativo e persino sconcertante, che crea e ricrea, trasforma e fa nuove tutte le cose, appassiona per Cristo e il suo Regno. Ci sono troppi uomini e donne schiavi delle strutture, che si accontentano di “eseguire” gli ordini, come qualsiasi esecutore rassegnato. Abbiamo bisogno di uomini e donne che si muovano con passione nella mistica della vita, che sappiano ascoltare la voce del silenzio, che camminino nella carovana di tutti gli uomini e donne del loro tempo e con entusiasmo spingano avanti, che, come discepoli, assumano nel quotidiano non solo le opzioni e le motivazioni, ma anche i sentimenti di Cristo (cf. Fil 2,5) e diventino testimoni mediante la giustizia, la libertà, la riconciliazione, la misericordia e la tenerezza, la solidarietà e la gratitudine, la bellezza e la gioia.

Questo è il grande servizio che deve offrire oggi la vita religiosa. Che cosa accade all’uomo d’oggi, inebriato di tecnica e di efficienza ma anoressico di Dio e con uno sguardo miope che non giunge a penetrare il mistero né di se stesso né degli altri e che, spesso, procede a tentoni nella vita, anche se non ha il coraggio di dirselo apertamente? Quando si mette da parte Dio, l’uomo finisce col non capire più se stesso e meno ancora gli altri. E si finisce alla deriva.

Il mondo d’oggi è pieno di esperti in ogni campo (tecnici, ricercatori, scienziati...) ma è privo di testimoni del senso della vita, della misericordia di Dio e del servizio del samaritano, di persone pienamente felici (cf. Gv 15,11) perché il loro agire corrisponde al sogno di Dio su di loro, persone che hanno indovinato l’orientamento della loro esistenza e sono in pace con se stesse e irradiano armonia, riconciliazione e gioia.

Diceva Karl Rahner: «Il cristiano di domani o sarà mistico o non sarà cristiano».

È sempre stato così nella storia. I religiosi e le religiose di oggi vogliono essere una proposta dell’esperienza di Dio, una proposta gratuita di spiritualità e le loro comunità delle scuole dello Spirito, dei valori trascendenti del significato ultimo della vita. In questo modo diventano una profezia viva di speranza che anima e sospinge il passo, sentendo che il cuore arde mentre il suo Spirito ci parla lungo il cammino (cf. Lc 24,32).

 

SETE DI VITA

COMUNITARIA

 

Nel recente congresso internazionale di Roma i giovani religiosi e religiose invitati hanno affermato nei loro tre brevi interventi di aver sete di una vita comunitaria che sia espressione e luogo di scambio di fede e di relazioni profonde. Uno di loro mi diceva un po’ deluso che i giovani sono “sazi di vita comune ma affamati di vita comunitaria”. Essi non riescono a capire come si possa vivere in una comunità come in un hotel. Ma oggi, sia loro che noi, siamo sempre più convinti che una comunità è «molto più che un condividere uno stesso tetto, una stessa mensa e un medesimo regolamento... che non siamo volontari di un’organizzazione multinazionale né ospiti più o meno contribuenti di una casa (p. Peter Hans Kolvenbach).

Trasformare le nostre comunità in un hotel, vivere soli nonostante lo stare insieme, non condividere la nostra fede né la nostra ragion d’essere e di lavorare, ciò che pensiamo, sentiamo e progettiamo, è un semplice non senso e una frustrazione. Comunità del genere non affascinano coloro che sono dentro e scandalizzano quelli che sono fuori. Perché ci sono tanti religiosi/e che, nonostante siano insieme, vivono soli? Non è raro che serpeggino nelle nostre case il malumore, una certa smania di protagonismo, contese e invidie larvate o manifeste, un individualismo invadente, egoismi a volte camuffati i quali rivelano che a noi interessa maggiormente la nostra realizzazione che il dono di sé agli altri (come se questo fosse possibile!).

Abbiamo fame di comunità che siano come quegli spazi verdi nelle città dove si respira un’aria di Dio e di umanità, luoghi di incontro e di amicizia, di accoglienza e di sostegno, di perdono, di serenità e di festa. Abbiamo bisogno di comunità che siano, allo stesso tempo, spazi in cui si respira franchezza, lealtà, trasparenza, aiuto fraterno, comprensione e gioia.

Abbiamo nostalgia di comunità calorose e accoglienti che abbiano sapore di focolare. E la parola focolare evoca subito un clima di familiare naturalezza in cui regnano la fiducia, la comunicazione, la libertà interiore, l’intimità e la condivisione gioiosa. Il focolare, a differenza del nido protettivo ed egoista, si proietta al di fuori e condivide con gli altri il meglio di ciò che vive al suo interno. Abbiamo bisogno del focolare per crescere vitalmente, per realizzarci come persone, per essere felici. Le nostre comunità devono farci più godere che soffrire. È mia convinzione profonda che se la vita religiosa ha oggi un’opportunità e un compito da svolgere è di creare dappertutto, di suscitare, animare e sostenere focolari di vita autenticamente fraterna che irradino sugli altri amicizia, stimolo, sostegno e riconciliazione. Rattrista vedere una quantità di persone solitarie, prese dalle loro occupazioni e fatiche, che vivono chiuse in se stesse. «In questo tempo si moltiplicano le persone che vivono sempre più di relazioni puramente virtuali e appaiono come naufraghi dello spirito alla deriva, in bacini online. Per certi aspetti è come se si dessero una nuova identità fluida, interscambiabile, un puzzle. In effetti sono come in un labirinto, senza punto d’arrivo né di uscita, in cui perdersi è la stessa cosa che ritrovarsi, Così come la metanetwork connette tutti e tutto, la vita non ha segreti, è la morte dell’intimità e della tenerezza, dei segreti e della libertà.

Il padre generale dei gesuiti ha insistito – e con molta ragione – su questa profezia vivente di fraternità quale deve essere la comunità religiosa: «In un mondo assetato di unità e tuttavia lacerato dall’odio e dall’assassinio, dalla divisione e dalla violenza, la comunione sembra lontana e, umanamente parlando, solo un bel sogno. Per questo la vita comunitaria deve essere una testimonianza di una comunione possibile in Cristo; impossibile da raggiungere con le forze umane....».

 Ma che cosa si richiede a una comunità per riuscire a irradiare al di fuori il fascino di vivere insieme nella diversità, creando spazi calorosi, aperti, gioiosi per noi stessi e per gli altri?

 

Un’amicizia autentica e matura

 

Soffiano venti di modernità e post-modernità. Che cosa significa? Che occupano un rilievo inconsueto e un valore primordiale la soggettività, la valorizzazione della persona, l’uguaglianza fra tutti, la partecipazione e la corresponsabilità, il dialogo e la gratuità. E questo richiede di passare da una vita comune a una comunità di vita. La vita in comune crea una com-unione fragile e superficiale ottenuta in forza degli atti comuni stabiliti istituzionalmente e che si compiono in base alla lettera. La comunità di vita, al contrario, è ricca di rapporti personali di accoglienza, di rispetto e valorizzazione dell’altro, del diverso, è una vita di dialogo e discernimento, di libertà responsabile, di preoccupazione per l’altro. Il nucleo che tutto articola è l’amicizia autentica e matura tra i membri. Bisogna insistere meno sulla presenza fisica – a dire il vero sempre desiderata e goduta tra amici – e maggiormente sull’unione degli spiriti e dei cuori, e ciò è quello che realmente conta. Non è raro che coloro che vivono sotto il medesimo tetto e lo stesso regolamento e si siedono alla stessa mensa si trovino a mille leghe di distanza senza sapere quello che pensa l’altro, che cosa sogna o rimpiange, cosa sente e cosa lo fa godere o soffrire. Non è la quantità delle ore passate insieme che crea comunità ma la qualità della presenza. Non c’è da allarmarsi se qualcuno arriva tardi alle lodi o ai vespri per motivi giustificati, ma c’è da allarmarsi, e molto, quando si sta insieme senza sapere di che parlare, né avere niente da condividere (esperienze, sogni e sentimenti...). Questa è una comunità malata che non irradia simpatia e gioia ma delusione e disincanto.

 

Un minimo di convivenza

 

Non bisogna costruire sulla sabbia se non vogliamo che tutta la nostra avventura religiosa crolli quando soffiano i venti dei problemi e le difficoltà, irrompono i torrenti dei conflitti e cade la pioggia dell’incomprensione e della monotonia. Bisogna costruire su cementi umani.

Bisogna pertanto essere concreti perché potrebbe accadere che coloro che bussano alla nostra porta non abbiano un minimo di capacità di convivenza ossia una base minima di virtù sociali (amabilità, sincerità, trasparenza, spirito di partecipazione e di corresponsabilità, un certo controllo di sé, la capacità di dialogo, la sensibilità verso l’altro...). E allora? Molti dissapori e molte sofferenze si sarebbero evitate nelle comunità se fossimo stati più esigenti nell’accogliere certi candidati. Uno non entra nella vita religiosa per sopportare gli altri ma per condividere la propria esistenza con loro ed essere contento. Altra cosa è che nella nostra convivenza, come in qualsiasi altro gruppo umano, compreso quello famigliare, ci sia qualche difficoltà e qualche attrito.

A mio parere la capacità personale di vivere la dimensione comunitaria è un problema da prendersi molto sul serio come criterio di discernimento. Ci sono persone che manipolano gli altri. E queste sono le più pericolose. L’esperienza ci dice che gli individui più pericolosi non sono i timidi o i taciturni, come alcuni ritengono, ma coloro che cercano di far ballare agli altri il loro ballo, come un modo per autoaffermarsi... Gli ombrosi, che fanno le cose di nascosto, che si pongono davanti all’autorità o per adularla o per resisterle, coloro che hanno una bassa stima personale, si chiudono orgogliosamente in se stessi e in modo contestatore verso gli altri possono diventare degli elementi disgregatori di ogni autentica comunità.

È certamente preoccupante il caso di giovani – e a volte anche di persone non tanto giovani – molto solitari che cercano la comunità soltanto come uno spazio affettivo che non hanno trovato in altra parte.

A volte sono i più attivi e presenti, i più identificati con la spiritualità propria, ma in definitiva cercano un tetto in cui rifugiarsi, costruendo a tutti i costi il loro nido.

Non si entra in una comunità, come motivazione prima, per cercare uno spazio terapeutico dove risolvere i propri conflitti, ma per impegnare la propria vita a causa del Regno. Pertanto è certo che chi si impegna, trova una sanità e un equilibrio che sono un dono gratuito.

Bisognerebbe anche discernere la capacità di lavorare in équipe, di impegnarsi in un progetto d’insieme, di assumere una missione comune. Sono elementi di grande importanza. Il francotiratore, il protagonista un po’ vanitoso a cui piace camminare nella vita da solitario, sono sempre persone molto problematiche nella vita comunitaria.

Se ci dedichiamo a fare un “reclutamento” indiscriminato, se non siamo molto attenti ed esigenti nell’ammissione dei candidati – anche in tempo di penuria – la vita religiosa è destinata a essere già dalla radice deludente e pesante. In questo modo è impossibile che essa recuperi il suo fascino.

 

Strutture che formino non che infantilizzino

 

Non raramente, pur con buona volontà, si sono moltiplicati i sostegni strutturali che hanno plasmato persone infantilizzate, senza creatività e immaginazione, più fedeli esecutrici di ordini che in grado di discernere in base alla propria responsabilità e il loro leale sapere e intendere le decisioni che plasmano e configurano la stessa comunità. Questa indebita dipendenza non permetteva di sviluppare la personalità in tutta la sua pienezza. Non si aiuta a crescere in maturità e responsabilità coartando la libertà, ma promovendola ed educandola. O si esercita o si atrofizza. Purtroppo non mancano ancora comunità eccessivamente regolamentate che impediscono di camminare, come le armature dei cavalieri del medioevo, con scioltezza e libertà, verso le esigenze della vita comunitaria, fraternamente attrattiva, impegnata e gioiosa.

Non vogliamo con questo negare certi sostegni strutturali, necessari in ogni gruppo sociale, ma ce ne sono alcuni che formano altri che deformano, alcuni che schiavizzano e altri che liberano. È evidente che bisogna passare da strutture più rigide ad altre più aperte e partecipative, ma questo bisogna farlo nel discernimento non tanto delle esigenze del Vangelo, ma per incarnarle meglio.

E non dimentichiamo l’avvertenza di Paolo VI: «Più sono le regole meno è lo spirito con cui si vivono». Ci sono regole che guidano lo spirito, altre che lo soffocano. È importante che la persona si strutturi dal di dentro perché se non plasma il suo intimo e non impara a essere libera e impegnata, una volta venuti meno gli appoggi strutturali che la sostengono dall’esterno, la sua personalità si sgretolerà come una colonna quando il cemento dell’armatura non fa presa.

 

La comunità non è una fortezza

 

Una convinzione profonda, condivisa da molti, è che una comunità introversa diventa nevrotica e finisce con l’essere un piccolo inferno. L’apertura, l’ascolto e il dialogo con il mondo sono sempre uno stimolo di revisione, di provocazione a esaminare e discernere, cosa che peraltro tendiamo a dare per scontata. Il modo migliore per sdrammatizzare i piccoli conflitti e i problemi all’interno delle nostre comunità è immergersi nelle tragedie che soffrono i nostro fratelli. Sono convinto che molte comunità vivrebbero in maniera più ariosa e sana se aprissero le porte e le finestre sul mondo, scendessero in strada, si mischiassero con la carovana degli uomini e delle donne e ascoltassero con il cuore coloro che soffrono, lottano e amano. Bisogna mischiarsi al mondo ma non perdersi nel mondo se vogliamo sentirci interpellati dalle disumanizzazioni che opprimono i nostro popoli.

La vita religiosa è significativa e seducente non come fuga dal mondo e dalla storia ma come fermento che spinge dal di dentro la storia perché emergano nuovi cieli e una nuova terra e perché Dio, che è la novità assoluta (cf. Ap 21,1-7) abiti i nostri limiti, li superi e realizzi così i cieli nuovi e la terra nuova. E in questo vivere inseriti nella storia, il nostro posto non è la retroguardia comoda, lontana dalla “linea di fuoco”, ma il campo aperto in cui si lotta per la solidarietà, la giustizia e la riconciliazione. In concreto, il luogo più caratteristico saranno il deserto, la periferia e la frontiera. «Per deserto intendiamo che il religioso sta lì dove di fatto non sta nessun altro...; per periferia vogliamo dire che il religioso non è al centro del potere, ma lì dove non c’è che impotenza; per frontiera intendiamo che il religioso sta lì dove c’è più da sperimentare secondo l’immaginazione e la creatività cristiana, dove più grande può essere il rischio; dove più necessaria è l’attività profetica per scuotere l’inerzia in cui si va pietrificando la Chiesa nella sua globalità o per denunciare con maggiore energia il peccato» (J. Sobrino, La vida religiosa en el Tercer mundo).

 

SENZA COMUNIONE

LA COMUNITÀ MUORE

 

La comunicazione esige un clima di fiducia; senza di essa non possiamo crescere sani. Fiducia, accettazione, amore incondizionato è ciò di cui abbiamo bisogno per sentirci sicuri e aprirci agli altri ed è qui dove si fonda la stima di noi stessi.

Una comunità si deteriora e muore se la comunicazione è anemica. È impressionante l’esperienza che alcune comunità hanno sofferto sulla propria pelle. «In molte parti si sente la necessità di una comunicazione più intensa tra i religiosi di una stessa comunità. La mancanza e la povertà di comunicazione genera di solito l’indebolimento della fraternità, per la non conoscenza della vita altrui, e ciò rende estraneo il confratello e anonimo il rapporto, oltre che creare vere e proprie situazioni di isolamento e di solitudine...Viene inoltre favorita la mentalità di autogestione unita all’insensibilità per l’altro, mentre lentamente si comincia a cercare rapporti significativi al di fuori della comunità» (Vita fraterna in comunità 32).

Non si tratta di una elucubrazione. È una lezione della storia. I membri delle nostre comunità devono essere capaci di incontrarsi con l’altro, di ascoltare senza stancarsi e di accettare il diverso, di stimarlo e rispettarlo. Bisogna evitare ad ogni costo che la comunità squalifichi chi manifesta in maniera autentica il proprio modo di essere, anche se diverso in alcune cose, senza farne un dramma e senza che disturbi una sana relazione di amicizia; ciò dovrebbe essere del tutto naturale. È questa, del resto, la situazione normale della vita comunitaria e il modo più sano di vivere le divergenze. Riconoscere come legittimo il disaccordo è segno di salute. Abbiamo bisogno di una maggiore educazione alla tolleranza e di un legittimo e ragionevole pluralismo, fonte di tensioni che arricchiscono e non di divisioni e di rotture.

È urgente incoraggiare uomini e donne che sappiano “perdere” tempo nell’ascoltare gli altri e siano capaci di accogliere modi diversi di essere e di pensare e si sforzino di costruire relazioni profonde, Niente di grande si costruisce, e meno ancora una comunità, se non in base alla sincerità e alla trasparenza. Bisogna che ciascuno possa esprimere senza timidezza ciò che è e non dissimuli ciò che non è. La mancanza di questo realismo umile sta alla base di mille ipocrisie corrosive della vera comunità. La crescita comunitaria poggia proprio su questa limpidezza nel manifestare se stessi. «Non dire ciò che penso o quello che mi capita, ma dire a me stesso, come sono, come vivo».

Questa è la grande sfida della nostra vita in comunità. Sono molte le esperienze dolorose e frustranti che vari religiosi e religiose hanno sofferto e soffrono sulla propria pelle, che li deludono e li esauriscono. È ora di essere sinceri e autentici, chiari e umili, e vedere perché mai noi invece di rivelare il fascino della vita in comunità, lo oscuriamo. Magari potessimo tutti sottoscrivere la confessione di un religioso in cui c’è poco di ingenuo e molto da accogliere:

«Alcuni credono che noi viviamo una vita strana, insolita e noiosa. Un gruppo di uomini soli e inoltre così diversi per carattere, formazione, cultura, età, maturità...! Non è questa la nostra esperienza. Per questo abbiamo deciso di invitare spesso a tavola con noi persone amiche, e altre non tanto, perché ci conoscano dal di dentro. Notiamo che rimangono sorprese e affascinate. E questo perché ci presentiamo loro come siamo: parliamo con naturalezza familiare, dialoghiamo senza imporci, rispettiamo la diversità e difendiamo l’unità di tutti, stimiamo il diverso e soprattutto ci desideriamo e ce lo dimostriamo. Non parliamo mai male gli uni degli altri. Vediamo con piacere che la comunità, che è molto semplice e non complicata, cresce sempre più nella comunicazione vitale, nella ricerca fatta insieme, nella partecipazione di tutti in base alla corresponsabilità e facciamo insieme discernimento dei progetti riguardanti la nostra missione. La gente è attirata dalla pace nella quale viviamo. Non che non abbiamo dei conflitti, ma li affrontiamo come sogliono fare dei fratelli. Per questo, gli attriti e gli inconvenienti non lasciano ferite. Penso che la nostra comunità non sia vista come qualcosa di insolito e di strano, ma al contrario, come vicina, aperta; non pochi confessano con una semplicità che li riempie di speranza di scoprire il nostro stile di vita che cerchiamo che sia caloroso e rispettoso, profondo nel condividere e semplice nell’esprimerlo. È una novità per molti toccare con mano il fascino di persone così diverse che vivono insieme».

 

EQUIPAGGIAMENTI LEGGERI

O FARDELLI PESANTI?

 

Non è affatto raro scoprire religiosi e religiose stanchi, sperduti, più ancora, stressati. È una immagine che fa pena e non suscita alcun fascino. Che cosa sta succedendo? I nostri fondatori e le nostre fondatrici furono uomini e donne leggeri di equipaggiamento. Furono liberi di incarnare i loro carismi di fronte alle disumanizzazioni che li interpellavano. Noi non abbiamo questa libertà. Sentiamo, a volte, il pesante fardello delle opere ereditate. Ci vediamo prigionieri di un glorioso passato. Le opere crescono e i religiosi e le religiose diminuiscono. Inoltre, alcune opere non sembrano più rispondere all’intuizione primitiva dei nostri fondatori né al momento storico che ci è dato di vivere. Bisognerà forse creare opere nuove per rispondere alle nuove sfide, chiuderne altre e infine riorientarne altre o bisognerà continuare le opere tradizionali, per garantire la loro sopravvivenza? Ci sono persone che hanno investito molti sogni e molte energie e speranze in quest’opera ed è naturale che lasciarla costi lacrime.

Alcune congregazioni hanno avuto il coraggio di elaborare, nel discernimento e in fraternità, un progetto apostolico comunitario e normalmente è stato un successo. Ma il problema è lontano dall’essere risolto. Forse ci sono troppe opere e troppo grandiose con un apparato strutturale immenso. Ci manca una vita più semplice e sobria in cui risalti maggiormente la presenza gratuita, semplice e appassionata. Ci sono inoltre persone che in queste opere spettacolari vedono come dei “segni” dell’identità e della missione della vita religiosa. Qualche tempo fa si cominciarono a sentire voci profetiche che suggerivano – ed esigevano – che si avesse il coraggio di alleggerire questo apparato strutturale mastodontico in cui, spesso, le vite sono paralizzate e “mezzo morte”. Ci sono strutture mentali e materiali così sclerotizzate e rigide che impediscono il flusso vitale del Vangelo, che imprigionano le persone senza lasciare che si muovano con la freschezza e la libertà dello Spirito. Abbiamo bisogno di samaritani che possano scendere dalla cavalcatura per avvicinarsi, fasciare le ferite e portare alla locanda colui che è stata lasciato mezzo morto lungo la strada (cf. Lc 10,34).

 

Come allora ridare alla vita religiosa il suo fascino? In questa riflessione sono apparsi non pochi segni del cammino per trovare la via desiderata. Sentiamo l’urgenza come chiamata dello Spirito di creare, inventare e andare avanti spogli (Gabriel Ringlet):

– creare per mettere “vino nuovo in otri nuovi”. Non si può dare risposta a ciò che nessuno ci chiede, né dare risposte vecchie a sfide nuove. Senza chiarezza, senza creatività, immaginazione e coraggio non sarà possibile rispondere efficacemente alle grande sfide che ci vengono poste dal cambiamento epocale che stiamo vivendo. In questo caso, la vita religiosa non sarà significativa, avrà il sapore di qualcosa di antiquato e diventerà una reliquia del passato, un museo che molti visitano ma dove nessuno vuole vivere;

 

– inventare: è ora che, nel discernimento e nella fraternità, abbandoniamo strutture obsolete, inadeguate, le quali, anziché infondere vita, la frenano; che, nella fedeltà creativa ai nostri carismi, ne compiamo una rilettura senza confondere il loro dinamismo con le realizzazioni storiche che hanno assunto nel corso dei tempi. Lo stesso vale per il modo di intendere i voti oggi, per il nuovo stile di comunità e un impegno più creativo nella missione condivisa con i nostri fratelli e le nostre sorelle e gli stessi laici, i quali non sono nostri collaboratori, ma “compagni nella missione”;

 

– andare avanti spogli: è necessario che andiamo avanti con la bisaccia in spalla e il bastone in mano sulle orme di Gesù. Non è facile la meta. A raggiungerla non saranno coloro che lo fanno per forza ma coloro che si sono convertiti. Se la fondazione è stata fatta sotto il soffio dello Spirito, anche la rifondazione dovrà essere effettuata sotto il soffio del medesimo Spirito. Conoscendo la nostra fragilità, crediamo nella forza dello Spirito che riaccenderà nuovamente i nostri cuori della passione per Cristo e l’umanità.

 

J. M. Guerrero