DICHIARAZIONE CONGIUNTA ANGLICANI-CATTOLICI
“MARIA, GRAZIA E SPERANZA IN CRISTO”
Il documento,
emanato il 16 maggio scorso a Seattle (USA), cerca di utilizzare un linguaggio
su Maria che rifletta ciò che le due chiese hanno in comune, allo scopo di
trascendere le controversie del passato. Il testo, definito un documento
“storico”, ha bisogno ora di essere approfondito.
Agli occhi degli ottimisti, di quanti si ostinano a
scrutare l’orizzonte per cogliere i minimi segni dell’agognata fine
dell’inverno ecumenico, si tratterà di un indizio di notevole portata. Che
verrà giocoforza accostato al recente avvento al soglio pontificio di Benedetto
XVI, il quale, nel discorso ai cardinali riuniti nella Cappella Sistina e
apparso come un autentico programma di pontificato, il giorno dopo la sua
elezione, aveva assicurato di voler proseguire – sulla scia del suo
predecessore – sulla via maestra del dialogo con le religioni, le culture e con
quanti «cercano una risposta alle domande fondamentali dell’esistenza».
Assumendo «l’impegno primario – secondo le sue stesse parole – di lavorare
senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di
tutti i seguaci di Cristo», ben sapendo quanto tale tremenda frattura
rappresenti una pesantissima controtestimonianza all’annuncio evangelico. Tema
ripreso domenica 24 aprile, durante l’omelia dell’eucaristia d’esordio, con la
poetica sottolineatura della rete da pesca ora strappata (Gv 21,11), in
funzione dell’unità dei cristiani, e il giorno successivo, nella sala
Clementina, quando di fronte ai rappresentanti delle altre chiese cristiane ha
riproposto la direttrice di un ecumenismo spirituale e l’imperativo di Gesù ut
unum sint.
Da allora, in effetti, si sono susseguiti incontri
informali, messaggi distensivi, piccole tracce di disgelo: tra le quali, il
saluto inviato a sorpresa da papa Ratzinger alla chiesa riformata di Francia,
in occasione del suo sinodo (prima volta, per un pontefice). Tanto più
significativo, se si pensa che la Federazione protestante di quel paese si era
notata, dopo l’elezione del successore di Giovanni Paolo II, per aver
pubblicamente espresso preoccupazione sulla sua figura, fino a chiedergli «un
segno di apertura ecumenica»: segno arrivato con sollecitudine, dunque. E
apprezzato dai riceventi, che nel frangente hanno rilevato il fatto che «questo
messaggio provenga da qualcuno che si è presentato come un fratello e che si
unisce a noi con la preghiera».
IL DOCUMENTO
SU MARIA
Detto ciò, è forse presto per dire che anche la recente
presentazione del documento congiunto fra la Chiesa cattolica e la Comunione
anglicana su Maria andrebbe inserita senz’altro in tale percorso. La notizia,
in effetti, era nell’aria ormai da tempo. Sta di fatto che, in ogni caso, il 16
maggio scorso a Seattle, negli Stati Uniti, è stato finalmente reso noto il
testo di Maria: grazia e speranza in Cristo, la dichiarazione congiunta sul
ruolo della Vergine nella dottrina e nella vita della chiesa frutto della
Commissione internazionale anglicano-cattolica (ARCIC) presentata dai due
attuali co-presidenti, mons. Alexander J.Brunett, arcivescovo cattolico di
Seattle, e da Peter F.Carnley, arcivescovo di Perth e primate della chiesa
anglicana d’Australia. «Abbiamo cercato – scrivono i due nella prefazione – di
utilizzare un linguaggio che riflettesse ciò che abbiamo in comune e
trascendesse le controversie del passato. Nello stesso tempo abbiamo dovuto
affrontare con coraggio definizioni dogmatiche che, se sono integrate nella
fede dei cattolici romani, sono anche ampiamente estranee alla fede degli
anglicani».
Elaborato nel corso di un lustro da una commissione
composta di 18 membri, si tratta del primo dialogo internazionale bilaterale
che ha assunto come soggetto il ruolo di Maria nella Chiesa: un evento che uno
dei partecipanti alla Commissione, il vescovo di Nottingham, Malcom McMahon, ha
definito decisamente storico. Nel quale il segretario del Pontificio consiglio
per l’unità dei cristiani, il vescovo Brian Farrell, ha ammesso di riporre
molta fiducia, perché la dichiarazione «permette di scoprire tutto ciò che abbiamo
in comune su Maria, anche con i riformatori anglicani dei secoli XVI e XVII,
che erano visti come antimariani, ma non lo erano». Tanto più che essa – ha
precisato il rappresentante vaticano – «affronta la problematica dei dogmi
cattolici, e sarà interessante non solo per il dialogo cattolico-anglicano, ma
anche per quello con tutte le comunità sorte dalla Riforma».
UNA NUOVA
COMPRENSIONE
Le 43 pagine che costituiscono il testo sono suddivise in
80 paragrafi. Dopo l’introduzione, si apre la sezione più ampia (paragrafi
6-30), dedicata al posto di Maria nella Bibbia («È impossibile essere fedeli
alle Scritture senza dare la giusta attenzione al ruolo di Maria»). La seconda
sezione, dal paragrafo 31 al 40, prende in esame la tradizione del primo millennio,
dai primi concili ai padri della Chiesa, considerati normativi da entrambe le
chiese, con una forte sottolineatura del tema di Maria come Theotokos, Madre di
Dio, protagonista da subito della riflessione teologica. I paragrafi
successivi, dal 41 al 46, presentano la devozione mariana medievale, fino ad
ammettere che «il peso della devozione nel Medioevo, le controversie teologiche
che vi furono associate, mostrano che alcuni eccessi nella devozione e le
reazioni che vi furono all’epoca della Riforma hanno contribuito a rompere la
comunione tra di noi».
La convergenza trovata fin qui permette di affrontare
quindi le questioni più scottanti, relative alla coppia di dogmi mariani
dell’Immacolata Concezione (definito da Pio IX nel 1854) e dell’Assunzione di
Maria in cielo (definito da Pio XII nel 1950). Beninteso, la Commissione di
studio non ha risolto interamente le differenze tra le due chiese al riguardo,
ma ha evidenziato come – a questo punto – esista almeno una base comune e
accettata da entrambe. Il cuore del discorso riguarda le frasi con cui i dogmi
sono presentati, e che costituiscono un problema per l’anglicanesimo
(l’affermazione rivelato da Dio, sul primo, e quella divinamente rivelato,
sull’altro): per esso, infatti, «la Sacra Scrittura contiene tutto ciò che è
necessario alla salvezza: così che tutto ciò che non vi si legge né può essere
verificato, non è richiesto a nessuno né come articolo di fede né come
requisito necessario per la salvezza». Al proposito, il documento chiarisce
come le locuzioni vadano comprese oggi alla luce dell’insegnamento del Vaticano
II, e cioè del «ruolo centrale della Scrittura nella ricezione e trasmissione
della rivelazione»: «Quando la chiesa romana cattolica afferma che una verità è
rivelata da Dio, non significa che essa propone una nuova riflessione. Queste
definizioni sono piuttosto comprese per dare testimonianza di ciò che è stato
rivelato fin dall’inizio».
Nelle conclusioni, si traccia una serie di affermazioni
comuni incentrate sul fatto che «ogni interpretazione del ruolo di Maria non
deve oscurare l’unica mediazione di Cristo», e che «è impossibile essere fedeli
alla Scrittura senza dare degna attenzione alla persona di Maria».
Ovviamente, le due chiese si riservano di studiare
ulteriormente il testo, e di valutarne appieno il contenuto: nondimeno, è stato
compiuto un passo di una concreta rilevanza in vista di una futura
riunificazione, che oggi appare – diciamo così – meno lontana.
IL CAMMINO
CONTINUA
Con la pubblicazione di Maria: grazia e speranza in
Cristo, si potrebbe dire positivamente conclusa la seconda fase dei rapporti
ufficiali tra cattolici e anglicani, almeno nel dopo-concilio (va sottolineato
infatti che tra i dialoghi della chiesa cattolica con le chiese occidentali,
quelli con la Comunione anglicana hanno raggiunto i risultati più ampi, a
partire dagli storici Colloqui di Malines, sotto la guida del cardinale belga
Mercier, tra il 1921 e il 1926).
La prima fase era stata inaugurata dal Rapporto di Malta
(1968), su ispirazione di Paolo VI e dell’allora arcivescovo di Canterbury
Michael Ramsey, per terminare nel 1981 con la pubblicazione del rapporto finale
di ARCIC I: argomenti affrontati, nell’intento di favorire un impegno comune
nella preghiera, nella testimonianza e nella missione, la dottrina
sull’eucaristia, il ministero e l’ordinazione e l’autorità nella chiesa, su cui
si giungeva a quello che veniva definito un accordo sostanziale. L’anno dopo,
su mandato di Giovanni Paolo II e del nuovo primate anglicano Robert Runcie,
nasceva ARCIC II, chiamata a proseguire sulla strada intrapresa, ad avviare a
soluzione le permanenti differenze dottrinali, a verificare i nodi che ancora
si frapponevano al riconoscimento reciproco dei ministeri e, infine, a indicare
itinerari concreti in vista di una piena comunione tra le due chiese. Tanto che
il cardinal Cassidy, presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei
cristiani, nel 1994 poté affermare che nelle questioni dell’Eucaristia e del
ministero “al momento non (è) più necessario alcuno studio ulteriore”. Nel
corso del tempo, nei due momenti la commissione aveva prodotto quattro
documenti: La salvezza e la Chiesa (1987), La Chiesa come comunione (1991),
Vivere in Cristo: la morale, la comunione e la chiesa (1994) e Il dono
dell’autorità (1999).
Nel frattempo, però, il tono dei rapporti stava
cambiando, e non certo in meglio, soprattutto a causa dell’approvazione
dell’ordinazione femminile da parte della chiesa d’Inghilterra, nel 1992, che
aveva provocato notevole sconcerto sul versante cattolico, e contribuito
fortemente a far riemergere le questioni più delicate, ancora irrisolte, sul
riconoscimento reciproco dei ministeri. Così che sono apparsi necessari segnali
di distensione sia la visita ufficiale alla Santa Sede del nuovo primate, Rowan
Douglas Williams, a ottobre del 2003; sia la decisione del cardinale Walter
Kasper, nuovo presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, di
incontrare ufficialmente il canonico John L. Peterson, segretario generale del
Consiglio consultivo anglicano, per valutare assieme il futuro del dialogo
cattolico-anglicano, il mese successivo: con un comunicato congiunto che
spronava a non demordere sul cammino intrapreso, nonostante le evidenti
difficoltà in atto.
Il 13 febbraio del 2004, poi, si svolgeva il Sinodo
generale della chiesa d’Inghilterra, guidato per la prima volta da Williams,
che metteva a fuoco le tesi contenute ne Il dono dell’autorità. Durante i
lavori sinodali, più di un intervento riguardava la rilevanza di un chiarimento
sul ruolo del vescovo di Roma, anche alla luce delle offerte contenute
nell’enciclica di Giovanni Paolo II Ut unum sint (1995), insieme all’auspicio
che gli accordi ecumenici risultino «coerenti con la nostra eredità di fede»:
un’espressione che rivela schiettamente il timore, avvertito da una vasta
porzione del mondo anglicano, che quei materiali prodotti da ARCIC II
riflettano in realtà più le dottrine romane che quelle elaborate dalla chiesa
inglese sin dal suo sorgere. Da parte sua, lo stesso Williams aggiungeva non
senza coraggio nell’occasione che andrà ulteriormente messa a fuoco la
questione strategica del rapporto fra chiesa locale e chiesa universale, anche
sull’onda dell’emozione per le forti polemiche suscitate dall’ordinazione,
nello stato americano del New Hampshire, di un vescovo episcopaliano gay, oltre
che dalla decisione della diocesi canadese di New Westminster di benedire
pubblicamente le unioni omosessuali: punte di un iceberg che avevano costretto,
già nell’ottobre 2003, i primati anglicani riuniti ad hoc a osservare che si
era giunti «ad un punto critico e cruciale nella vita della Comunione», messa
anzi gravemente a repentaglio. A tale proposito veniva creato un nuovo
organismo, la Lambeth Commission, allo scopo di avviare un apposito processo di
valutazione e di affrontare di petto i problemi, i cui risultati dovrebbero
essere resi noti nei prossimi mesi (i tradizionali strumenti di unità, infatti,
non erano in grado di risolvere la crisi perché chiamati a esercitare solo
un’autorità morale e non un magistero dottrinale).
Si tratta, com’è evidente, di un quadro particolarmente
delicato, quello che è di fronte al primate Rowan Williams, già arcivescovo di
Cardiff e primate del Galles, 104° arcivescovo di Canterbury e leader di una
Comunione che conta settanta milioni di fedeli sparsi in tutto il mondo, dagli
USA all’India, dal Sudan al Sudafrica, dall’Australia ai Caraibi. L’amico
monaco Enzo Bianchi lo descrive come uomo che «ha imparato la difficile arte
dell’ascolto dell’altro nel dialogo ecumenico con la chiesa ortodossa e ha
sempre cercato di ritrovare nelle comuni radici bibliche e patristiche la
chiave non per un compromesso ma per un’autentica conversione all’unico Signore
dell’unica chiesa».
Nato nel 1950 a Swansea (Galles), sposato e padre di due
figli, già all’indomani della sua nomina attorno a lui si era creata parecchia
curiosità: teologo di valore, a soli 36 anni era il più giovane docente
ordinario di teologia nella plurisecolare storia dell’università di Oxford,
autore non solo di tomi dogmatici ma anche di opere di spiritualità e di
poesia, e dotato di una vasta cultura laica; membro dal 1990 dell’Accademia
britannica e strenuo oppositore prima della politica inglese sulla guerra in
Afghanistan, e poi su quella in Iraq. Oggi, stando a più di un commentatore, è
il suo profondo radicalismo evangelico che potrebbe risultare la chiave di
volta della fragile unità anglicana. Di fronte a lui, infatti, c’è chiara la
consapevolezza di un panorama tuttora in ebollizione, nel contesto del quale risulta
tanto più importante la sigla dell’accordo sul documento congiunto su Maria:
che in ogni caso fa ben sperare per il futuro dell’ecumenismo, questo evento
inatteso e ancora incompiuto che ha caratterizzato il novecento dei cristiani,
convocato nel nuovo secolo a compiere finalmente i passi decisivi ut unum
simus.
Brunetto Salvarani