PIÙ CHE CRISI
UN MOMENTO DI PASSAGGIO
Se si vuole proprio
parlare di crisi, bisogna dire che essa non riguarda la “consacrazione” in se
stessa. Intervista a padre Mario Aldegani, presidente nazionale CISM.
A suo parere,
viviamo realmente una crisi della vita religiosa e, se sì, quali ne sono le
dimensioni?
Mi pare necessario premettere due osservazioni: la prima
è che crisi significa certamente difficoltà, ma anche momento di discernimento
e di giudizio e fase di passaggio, e quindi il suo significato non è soltanto
negativo. La seconda è che in uno sguardo globale forse non è neppure vero che,
a livello mondiale, si deve parlare di una crisi della VC: nella nostra Italia
si vive certamente un momento difficile; ma già passando all’Europa
bisognerebbe differenziare il giudizio, e ancora di più se si prendono in
considerazione le aree geografiche continentali. Vi sono parti del mondo dove
la VC vive momenti di crescita e di effervescenza. Inoltre, più in profondità,
la crisi della VC non riguarda allo stesso modo tutti e, soprattutto, non
riguarda nella medesima misura la “consacrazione” in se stessa; voglio dire che
se è vero che sono in crisi gli istituti tradizionali, mi pare altrettanto vero
che si moltiplicano realtà, esperienze e forme nuove di consacrazione che sono
la fantasia dello Spirito per il nostro tempo.
In queste premesse ci sono, a mio parere, le reali
dimensioni della crisi, che dunque va letta e vissuta soprattutto come un
momento di cambiamento, di trasformazione e di passaggio.
Il sintomo più evidente della crisi è naturalmente il
venir meno delle vocazioni, ma anche, allo stesso modo, un certo indebolirsi
della gioia e dell’entusiasmo nel vivere la propria consacrazione da parte dei
membri della VC e forse anche una eccessiva ansia per il problema del futuro
della VC, che forse toglie qualche energia che si potrebbe ancora spendere,
umilmente e lietamente nell’oggi.
Del resto il papa Giovanni Paolo II ce lo ricordava in
VC: «Le varie difficoltà, derivanti dalla contrazione di personale e di
iniziative, non devono in alcun modo far perdere la fiducia nella forza
evangelica della vita consacrata, che sarà sempre attuale e operante nella
Chiesa. Se i singoli istituti non hanno la prerogativa della perennità, la vita
consacrata continuerà ad alimentare tra i fedeli la risposta di amore verso Dio
e verso i fratelli». E ancora: «Ciò che si deve assolutamente evitare è la vera
sconfitta della vita consacrata, che non sta nel declino numerico, ma nel venir
meno dell’adesione spirituale al Signore e alla propria vocazione e missione»
(VC 63).
Quali possono essere
le cause di fondo della situazione che lei ha descritto?
Le cause della crisi sono, a mio avviso, interne ed
esterne. Quelle interne, già un po’ accennate, potrebbero riassumersi nella
parola identità. In tempi di forte cambiamento, come quello che stiamo vivendo,
resistono e hanno futuro soltanto i soggetti che possiedono una forte identità,
la vivono e la rappresentano.
L’identità della VC, per semplificare, è tutta scritta
nel Vangelo, vissuto nella sua radicalità e nella sua semplicità e in un grande
spirito di libertà e profezia, anche rispetto a tutte le forme istituzionali
attraverso le quali necessariamente la comunità cristiana si organizza e si
esprime. Credo che la VC debba sempre essere attenta a recuperare per sé stessa
i valori della radicalità e della libertà evangelica.
Le cause esterne, almeno nel nostro mondo occidentale,
sono legate ai processi di secolarizzazione che conosciamo e agli effetti della
cultura cosiddetta postmoderna, nell’impossibilità di definirla diversamente,
segnata da forme forti di individualismo e di relativismo, fino al nichilismo,
che portano, anche senza teorizzarla, a una concezione della vita tutta centrata
su se stessi e sulla soddisfazione del proprio bisogno attuale, una vita senza
memoria e senza progetti, senza radici e senza futuro, che, anche
inconsapevolmente, non contiene in sé il senso della “vocazione”.
È una crisi che si
può superare e, nel caso, quali possono essere i rimedi, i mezzi più idonei?
Qui ci vorrebbe la bacchetta magica o una capacità
divinatoria per individuare i rimedi a una problematica così complessa già nel
descriverla. Tutti abbiamo la percezione che siamo come dentro a un “passaggio”:
abbiamo lasciato una sponda, ma ancora non vediamo dove e quando sarà
l’approdo.
A me pare però di poter individuare nella categoria
dell’uscire da sé, applicato a tutti i contesti e a tutti i livelli, una via
per il futuro. Questo significa: atteggiamento di relazione e ascolto,
collaborazione e comunione, attitudine a mettersi in discussione e a cambiare,
consapevolezza della necessità dell’altro (ogni altro e ogni altra istituzione
e realtà) come necessario completamento di sé, voglia di stare sulla strada e
in ricerca, compagni delle fatiche della cammino della vita degli uomini e
delle donne del nostro tempo.
Credo che il nostro primo impegno di consacrati sia
quello di “esserci” davvero sulle strade della vita, a condividere le fatiche,
le stanchezze, i dubbi e le inquietudini della gente che cammina, e allora
soprattutto ascoltare, compatire, accompagnare, condividere, da pellegrini
anche noi, da umili e onesti servitori e ricercatori del vero.
È necessario liberarsi da molte paure, avere il coraggio
di stare su vie inusuali. È necessario stare sulle strade per incontrare i
nostri fratelli e sorelle. È urgente aprire le nostre case, a volte mezze
vuote, per accogliere chi ha bisogno, per offrire luoghi di aggregazione, di
formazione, di preghiera, per offrire spazi di accoglienza gratuita.
Se riusciremo a liberarci dalla paura di estinzione della
razza e rivivremo lo spirito evangelico con radicalità, rifioriranno anche le
vocazioni.
Stiamo come attraversando un fiume, o un lago; passiamo all’altra
riva: quella lasciata è già lontana, quella da raggiungere non si vede ancora.
Logico che ci sia qualche trepidazione nella ciurma, e anche nei…capitani,
soprattutto quando infuria il vento.
Siamo però certi, e di questa certezza ci facciamo forti,
di avere a bordo della nostra barca, un “passeggero” che, anche se sembra
talvolta dormire, è colui che comanda ai venti e ai mari, colui che conosce la
rotta e dirige al porto: sulla sua presenza riposa il nostro remare, il nostro
sognare, il nostro sperare.
a cura di
Giovanni Gattuso