ATTEGGIAMENTO PROBLEMATICO QUANTO LA DISOBBEDIENZA

“SCISMA BIANCO” DELL’INDIVIDUALISMO

 

Anteposti i progetti personali a quelli comunitari. La realizzazione di sé e lo “star bene” al primo posto. I limiti soggettivi di una religione immaginaria. L’individualismo non è sempre un “controvalore”. Compromesso, a volte, anche il “minimum” di regolarità comunitaria.

 

Uno degli imputati più eccellenti in ogni discorso sulla crisi della vita consacrata e in particolare sui rapporti intercomunitari è sicuramente quello dell’individualismo. Nell’immaginario collettivo è una di quelle “mine vaganti” che sarebbe all’origine del fallimento di tanti progetti apostolici comunitari. Il condizionale è d’obbligo, non fosse altro che per una semplicissima ragione: è difficile intendersi e convergere sul significato reale di uno dei termini sicuramente oggi non solo più usati ma anche spesso abusati.

È questo il motivo per cui, nel momento in cui si riafferma la centralità della comunità, mai come oggi al vertice di ogni tentativo di rinnovamento o di rifondazione della vita consacrata, si staglia immediatamente sullo sfondo quello che a torto o a ragione, ripetiamo, è ritenuto il suo peggior nemico, appunto l’individualismo.

Nel recente congresso internazionale sulla vita consacrata la vita comunitaria è stata presentata come «il luogo teologico del nostro incontro con Dio e con gli altri», un luogo pertanto essenziale nell’esperienza dei consacrati. Quante volte però questa dimensione teologica è seriamente compromessa da scelte e da cammini paralleli, programmati e vissuti a livello individuale. Sono sempre più frequenti i tentativi di anteporre e spesso anche di imporre i propri progetti personali a quelli comunitari. «Il voler reagire a tutti i costi a una certa uniformità di comportamento ereditata dal passato, fa sì che il vivere da soli venga considerato un valore».

E per vivere “da soli”, aggiungiamo noi, non è necessario trascorrere la gran parte della propria giornata fuori dalle mura della casa religiosa. La solitudine più preoccupante è quella che ci si ritaglia all’interno della comunità, anche nella fedeltà esterna ai momenti e agli impegni quotidiani più significativi. Quante giornate, settimane, mesi e forse anche anni, a volte, si rischia di passare non gli uni con gli altri, ma semplicemente gli uni accanto agli altri. Può succedere nelle famiglie. Ma può succedere anche, non meno frequentemente, nelle comunità religiose.

 

VINCOLI

PURAMENTE SOCIALI

 

Sul tema dell’individualismo nella vita consacrata abbiamo letto delle riflessioni stimolanti di G. Mussi su un recente numero di Civiltà Cattolica (16 aprile 2005). Anche i religiosi non possono sottrarsi all’influsso della cultura dominante. Ora, nella cultura odierna è facile trovarsi di fronte all’indipendenza «da sistemi di senso fissi, da valori percepiti come assoluti, da tutto ciò che potrebbe impedire o compromettere lo “star bene” come l’individuo lo percepisce momento per momento». Sono queste alcune delle radici da cui scaturiscono il soggettivismo e l’individualismo.

Dal momento, appunto, che anche i religiosi respirano a pieni polmoni, spesso inconsapevolmente, i valori ambientali, è possibile allora che «non raramente anche nel religioso si osservi la tendenza a impostare individualisticamente la vita concentrandola sullo “star bene”, ossia sulla soddisfazione personale, che comporta il “contare su se stessi” ossia la libertà assoluta di scelta e il ripudio di ogni peso di responsabilità o di impegno che non coincida con la realizzazione personale».

Questo atteggiamento che secondo l’autore è maggiormente diffuso tra i giovani al di sotto dei trent’anni e con un elevato titolo di studio, comporta una pratica autoesclusione da tutti i valori acquisiti e trasmessi dalla tradizione. Anche quando permangono dei vincoli di gruppo, essi sono puramente sociali e prescindono facilmente da un comune patrimonio di credenze. Anche quando si intraprende una ricerca nel campo della fede, questa ricerca «è condotta con criteri personali che non passano solitamente attraverso la testimonianza della comunità». Nel proprio quadro di riferimento non manca però soltanto la comunità, mancano spesso anche «il senso della legge divina, la fiducia e l’abbandono alla Provvidenza, l’attenzione al soprannaturale come meta ultima della vita».

Si deve allora necessariamente ripensare anche il ruolo dell’autorità, «non ripetendo semplicemente i luoghi classici dell’ascetica (obbedienza, mortificazione, umiltà), ma tenendo in seria considerazione il nuovo orizzonte della libertà individuale imposto dal clima culturale». Nessuno come chi ha una diretta esperienza di governo, anche e soprattutto nella vita consacrata, sa benissimo come oggi «il nuovo nome dell’autorità non è l’imposizione, ma la persuasione». Nessuno come un superiore, dovrebbe sapere che, in una cultura in cui ciò che conta è soprattutto la capacità di scelta, «il valore e i rischi dell’autenticità individualista abitano oggi anche nei recinti destinati alla vita di consacrazione».

Ciò che forse maggiormente potrebbe preoccupare è il fatto che anche nei religiosi «è invalsa pacificamente, senza traumi visibili, una concezione di fede che presenta i tratti di un fatto privato di coscienza, di un’esperienza individuale che non ama confrontarsi con i dati oggettivi, a tutti accessibili, della fede della Chiesa». Anche se la causa prima del fenomeno è culturale, ciò non toglie che l’individualismo del religioso, viene detto citando un testo di G. Angelini, tenda «a farlo rinchiudere nei limiti soggettivi di una personale religione invisibile, fatta più di sentimenti e pensieri propri che di sostanza e comportamenti ecclesiali, con il pericolo di trasformarsi in una religione puramente immaginaria».

 

IL “TERZO UOMO”

NELLE COMUNITÀ

 

Il sociologo gesuita brasiliano, J. B. Libanio, nella sua ampia relazione al congresso internazionale sulla vita consacrata, non poteva non affrontare anche questo argomento. Per la vita consacrata si sta verificando un distacco della nuova generazione di religiosi dal corpo sociale della congregazione. È quella che lui definisce l’entrata in scena del “terzo uomo”, quella persona, cioè, «che conosce le norme, non protesta contro di esse, ma le segue solo secondo il suo bell’arbitrio». Si tratta di un vero e proprio “scisma bianco”, fondato spesso su un doppio linguaggio. C’è un linguaggio per il pubblico esterno: superiori, colleghi, aspettativa sociale, e un altro linguaggio reale di esperienza interna, per la propria coscienza. Non sempre, osserva Libanio, questo gioco è totalmente cosciente. Secondo alcune ricerche in proposito, sarebbero i formatori stessi a “dubitare” della motivazione dichiarata dai formandi: «il donarsi ai poveri come Gesù, gli aneliti umanitari, la ricerca di Dio e la motivazione profonda cosciente e incosciente, taciuta, che aleggia intorno all’autopromozione, all’autoriconoscimento, all’occultamento di problemi affettivo-sessuali».

Troppo spesso, è stato detto nei gruppi di studio tematici del recente congresso, «vengono bloccate sul nascere tante iniziative comunitarie capaci di dare risposte concrete a bisogni reali». Ma queste iniziative comunitarie, ci permettiamo di aggiungere, solitamente, non cadono dal cielo, non nascono da sole. Decollano solo e soprattutto con la presenza e l’azione a volte anche di una sola persona convinta della loro validità. La “rifondazione” della vita consacrata, di cui si è tanto parlato in questi ultimi quindici anni, se spesso è ancora bloccata nelle intenzioni, nella buona volontà, non potrebbe anche dipendere dall’assenza reale di convinti rifondatori?

È un dato di fatto che alcune proposte, alcune opere apostoliche, in campo culturale, pastorale, assistenziale, educativo, sociale, sono nate, si sono sviluppate grazie all’iniziativa più di un singolo religioso che non del suo consiglio provinciale.

C’è comunque, è stato detto sempre nel congresso romano, troppa immaturità psicologica, cui si accompagna inevitabilmente una mancata corresponsabilità nella conduzione e nella animazione della vita comunitaria. Tanti ostacoli cadrebbero sicuramente se solo ci si sforzasse di usare un vocabolario e un linguaggio comuni tutte le volte che si parla di dialogo, di comprensione dell’altro, di discernimento, di obbedienza e di corresponsabilità.

La stessa formazione permanente più profonda, come ha sintetizzato nell’apposito gruppo di studio Amedeo Cencini durante il congresso, è prima di tutto un atteggiamento interiore che consente di crescere imparando dalla vita, soprattutto da Dio, dalla sua Parola e dal suo mistero, dalla ricchezza del proprio carisma, ma anche «dagli altri, da ogni fratello, santo o meno, dalla gente, dai poveri, da ogni cultura, in ogni momento della vita e in qualsiasi ruolo, nel successo e nell’insuccesso, da giovane o da anziano, lasciandosi toccare dalla vita e cogliendo ovunque il minimo frammento di verità e di bellezza».

A livello di singole persone, nel campo della formazione permanente, uno dei maggiori ostacoli «è la rigidità mentale, con conseguente senso di autosufficienza, paura, chiusura, fenomeni regressivi, ripetitività, delega all’istituzione di ogni progetto». È un ostacolo che si annida trasversalmente in tutte le età: «c’è un narcisismo nei giovani, un calo di passione nella fascia dei religiosi di mezza età, una rigidità e poca comprensione negli anziani».

 

NON È SOLO

UN CONTROVALORE

 

Se è vero che l’individualismo dal momento che, molto più della disobbedienza, rischia di paralizzare letteralmente l’autorità nella vita consacrata, costringendola in qualche modo a girare a vuoto, sarebbe ingiusto, aveva affermato il superiore generale dei gesuiti, p. Kolvenbach, considerarlo soltanto un controvalore (Testimoni, 20/97). Esso, infatti, ha favorito il senso della responsabilità personale. Ha sviluppato un senso in qualche modo più acuto di fare le cose liberamente, senza fatalismo o abitudinarietà. Affermando la propria individualità, si possono anche più facilmente migliorare le relazioni umane nelle comunità. I compiti apostolici stessi, invece di rimanere anonimi, assumono una configurazione anche più personalizzata.

Pur nel pieno riconoscimento dal valore in sé assoluto della singola persona, dell’individuo, i problemi sorgono, diceva sempre p. Kolvenbach, quando il singolo religioso pretende di avere sempre l’ultima parola. Anche se non si nega espressamente l’autorità, però la si accetta solo a livello di legittimazione formale esterna. Se lo scopo fondamentale dell’autorità è quello di far crescere nei membri della comunità sia un’autentica spiritualità che l’impegno apostolico, il comportamento individualistico del singolo religioso viene a svuotare dall’interno l’esercizio stesso dell’autorità.

Il rischio di essere criticati anche ingiustamente spinge oggi non pochi superiori verso scelte rinunciatarie nell’esercizio della loro autorità. Di fronte all’alternativa di un irrigidimento sulle proprie posizioni, difendendole a denti stretti, per un superiore diventa sicuramente più allettante la strada della resa incondizionata, nella speranza di mantenere la pace ad ogni costo. A quanti vivessero a questi livelli l’esercizio dell’autorità, ha concluso Kolvenbach, sarebbe quanto mai opportuno esortarli a fare propria la preghiera dell’abate Aelredo: «Signore, poiché tu hai dato loro [i monaci] questa guida cieca [che sono io], questo dottore ignorante [che sono io], questo capo senza sapere [che sono io], guida tu stesso colui che hai voluto per guida. Ammaestra tu stesso colui che tu hai stabilito come dottore. Governa tu stesso colui che deve essere loro capo. Se non per me, fallo almeno per loro».

Sui possibili conflitti tra l’autorità del superiore e la coscienza del religioso, «questo santuario, in cui l’uomo è solo con Dio e in cui la sua voce si fa intendere», Paolo VI ha scritto alcune cose, forse troppo affrettatamente dimenticate. La coscienza, ha precisato in Evangelica testificatio, «non è da sola l’arbitra del valore morale delle azioni che ispira, ma deve riferirsi a norme oggettive e, se è necessario, deve riformarsi e rettificarsi». Un religioso, pertanto, non dovrebbe allora «ammettere facilmente che ci sia contraddizione tra il giudizio della sua coscienza e quello del suo superiore». Quando questo si verificasse, è allora inevitabile una «autentica sofferenza interiore». Del resto, Cristo stesso, come leggiamo in Eb 5, 8, non ha forse imparato mediante la sofferenza che cosa significa obbedire?

 

IL “MINIMUM”

DI REGOLARITÀ

 

Paolo VI era pienamente consapevole dell’inquietudine, dell’incertezza, della instabilità che alcuni religiosi hanno sempre dimostrato in ogni discorso e in ogni iniziativa a proposito del vero rinnovamento della vita consacrata. «L’audacia di certe arbitrarie trasformazioni, un’esagerata diffidenza verso il passato, anche quando esso attesta la sapienza e il vigore delle tradizioni ecclesiali, una mentalità troppo preoccupata di conformarsi affrettatamente alle profonde trasformazioni, che scuotono il nostro tempo, hanno potuto indurre taluni a considerare caduche le forme specifiche della vita religiosa» (n. 2).

Perché meravigliarsi, allora, se «un eccessivo desiderio di flessibilità e di spontaneità creativa può far tacciare, in effetti, di rigidezza il minimum di regolarità nelle consuetudini, che la vita delle comunità e la maturazione delle persone ordinariamente richiedono? «Slanci disordinati, che si appellano alla carità fraterna o a ciò che si crede mozione dello Spirito, possono condurre le istituzioni anche al loro sfacelo» (32).

 

Può forse sorprendere questo esplicito riferimento al minimum di regolarità nella vita comunitaria. Pur non avendone mai fatto personalmente e direttamente esperienza, Paolo VI dimostra però di conoscere a fondo certi dinamismi della vita di quelle comunità in cui, a volte, non mancano facili giustificazioni per legittimare anche l’assenza minimale di ogni forma di regolarità.

 

Angelo Arrighini