ASCESI E ATTENZIONI ASCETICHE
UN’AUTORITÀ CHE SIA FRATERNA
Un tema
tra i più attuali nel panorama della vita consacrata è la correlazione tra
autorità, fraternità e spiritualità. Esiste una spiritualità dell’autorità? Se
sì, come coniugarla con il vissuto quotidiano delle relazioni comunitarie?
Il termine autorità, accompagnato dall’aggettivo fraterna, non ha bisogno di molte considerazioni. È tema abbastanza ricorrente in questi anni di cambiamenti teorici e pratici avvenuti, a ritmo incalzante, nella vita religiosa.1
Prima di parlare di una ascesi propria dell’autorità, è opportuno parlare di una spiritualità dell’autorità. Che cosa intendo dire con questa espressione?
La spiritualità non è altro che la vita del cristiano in quanto segnata dall’evento Gesù Cristo e guidata dallo Spirito Santo che egli ci ha donato. Vita consecrata parla di «vita in Cristo, vita secondo lo Spirito, [che] si configura come un itinerario di crescente fedeltà, in cui la persona consacrata è guidata dallo Spirito e da lui configurata a Cristo, in piena comunione di amore e di servizio nella Chiesa» (93).
La vita della persona cristiana, o la vita spirituale, non è un’astrazione, ma si attua nello spazio e nel tempo concreti di questa mia vita, dentro questa mia storia, con tutto ciò che la caratterizza (con i suoi vari qui e ora), e dunque anche con tutte le precarietà che le sono proprie.
Secondo G. Moioli il credente vive in una condizione di “storicità paradossale”. La sua è infatti «la situazione di chi, restando riferito all’avvenimento assoluto, ultimo normativo... e tuttavia “passato”, deve vivere e non può non vivere la propria attualità storica altrimenti che come “memoria” di quell’avvenimento concreto che ha i tratti di una figura personale storica: la figura di Gesù. “Memoria”, non ripetizione materiale: e ciò come funzione, da un lato, della capacità dell’avvenimento Gesù di determinare la figura del credente cristiano nella sua attualità storica (mettendolo così, in un senso vero, in condizione di “contemporaneità“ con sé); e come funzione, dall’altro, della possibilità che questa determinazione apre al credente di porsi come “coerenza creativa” a Colui del quale egli deve essere “memoria”».2
Dunque la vita del cristiano – la vita spirituale – è vita nel qui e ora, nell’“attualità storica”; in essa il cristiano è “memoria” di Gesù e della sua vicenda storica, avvenimento che costituisce per lui un riferimento assoluto, decisivo. Non si tratta però di una “memoria” puramente ripetitiva o rigidamente imitativa di ciò che Gesù è stato: attuata nella concreta storia personale, la vita spirituale in qualche modo è determinata o configurata anche da tale storia. E dunque è una memoria “creativa”, chiamata a individuare il proprio cammino specifico, necessariamente coerente con la persona e la vicenda di Gesù.
Insomma, spiritualità significa far sì che la vita quotidiana sia lo spazio della fede, cioè del riferimento irrinunciabile all’evento Gesù, la vita quotidiana con tutte le sue dimensioni: relazioni con le persone e con le cose, ruoli o compiti, situazioni previste e impreviste, comportamenti quotidiani ripetuti, ecc.
Vengo finalmente alla spiritualità dell’autorità. Quando uno status, o un compito o una missione è importante, coinvolgente, ed è permanente o comunque durevole, influisce sul nostro modo di essere, sulle nostre relazioni, sul nostro agire: pensiamo per esempio all’essere marito o moglie, essere padre o madre, essere educatore o formatore. Diversa è la condizione dovuta ad un ruolo più superficiale o passeggero, come per esempio essere semplicemente guida di una gita o di un pellegrinaggio, o essere incaricato di animare un incontro…
Ora, se la vita spirituale prende forma dentro le situazioni concrete della storia di ognuno, mi pare che un compito o una missione che ho definito importante e permanente possa “colorare” la vita spirituale, o possa dar luogo, almeno in una certa misura, a una spiritualità cristiana specifica, o spiritualità “al genitivo”: spiritualità del coniuge, del genitore, dell’educatore. In altre parole, si tratta di vivere una vita cristiana concreta da coniuge, da genitore, da educatore.
Considerato il compito dell’autorità nella vita religiosa, di solito non permanente ma in genere abbastanza durevole, e comunque importante, possiamo parlare anche di una “spiritualità del superiore” o dell’autorità? Io credo di sì. Dentro lo spazio della propria vita di fede, o vita cristiana consacrata, ha senso che un/a superiore/a viva una spiritualità con alcune connotazioni che derivano dal suo ruolo.
Un compito che si presenta come ministero di insegnamento, santificazione e governo come potrebbe non influire sul modo concreto di vivere la fede, la relazione con Dio e con gli altri, e dunque la vita spirituale? E come, perciò, non tentare di rendere tale vita “memoria creativa” di Gesù riconosciuto come Signore e servo, venuto per servire e non per essere servito? Come non motivare e alimentare il proprio compito nella contemplazione, per esempio, dell’icona della lavanda dei piedi?
Questo è tanto più necessario quanto più constatiamo che è frequente il rischio di cadere in una concezione puramente manageriale-organizzativa del ruolo dell’autorità nella vita religiosa. Non a caso La vita fraterna in comunità (VF) insiste nel presentare la figura dell’autorità come persona spirituale, il cui primo compito è l’animazione spirituale (n. 50).
Mi sono dilungato sul concetto di spiritualità dell’autorità (o di una spiritualità concreta connotata anche dal servizio dell’autorità) perché l’ascesi non è mai fine a se stessa, né ricerca di una perfezione che rischia di diventare “autosalvezza”.
UN’ASCESI
DELL’AUTORITÀ
La vita spirituale – è il caso di ripeterlo appena – è opera dello Spirito; e tuttavia questo non ci dispensa dal compiere la nostra parte, in sinergia appunto, con lo Spirito. Del resto sia la Scrittura che la tradizione cristiana ci parla di battaglia, di lotta, di vittoria sul male, sull’egoismo, sull’“uomo vecchio”. «combatti la buona battaglia della fede», raccomanda Paolo a Timoteo (1Tm 6,12).
Purtroppo oggi l’ascesi rischia di scomparire dalla vita spirituale. Questo forse è dovuto anche ad alcuni equivoci che si sono creati attorno al concetto di ascesi: la già citata concezione dell’ascesi come autoperfezionamento; la frequente presentazione dell’impegno ascetico sulla base di una antropologia dualistica (spirito buono – corpo cattivo); una concezione “dolorista” della vita cristiana (secondo cui l’ascesi è tanto più “salvifica” quanto più comporta sofferenza).
Ma, liberati da questi equivoci, possiamo giungere a riconoscere che l’ascesi è collaborazione allo Spirito, o predisposizione alla sua opera, e che essa è in funzione della carità e della libertà. O, se si vuole, del raggiungimento di una condizione di libertà, senza la quale non è possibile amare veramente Dio e gli altri. L’affermazione di Paolo che «dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2Cor 3,17) può esprimere bene il fine dell’ascesi.
Vorrei aggiungere che l’ascesi fa pervenire a quella libertà nell’amare che dà a luogo anche a ciò che san Benedetto chiama «il gusto della virtù». A conclusione della presentazione del laborioso impegno ascetico richiesto dall’acquisizione dell’umiltà (si tratta di ben dodici gradini da ascendere), Benedetto afferma:
«Una volta ascesi tutti questi gradi dell’umiltà, il monaco giungerà subito a quell’amore che, diventato maturo, scaccia ogni paura, e per esso tutto ciò che il monaco prima compiva non senza trepidazione e fatica, ora comincia a eseguirlo senza fatica, quasi naturalmente, in forza di una buona abitudine, non già per paura dell’inferno, ma per amore di Cristo e per una buona abitudine e per il gusto della virtù» (Regola, cap.7).
In sostanza, ci viene detto che scopo dell’ascesi non è di condurci a “sfidare” qualunque sofferenza, in nome di una perfezione mai pienamente raggiungibile, ma a compiere il bene richiesto dalla sequela del Signore con più facilità e con più gioia. Se ci pensiamo bene, è una visione che si scosta non poco da certa concezione dell’ascesi cristiana predicata negli ultimi secoli e, qua e là, ancora oggi proposta.
Ricavo da una meditazione di Enzo Bianchi, che pure richiama lo stesso testo di san Benedetto, l’osservazione che spesso l’impegno ascetico consiste di fatto in un abbandonare determinati atteggiamenti o comportamenti, in un togliere via da sé progressivamente ciò che impedisce allo Spirito di operare, in una continua messa a morte dell’uomo vecchio: come lo scultore che, scalpellando il blocco di marmo fa uscire a poco a poco quello statua che già lo abitava. E lo stesso Bianchi richiama il fatto che, prima di concludere il grande inno alla carità in 1Cor 13, Paolo introduce quella strana osservazione sull’abbandono da parte dell’adulto di ciò che appartiene al bambino: «Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato». L’impegno ascetico, teso soprattutto al raggiungimento della carità, consiste dunque nel lasciare, superare, purificare, per passare a una fase successiva.
ALCUNE “TENTAZIONI”
DELL’AUTORITÀ
Potrebbe essere utile, a questo punto, richiamare le revisioni che il ruolo dell’autorità ha subito dal Vaticano II a oggi. Le do per conosciute, anche se in alcuni istituti religiosi, soprattutto femminili, permane una concezione “imponente” dell’autorità (fenomeno presente – a mio giudizio – in maniera preoccupante in alcuni istituti di recente fondazione, che sembrano ignorare del tutto la nuova teologia della vita religiosa). L’evoluzione positiva della figura dell’autorità è ben sintetizzata in questo giudizio di VF 49: «Il rinnovamento di questi anni ha contribuito a ridisegnare l’autorità, con l’intento di ricollegarla più strettamente alle sue radici evangeliche e quindi al servizio del progresso spirituale del singolo e della edificazione della vita fraterna nella comunità».
È questa l’autorità fraterna. L’aggettivo indica non solo un esercizio non autoritario dell’autorità, ma anche il fatto che l’autorità religiosa trova la sua ragione di esistere e il suo luogo proprio nella fraternità: si spiega dentro la fraternità e per la fraternità, non come un potere che giunge dal di fuori o si colloca al di sopra di essa. Anche se non si deve dimenticare che vi sono diversi tipi di comunità e perciò anche forme diverse di esercizio dell’autorità (cf. VF 49).
A questo punto ecco alcune attenzioni ascetiche, ovvero alcune provocazioni o alcuni suggerimenti che potrebbero aiutare un cammino ascetico che sostenga una spiritualità dell’autorità.
Propongo tali suggerimenti a partire dalla descrizione di situazioni che – come si è detto – domandano il superamento, o la “messa a morte” di atteggiamenti propri dell’“uomo vecchio”, secondo l’idea di impegno ascetico a cui ho accennato sopra. Per questo presenterò queste situazioni come “tentazioni”: in quanto esigono, appunto, di essere combattute, superate.
I piccoli titoli danno alle descrizioni un tono leggermente caricaturale, ovviamente non a scopo di dileggio, ma per accentuare taluni aspetti a cui intendo dare risalto.
«Accetto la croce»… Ma quanto è dolorosa la schiodatura!
È vero che molti e molte, oggi più di ieri, accettano di assumere il compito dell’autorità come un’autentica croce. Ma forse è vero anche che, nonostante le dichiarazioni che parlano di croce, non tutti sono insensibili alla sottile tentazione del potere. Non ci si consideri troppo facilmente immuni da tale tentazione. Un test interessante può essere dato dal fatto che – come si suole dire sorridendo nei nostri ambienti – a volte la schiodatura dalla croce risulta più dolorosa della crocifissione.
Del resto, è forse un caso che gli evangelisti pongano proprio subito dopo gli annunci della passione da parte di Gesù le discussioni dei discepoli su “chi fosse il più grande” (cf. Mc 9, 30-36; Lc 9,43-48), o la richiesta di alcuni di avere i primi posti (cf. Mt 20,17-23)? Luca addirittura colloca una seconda volta la discussione su “chi di loro poteva essere considerato il più grande” in un contesto ancora più sconcertante: durante l’ultima cena, dopo l’istituzione dell’Eucaristia, dopo l’annuncio del tradimento di Giuda e prima dell’annuncio del rinnegamento di Pietro (cf. Lc 22, 24-27).
È questa la tentazione tipicamente “mondana” di avere di più: più onori, più libertà (libertà “libertina”), più possibilità di decidere che le cose avvengano nell’istituto secondo i propri desideri, forse anche più possibilità di destinare il denaro secondo ciò che si considera più meritevole… A volte si può avere l’impressione, nelle comunità o istituti femminili in cui il potere dell’autorità è inversamente proporzionale alla assoluta impotenza o totale dipendenza, anche nelle cose infime, delle religiose “suddite”, che l’aspirazione a esercitare l’autorità sia alimentata dal comprensibile desiderio di essere finalmente libere, libere cioè da condizioni di eccessiva dipendenza.
Il cammino ascetico di chi è in autorità richiede la lettura e rilettura della pagina della lavanda dei piedi (che in Giovanni sostituisce “stranamente” il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia: Gv 13,1-17). Mi sia permessa anche la citazione di un testo particolarmente espressivo della concezione che Francesco d’Assisi aveva dell’autorità: «Non sono venuto per essere servito ma per servire (Mt 20,28), dice il Signore. Quelli che sono costituiti in autorità sopra gli altri, tanto si glorino del loro ufficio prelatizio come se fossero incaricati di lavare i piedi dei fratelli (cf. Gv 13,14); e quanto più si turbano per esser tolto loro la carica che se fosse loro tolto il servizio di lavare i piedi, tanto più ammassano un tesoro fraudolento (cf. Gv 12,6) a pericolo delle loro anime».
Ci sarà poi chi appare assolutamente immune da tale tentazione. Tuttavia costoro possono essere soggetti a una tentazione diversa: quella di evitare i pesi connessi con l’esercizio dell’autorità. Non sempre, dunque, la ricerca degli ultimi posti è dettata dall’umiltà o dalla bassa considerazione di sé. Gli ultimi posti, si sa, sono quelli più vicini all’uscita, dai quali si può, più o meno di soppiatto, svicolare, cioè, fuori di metafora, sottrarsi agli impegni, rimanere liberi dai fastidi delle responsabilità.
«Panta rei»: tutto passa, anche il mandato
Questa fuga dalla responsabilità può diventare tentazione anche di chi ha assunto l’impegno dell’autorità. Soprattutto in certi momenti, di fronte a problemi che paiono insostenibili, affiora sulle labbra la preghiera di Gesù nel Getzemani: passi da me... Penso, per esempio – esperienza oggi assai frequente – ai problemi di chi si trova a gestire un istituto fatto prevalentemente di persone anziane con prospettive vocazionali quasi nulle. In situazioni del genere gli appelli, oggi ricorrenti, al rinnovamento, alla ricerca di “nuovi modelli” di vita religiosa, addirittura alla “rifondazione”, possono suonare addirittura comici, se non portassero in sé degli interrogativi inquietanti: cosa fare? come fare?
Un impegno ascetico necessario, in questo caso, è allora quello di non cedere alla rassegnazione; magari dicendo: tutto passa (riemerge dai ricordi scolastici Eraclito con il suo panta rei); passerà anche il tempo del mio mandato! L’ascesi dell’autorità che vive questi momenti ha bisogno di ispirarsi all’obbedienza di Gesù: colui che «imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8).
Non si dimentichi che all’origine dell’assunzione dell’autorità vi è sempre un atto di obbedienza. E l’obbedienza chiede di amare e servire “queste” sorelle3 e non altre; amarle e servirle prima di verificarne la disponibilità al rinnovamento, o l’adesione alle varie iniziative. L’uomo vecchio che l’impegno ascetico deve far morire in questo caso è quello che tende a sussurrare: “con queste persone non è possibile lavorare… meglio lasciarle perdere!”.
Non dimentichiamo che Giovanni mette in bocca a Gesù l’espressione «Erano tuoi e li hai dati a me» (17,6) poco prima di essere tradito, rinnegato, abbandonato dai suoi. Del resto quel Gesù di cui la nostra vita spirituale fa memoria, non è forse Colui che è morto per noi «mentre eravamo ancora peccatori»?
Aggiungo: non si può animare una comunità in un perenne atteggiamento di “rassegnazione”. Tale compito esige di essere svolto almeno serenamente, se non proprio gioiosamente, con il cuore in pace.
Nel paese di Lilliput?
Anziane e giovani che siano lo sorelle, o di mezza età, mi pare che una tentazione non assente dalla vicenda spirituale di chi è in autorità era quella di considerare le sorelle come minorenni. Ho usato volutamente il verbo al passato: “era”. Tuttavia non sono sicuro che sia scomparsa del tutto nel presente, nonostante l’indiscutibile evoluzione avvenuta in tanti Istituti.
Alcuni segni? La necessità di chiedere i “dovuti permessi” anche per cose insignificanti; la mancata partecipazione della base in alcuni processi decisionali; una eccessiva uniformità stabilita dall’alto che mortifica le diversità (oggi un Istituto religioso internazionale è “sano” non se sa creare uniformità, ma se persegue una opportuna pluriformità).
L’uomo vecchio da abbandonare in questo caso è quello che impedisce di scorgere nelle sorelle delle persone “adulte”, usando magari quell’autoritarismo con aggiunta di ammorbidente che è il maternalismo. È l’inconfessato, o addirittura inavvertito, considerarsi come unica persona “di misure normali” in un paese di lillipuziani (usando l’immagine del fantastico paese descritto nei Viaggi di Gulliver), cioè unica adulta in mezzo a bambine.
La prima esigenza che scaturisce da un esercizio veramente fraterno dell’autorità è che l’altra sia percepita, riconosciuta, trattata come persona dotata di capacità – uso l’espressione nel suo significato più alto – di intendere e di volere, con una sua capacità di giudizio, di responsabilità, di relazione, con una sua sensibilità, con una sua vita interiore, con una sua ricerca del bene. Il che, sia chiaro, non preserva dall’errore. Ma forse l’essere in autorità preserva dall’errore? Non si perda di vista poi la ricaduta assai negativa che può avere sull’animazione vocazionale tale concezione “lillipuziana”, ovvero infantile, delle sorelle.
Certo, l’altro/a come stimabile («Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda», Rm 12,10) rappresenta uno degli impegni ascetici più ardui della fraternità, e in particolare dell’autorità. L’altro va percepito con l’occhio di Dio e non con il nostro, ricordando che tutti, ma proprio tutti, sono oggetto di quella “conoscenza, predestinazione, conformità all’immagine del Figlio, chiamata, giustificazione, glorificazione da parte di Dio”, di cui parla Paolo in Rm 8,29-30.
La presunzione di sapere già tutto
Ovvio che la superiora, generale o provinciale, debba parlare e vada ascoltata. Il parlare, alle comunità e alle singole sorelle, fa parte del suo ministero. Ma è almeno altrettanto importante che la superiora sappia ascoltare.
E il primo ascolto dovuto è quello verso il proprio consiglio, richiesto anche istituzionalmente. Si danno inadempienze di vario tipo nella relazione tra superiora e consiglio: dal consiglio che “si mangia” la superiora facendone una pura esecutrice della sua volontà alla superiora che decide eludendo, più o meno apertamente o surrettiziamente, il consenso o il parere del proprio consiglio.4 Il tipo di relazioni che si vivono al vertice, cioè tra superiora e consiglio, a volte è lo specchio dell’istituto stesso. La “politica” (nel senso del crearsi di “partiti” che si contrappongono, o della ricerca di maggioranze che schiaccino le minoranze, per esempio nei capitoli,) può sostituirsi alla fraternità (in cui si persegue non la creazione di maggioranze, ma la ricerca del consenso attorno a scelte che esigono il comune discernimento).
La tentazione, in questo caso, può essere la presunzione di sapere già tutto, senza bisogno di ascoltare, o il considerare sempre inattendibile la lettura della realtà fatta da alcune sorelle. In realtà ogni sorella, anche colei che nel parlare risultasse chiaramente mossa da rancori o da malanimo, può comunque far conoscere almeno una parte della verità. Oltre tutto è solo l’ascolto attento di tutte le sorelle – non solo delle più intraprendenti, o delle più brillanti, o delle più loquaci, o di quelle con cui è più facile “sintonizzarsi” – che consente una conoscenza, per quanto possibile, completa dell’istituto o di talune situazioni, evitando giudizi frettolosi e parziali.
Altre tentazioni possono essere quelle di sottrarsi alla fatica di ascoltare, per esempio tagliando corto con un “ho già capito dove vuoi arrivare!”, “so già quello che pensi!”, o minimizzando superficialmente dei problemi che possono comunque avere risonanze emotive forti nella persona. Senza parlare di quei superiori che, richiesti di un “colloquio”, altro non sanno offrire che un loro lungo monologo.
Se l’ascolto è la prima esigenza della vita spirituale o della vita di fede (fides ex auditu, Rm 10,17), esso è anche la prima esigenza della fraternità (VF 29: «Per diventare fratelli e sorelle è necessario conoscersi. Per conoscersi appare assai importante comunicare in forma più ampia e profonda»: ma si dà una comunicazione senza ascolto?). Vi è una sorta di connessione tra ascolto della Parola e ascolto del fratello/della sorella. E l’ascolto è anche esigenza fondamentale di un esercizio fraterno dell’autorità. Soprattutto quando l’ascolto non si riduce a “conoscere dei problemi” o a “raccogliere informazioni”, ma consente di “entrare in relazione profonda” con le sorelle.
L’impegno ascetico dell’ascolto, il far morire quell’uomo vecchio che tende a parlare molto e ascoltare poco, o a non voler ascoltare per non dover cambiare le proprie idee, per non dover assumere un “sapere alternativo”, è parte integrante di una vita spirituale di chi vuole amare e servire le sorelle.
«Adesso ti dico che cosa vuole il Signore da te»
E quando chi è posto in autorità parla, che cosa dirà? La sua parola più problematica e delicata è, molto spesso, quella che entra nella vita delle persone, che chiama in causa l’obbedienza, che chiede per esempio – è il caso classico – un cambio di sede, o la chiusura di una casa. Sovente questa richiesta è come il Vàttene detto ad Abramo (Gen 12,1: «Vàttene dal tuo paese…verso il paese che io ti indicherò»). E una lunga tradizione – chiamiamola così – presente nella vita religiosa sostiene che questa richiesta formulata dall’autorità esprime nientemeno che la volontà di Dio.
Credo che qui possa farsi strada un’altra tentazione, che sollecita altri impegni ascetici.
Proviamo a chiederci: che cosa è “volontà di Dio”? E come si perviene alla sua conoscenza? Il tema è assai arduo. E mi guardo bene dal liquidarlo in poche battute. Dico solo che esige una grande attenzione a non “banalizzare” quel Dio i cui giudizi – come afferma Paolo in Rm 11,33 – sono imperscrutabili e le cui vie sono inaccessibili.
Senza dubbio la voce dell’autorità ha a che fare con l’individuazione della volontà di Dio. Ma diverso è dire che la volontà del superiore semplicemente è la volontà di Dio. Così come è piuttosto azzardato identificare assolutamente con “volontà di Dio” i puri accadimenti o il determinarsi di avvenimenti (un terremoto, una morte inattesa, ma anche una guarigione insperata…), altrettanto appare pericolosa l’affermazione della perfetta coincidenza tra volere del superiore e volere di Dio: potrebbe trattarsi solo del capriccio di un superiore immaturo, o della ripicca di in superiore irritato.
Se c’è una fonte di conoscenza della volontà di Dio questa è la sua Parola: essa ci orienta su come reagire evangelicamente agli accadimenti o avvenimenti della vita. Il Vangelo ispira la nostra ricerca circa ciò che dobbiamo fare nelle diverse circostanze.
È questo il grande impegno del discernimento, nel quale la voce dell’autorità ha certo parte. Un discernimento, tuttavia, che deve coinvolgere anche la religiosa a cui si rivolge la decisione. La richiesta di un cambiamento di sede o di attività – per rimanere all’esempio classico – va vista dalla persona interessata all’interno di quella disponibilità a mettere concretamente la propria vita al servizio del Regno che segna la sua opzione di vita consacrata. E tuttavia non è opportuno che la superiora affermi con certezza: il tuo sì alla mia richiesta è disponibilità a servire il Regno, il tuo no è rifiuto di servire il Regno. Ancora una volta la comprensione di come ognuno deve servire il Regno passa per un discernimento che non è esclusiva di chi ha autorità. A meno di considerare le sorelle – come si diceva – lillipuziani della vita spirituale
Autorità e obbedienza sono ambedue, per così dire, “ingredienti” della comune obbedienza alla volontà di Dio (o alla pratica della vita evangelica). Scrive J. Rovira: «Sia l’autorità sia l’obbedienza sono servizi in favore della fraternità: gli uni servono comandando e obbedendo; altri obbedendo e partecipando nel discernimento della volontà di Dio. Ognuno è per l’altro presenza di Dio: il superiore per gli altri confratelli, i confratelli per colui/colei che svolge il servizio di presiedere la fraternità; e, infine, tra i confratelli/consorelle, gli uni per gli altri».5
Il tema è comunque delicato, e ho espresso troppo sinteticamente considerazioni che esigerebbero ben altro spazio. Ma tutto questo deve suggerire un’ascesi del discernimento. Un’ascesi cioè che assuma la fatica di conoscere, di capire, di valutare le situazioni con criteri evangelici e non di pura efficienza.
Quando l’istituto oscura il Regno
Si deve riconoscere che, soprattutto in questi tempi di calo numerico e di invecchiamento, le religiose attive sono spesso, per usare ancora metafore belliche, “al fronte” o “in trincea”, ovvero oberate di lavoro. E il loro sacrificio rischia di avere, non raramente, un’unica motivazione: l’istituto. Cioè l’istituto con le sue opere, le sue attività, le sue presenze da salvare, sulle quali non sempre viene esercitato un serio discernimento a partire dal carisma.
Una maggiore conoscenza del proprio carisma, richiesta dal Vaticano II, ha suscitato in molte persone consacrate un più accentuato amore all’istituto generato da quel carisma; amore che cresce ulteriormente quando il futuro lascia intravedere addirittura il rischio di una sua estinzione. Ma questo amore non deve far perdere il senso delle proporzioni e la gerarchia dei valori.
L’istituto non si sovrappone alla realtà ben più ampia e duratura della vita consacrata, né questa esaurisce la vita della Chiesa, né questa coincide con il Regno. La Chiesa ha visto sorgere e morire tante comunità. Chi visita la Turchia si chiede che fine abbia fatto la comunità di Efeso per cui Paolo ha speso tre anni del suo appassionato ministero (basta leggere il commovente discorso agli anziani di quella comunità in Atti 20, 17-38). E quando leggiamo le omelie di sant’Agostino nella Liturgia delle ore ci domandiamo che fine abbia fatto la chiesa di Ippona a cui egli sapeva parlare con tanta sapienza. Si dirà: sono semi gettati che hanno fruttificato altrove e successivamente. E perché non pensare questo anche dei nostri Istituti quando si avvertono segni di morte? Alcuni del resto già fanno in qualche modo questa esperienza, vedendo sorgere vocazioni in terre lontane dal paese in cui il carisma è sorto e dove sembra ormai destinato a scomparire.
Ma se le sorelle devono proprio morire al fronte, la ragione per cui vale la pena di donarsi, non vada all’istituto, ma al Signore: la patria per cui sacrificarsi è il Regno, non l’istituto, per quanto amabile.
Uno dei testi più felici di Vita consecrata è la dove si indica come reagire al calo numerico: «Le nuove situazioni di scarsità vanno perciò affrontate con la serenità di chi sa che a ciascuno è richiesto non tanto il successo, quanto l’impegno della fedeltà. Ciò che si deve assolutamente evitare è la vera sconfitta della vita consacrata, che non sta nel declino numerico, ma nel venir meno dell’adesione spirituale al Signore e alla propria vocazione e missione. Perseverando fedelmente in essa, si confessa invece, con grande efficacia anche di fronte al mondo, la propria ferma fiducia nel Signore della storia…».
È evidente che questo sguardo sereno sul declino numerico domanda, ancora una volta, un esercizio ascetico che metta a tacere l’uomo vecchio: quello trionfalista, quello che si compiace del risultato dei censimenti (cf. 2Sam 24,16), quello che di fatto confida più nell’uomo che in Dio (cf. Ger 17,5-8), quello che dimentica l’esperienza di declino numerico fatta da Gesù stesso («Molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui»: Gv 6, 66-67; senza parlare della fuga dei discepoli al momento della passione).
La paura di progettare con realismo
Le situazioni istituzionali difficili, oltre ai molti cambiamenti sociali ed ecclesiali in cui la vita di un istituto vive e si esprime, domandano all’autorità la capacità di affrontare i problemi con realismo e con la necessaria determinazione, senza affidarsi a intuizioni passeggere, a improvvisazioni, a considerazioni superficiali, che inducono a cambiare troppo facilmente linee di governo incerte e confuse.
Si suggerisce oggi di adottare uno strumento che, seriamente assunto, può offrire un aiuto prezioso: è il progetto, che si può elaborare a vari livelli: di istituto, di provincia, di comunità. Si tratta di un tema che compare sempre più in pubblicazioni sulla vita consacrata, e che non è il caso qui di dilucidare.
Solo voglio ricordare che la capacità di progettare con una qualche efficacia domanda non solo l’assunzione di buone metodologie (per quelle ci sono gli esperti), ma anche la disponibilità interiore ad accettare le conclusioni di una attenta analisi e valutazione della situazione. Non serve elaborare con rigore – per rifarmi al metodo classico che tutti conoscono – il vedere e il giudicare, se poi si è presi dalla paura di mettere in atto l’agire conseguente.
Qui riemerge, a mio giudizio, le necessità di un’ascetica del servizio.
Certo, l’elaborazione del progetto dovrebbe attuarsi nel modo più partecipato possibile, non solo nella stanza dei bottoni; ma, una volta pervenuti alla scelta di determinate linee operative, queste vanno portate avanti con la dovuta coerenza, accettando le fatiche che questo comporta: il peso di qualche opposizione, il clima piuttosto greve creato dagli immancabili apatici o disfattisti, un lavoro di convincimento paziente. Si sa bene che le decisioni richieste dal servizio di animazione non incontrano sempre adesione e coinvolgimento; meno ancora gratitudine. E l’uomo vecchio, da far morire, tenderebbe a reagire con l’impazienza, magari sentendo salire alle labbra un irritato: “e allora fatela voi la superiora!”. Salvo a rinunciare alla coerenza o alla tessitura paziente di quanto deciso, per timore…di non essere rieletta al prossimo capitolo… Ma allora va ricollocata con tenacia davanti agli occhi l’icona della lavanda dei piedi…
L’anima monastica della vita religiosa
Non suoni strano questo titolo. La varietà di forme di vita religiosa sorte lungo la storia rappresenta una grande ricchezza, «una testimonianza splendida» afferma VC 9. Tuttavia è mia convinzione, e non mi soffermo a darne ragione, che qualunque forma di vita religiosa debba avere un’anima monastica. Lo so che qualcuno reagisce con un certo fastidio a questa affermazione; so anche che non sempre il monachesimo attuale è in grado di offrire questo richiamo salutare (è stato triste constatare la quasi totale assenza del monachesimo al recente congresso mondiale sulla vita consacrata). Al fenomeno della nascita di nuove comunità monastiche, non tutte dall’impostazione convincente, ha dedicato un ampio servizio il numero di gennaio 2005 della rivista Jesus.
Che cosa intendo dire affermando l’anima monastica della vita religiosa? Lo esprimo con le parole con cui Enzo Bianchi risponde, nella citata rivista, alla domanda: Qual è lo “specifico” del monaco? La risposta: «Non avere nessuno scopo se non quello di condurre una vita cristiana molto semplice, fatta di preghiera, lavoro e vita comune, una vita da laici, in cui non si diventa presbiteri. Non si persegue nessun obiettivo pastorale, né si assumono compiti diaconali, di servizio. Questo è davvero il monachesimo».
Suppongo che questa risposta ci faccia concludere che… effettivamente noi non siamo monaci/monache, né probabilmente vogliamo esserlo. Tuttavia ho l’impressione che questa presentazione di ciò che noi non siamo, ci interpella su qualcosa che tutti i religiosi/e in qualche misura dovrebbero essere. Spiego questa frase contorta.
Non c’è forse il rischio che, dedicandoci abbondantemente ad attività pastorali o diaconali, togliamo troppo spazio a quella vita cristiana, cioè a quello sforzo di essere semplicemente veri cristiani, senza il quale non esiste nessuna autentica vita religiosa? Quello sforzo, detto in altro modo, mediante il quale tentiamo e ritentiamo continuamente di convertirci per davvero al primato di Dio? Senza questa dimensione non rischia forse tutto il nostro lavoro di perdere la sua ragione di fondo? E, per usare il tema del recente congresso sulla vita consacrata, non può succedere di conseguenza che la passione per l’umanità non trovi più la sua radice nella fontale passione per Cristo?
Non dimentichiamo che la vita religiosa è nata semplicemente come tentativo di essere una vita cristiana autentica; poi si sono sovrapposte, felicemente, molte altre passioni: apostoliche, caritative, educative, ecc. Forse però oggi la vita religiosa ha bisogno di riscoprire la sua origine, questa specie di zoccolo duro del primato di Dio, della radicalità evangelica. Il rischio è che tante religiosi e religiose muoiano di troppe opere, non di troppo Vangelo.
Qui si comprende allora l’affermazione importante di VF 50 sul ruolo primario dell’autorità: «L’autorità ha il compito primario di costruire assieme ai fratelli e sorelle delle “comunità fraterne nelle quali si cerchi Dio e lo si ami sopra ogni cosa”(can. 619). È necessario quindi che sia prima di tutto persona spirituale, convinta del primato dello spirituale sia per quanto attiene alla vita personale che per la costruzione della vita fraterna, conscia cioè che quanto più l’amore di Dio cresce nei cuori, tanto più i cuori si uniscono tra di loro. Suo compito prioritario sarà dunque l’animazione spirituale, comunitaria e apostolica della sua comunità».
Che cosa richieda, questo compito primario dell’autorità dal punto di vista ascetico, non è difficile capire. Potrei sintetizzare dicendo: le cose importanti che la Chiesa ci fa riconoscere come necessarie per divenire persone spirituali, vanno assunte seriamente e praticate con quella fedeltà, senza la quale rischiamo sempre di declamare lo spirituale senza immetterlo nel vissuto.
Ritorno a quanto detto circa l’ascesi: non c’è vita spirituale senza intraprendere cammini di fede, di adesione al Signore, di esperienza vera di Dio, cammini fatti anche di lotte, di rinunce, di passaggi laboriosi a fasi successive. Forse se l’ autorità è persona seriamente impegnata in un cammino spirituale, già per questo rende un buon servizio fraterno al proprio istituto o alla propria provincia.
fra Agostino Gardin ofm–conv
1 Relazione tenuta al convegno organizzato dal centro Comunità di Preghiera “Mater Ecclesiae”, Suore Dorotee di Cemmo, dal 7 al 12 febbraio 2005, sul tema “Quale spiritualità per i nostri istituti?”.
2 Esperienza cristiana, in Nuovo Dizionario di Spiritualità (a cura di S. De Fiores e T. Goffi), Paoline, Roma 19895, 538.
3 Rivolgendomi a religiose, parlo quasi sempre in queste pagine di superiore, sorelle, ecc., per evitare di usare ogni volta il genere maschile e quello femminile. Ma è ovvio che molte delle considerazioni di queste pagine si possono applicare anche ai religiosi.
4 Ne ho trattato ampiamente – e mi scuso dell’autocitazione – nell’articolo Il rapporto tra Superiore generale e il suo Consiglio. Considerazioni su lacune possibili “disfunzioni”, in Informationes SCRIS [rivista della CIVCSVA] 20 (2003) 1, pp.53-70.
5 In S. González Silva (ed.) Guidare la comunità religiosa. L’autorità in tempo di rifondazione, Ancora, Milano 2001, 92.