TEMPO DI CRISI DELLA VITA CONSACRATA IN EUROPA
E SE FOSSE UN TEMPO DI GRAZIA?
Siamo al
“collasso” della vita consacrata in Europa? Sì, se ci si accontenta solo di
sopravvivere; no, se si saprà cogliere il momento favorevole, il “kairòs”,
grazie al quale è possibile passare dalla morte alla vita. Ma senza «una decisa
rottura profetica», oggi è impensabile la costruzione di un edificio
radicalmente nuovo.
Nel recente congresso internazionale sulla vita consacrata, il gesuita brasiliano G.B. Libanio, ha iniziato la sua ampia relazione sull’impatto della realtà socio-culturale e religiosa sulla vita consacrata in America latina con una affermazione quanto meno discutibile. L’America latina, ha detto, è in qualche modo lo specchio della «totalità della vita consacrata». Partendo da una concreta situazione “particolare” è possibile trarre delle conseguenze e fare delle riflessioni sulla vita consacrata nella sua “totalità”, dal momento che dalla periferia del mondo «si rendono più visibili le strutture di potere e di sapere amministrate dal nord» anche in tutto ciò che ha a che fare con la vita consacrata.
Mi è immediatamente venuto in mente questo “incipit” di Libanio leggendo un’altra inusuale e per certi versi anche provocatoria riflessione sulla situazione della vita consacrata in America latina di José Maria Vigil, ripresa recentemente anche dalla rivista francese di teologia e di scienze umane Christus (gennaio-febbraio 2005). Vigil apre il discorso sulla vita consacrata in America latina solo dopo aver sviluppato un’ampia riflessione sulla crisi della vita consacrata in Europa nel XXI secolo. E in questo caso è sorprendente la conclusione alla quale giunge l’autore, una conclusione insolita, mai emersa esplicitamente, ad esempio, in tutti i lavori del congresso internazionale romano, anzi in qualche modo contrastante con quanto affermato da quanti partendo dalla “particolarità” della vita consacrata latinoamericana intendono però parlare della “totalità” della vita consacrata nel mondo.
Se è vero che in questi ultimi decenni il cristianesimo mondiale ha spesso guardato con speranza all’America latina, «è giunto il momento di dire che anche quello che sta accadendo in Europa ha acquistato una rilevanza teologica e un significato religioso da meritare che il cristianesimo mondiale guardi a questo continente e veda in questo specchio l’approssimarsi di quello che potrà essere anche il suo futuro».
Vigil è fermamente convinto che quello che vive oggi l’Europa, lo vivranno gli altri continenti, comprese le altre religioni e le altre e diverse espressioni continentali di vita consacrata nel futuro. Anzi, nel terzo mondo la stessa crisi potrebbe assumere connotazioni più complesse, addirittura schizofreniche, dal momento che lì, nella gran parte dei casi, si è ancora fermi a infrastrutture agrarie o semplicemente industriali, e non sono ancora apparsi i bagliori delle società postindustriali e postmoderne, con tutte le conseguenze che un tale stato di sviluppo ha già avuto in Europa.
UN PUNTO
DI NON RITORNO?
Ma da dove nasce concretamente, si chiede Vigil, la crisi della vita consacrata in Europa? «Statisticamente parlando, risponde, possiamo dire che la vita consacrata in Europa è giunta al “collasso”». Una valutazione eccessiva? No, è semplicemente la realtà. «Da varie decine di anni le vocazioni stanno diminuendo. Ora, semplicemente non ce ne sono più. Le pochissime che è dato di vedere qua e là, non sono altro che la classica eccezione che conferma la regola». Con altri autori, è convinto che la vita consacrata è incamminata verso «un punto di non ritorno». Tutto, infatti, «porta a credere che in Europa occidentale siamo ormai prossimi a una dissoluzione virtuale della vita consacrata conosciuta e vissuta in maniera molto significativa sia sul piano ecclesiale che sociale fino ad oggi».
Più che il numero conta l’età. La Spagna, un tempo fiorente, non è, ad esempio, l’unica nazione in cui i religiosi hanno ormai raggiunto ampiamente l’età del pensionamento (65 anni), un’età in cui vengono meno «la flessibilità al cambiamento, la capacità di rinnovarsi, la disposizione ad adattarsi a nuove circostanze, la possibilità di percorrere cammini nuovi e, men che meno, riforme radicali». Il problema dell’età e della corrispondente scarsa vitalità è grave quanto quello della mancanza di vocazioni. Non per nulla si sta faticosamente cercando di unificare o di ridurre il numero delle comunità. Preoccupa il fatto che i giovani optino sempre di meno per la vita consacrata. «Se non sopravviene un cambiamento profondo, entro una o due decine d’anni, c’è il rischio di una estinzione vera e propria dei religiosi nati in Europa».
Altrove la situazione, come si sa, è molto diversa. In vari paesi asiatici (India) e africani (Nigeria), ad esempio, le vocazioni abbondano. Lì, anzi, si impone l’esigenza di un attento e doveroso discernimento. Tanto per fare una comparazione, nel continente latinoamericano, fino a pochi anni, si pensava che la vita consacrata non sarebbe sopravvissuta al fenomeno della secolarizzazione. Invece ha continuato a crescere con un ritmo costante. Ma, a partire dal 2000 anche in America latina è iniziata una tendenza decisamente al ribasso. Se per ora sembra che si mantengano le posizioni acquisite, né si cresce né si cala, tuttavia «le previsioni sono quelle dell’inizio di una “nuova epoca” che alla lunga sarà né più né meno quella già percorsa dall’Europa».
Cercando di andare a fondo nelle ragioni della crisi della vita consacrata in Europa, Vigil osserva che la vita consacrata è per sua natura carismatica e profetica. Lo sforzo di irrigidirla in rigorosi schemi giuridici l’ha trasformata in una specie di “funzionariato istituzionale”. In tempi di “inverno ecclesiale”, anche la vita consacrata «sta attraversando un suo inverno», causato soprattutto da un eccessivo controllo esterno sui testi ispiranti, sulle opere e sulle pubblicazioni, sulle persone non solo di piccole ma anche di grandi congregazioni religiose maschili e femminili. Da una trentina d’anni «le persone più audaci e creative sono state messe da parte». E questo naturalmente ha avuto pesanti conseguenze anche nella scelta e nella impostazione, sempre meno profetica e più istituzionalizzata, della leadership nelle diverse congregazioni.
NON BASTA
“IMPORTARE”
Preoccupa il deserto intellettuale, compreso quello in campo teologico, in cui la vita consacrata è andata sempre più arenandosi. «Nessuno manifesta le proprie opinioni, nessuno dibatte i problemi, nessuno arrischia, nessuno intravede un’uscita o tenta almeno una nuova interpretazione. Non si spera e neanche si desidera che qualcuno lo faccia». Non c’è più dialogo. Si è abbandonato ogni atteggiamento critico con la società e anche all’interno della Chiesa. Ciò che regna è «un gigantesco atteggiamento di indifferenza e di apatia». Ci si accontenta di “prendere tempo”, di “aspettare Godot” «senza interrogarsi sulle ragioni di quello che si spera e che nello stesso tempo si teme».
A prima vista, osserva Vigil, potrebbe sembrare una descrizione molto negativa. Ma, aggiunge subito, «mi permetto invece di insistere sul fatto che si tratta della realtà e che effettivamente la vita consacrata in Europa sta non solo attraversando un periodo di crisi, ma anche di una crisi molto grave, forse addirittura terminale per tutto ciò che concerne la vita consacrata realmente europea e non tanto la vita consacrata in Europa», una crisi, però, che potrebbe anche preludere ad un vero e proprio kairòs per il futuro della vita consacrata stessa. Le “catene del passato” condizionano pesantemente la vita odierna dei consacrati. Senza «una decisa rottura profetica», oggi come oggi è impensabile la costruzione di un edificio radicalmente nuovo. «È quanto mai probabile che, come diceva Tillard, se non siamo gli ultimi religiosi, siamo di sicuro almeno gli ultimi rappresentanti di una forma storica di essere religiosi che si sta esaurendo».
In altre parole, è tutto un sistema di forme di vita, un mondo socioculturale fatto di valori e di tradizioni che sta affondando. È un sistema che chiama in causa contemporaneamente il cristianesimo, la Chiesa, la vita consacrata. E ciò di cui forse si fa fatica a prendere atto è il fatto che quanto sta avvenendo in Europa «si sta già autonomamente verificando anche in tutte le parti del pianeta, nella misura in cui si entra in quella stessa fase di società avanzata, priva di ogni sopravvivenza agraria» tipica dei paesi postindustrializzati europei.
Più nessuna speranza per il futuro della vita consacrata europea? Certamente la crisi non si risolverà “importando” religiosi e religiose giovani del terzo mondo o di qualsiasi altro posto, così come la chiesa europea non potrà risolvere il suo futuro “importando” seminaristi latinoamericani o africani. A parte il fatto che i problemi della vita consacrata saranno sempre più complessi anche negli altri continenti, l’Europa ha bisogno di comunità religiose che siano realmente presenti e incarnate, non solo fisicamente ma anche mentalmente e spiritualmente, nel suo nuovo modello di società avanzata postindustriale. «Questa è l’unica “rifondazione” che può avere futuro». Vigil non lo dice espressamente, però il problema di una reale inculturazione, che tenga conto della complessità del presente, non rimuova la ricchezza carismatica del passato e sia aperta a tutte le necessità e le potenzialità del futuro, prima o poi, si imporrà anche e soprattutto nei paesi di vecchia evangelizzazione come quelli europei.
NON RIFONDAZIONE
MA “RIFUSIONE”
Una risposta positiva alla domanda sul futuro della vita consacrata in Europa si potrà avere, allora, a due condizioni: anzitutto che venga questa da parte di «coloro che hanno vissuto e compresa la crisi dall’interno in tutta la sua profondità» e poi che si sappia elaborare un nuovo linguaggio, un nuovo sistema di valori, una nuova ragion d’essere assolutamente necessaria in una società avanzata. Oltretutto, questa è una realtà «che sta già germogliando come il frutto maturo della crisi stessa della religiosità classica vissuta in tutta la sua intensità».
Se la vita consacrata fosse un’impresa multinazionale sommersa dalla crisi, si chiede giustamente Vigil, cosa farebbe? «Si giocherebbe la principale partita del suo futuro nell’investigazione e nella creatività, per riuscire a sopravvivere in un mercato che si trasforma rapidamente». Ora, se la vita consacrata avesse realmente “visione di futuro” «investirebbe le sue principali energie e le sue migliori risorse umane nel pensare il futuro, nell’investigare la vera natura della crisi attuale e nell’affrontare qualunque rischio che fosse necessario, scommettendo con passione sul futuro».
I religiosi dovrebbero diventare degli esperti specializzati in temi come «la crisi religiosa attuale, il cambiamento culturale che si sta verificando nelle società avanzate, la critica seria alla religiosità classica tradizionale, la critica aperta a tutto quello che dev’essere abbandonato prima dell’affondamento della religione classica, la ricomprensione profonda di che cosa sia realmente la religione». Non basterebbero neanche degli esperti puramente “teorici”. Servono invece soprattutto specialisti “pratici”, direttamente compromessi nella loro sperimentazione. «Purtroppo, niente di tutto questo mi pare che stia avvenendo».
Non si può certo ignorare il fatto che esistono persone, generazioni e istituzioni che hanno compiuto già la loro missione. Soprattutto nel campo della vita consacrata «i nostri tempi non sono più sincronizzati su quelli della storia». Se questo e nella misura in cui questo è vero, «bisogna saper accettare l’ora della morte, bisogna imparare l’arte di morire, la ben nota ars moriendi, senza amarezza, con speranza, facendo tutto il possibile affinché dalla propria morte possa germogliare la vita per quanti verranno dopo di noi, cercando di trasmettere il testimone ad altre mani, con fiducia». Certo, «bisogna sapersi staccare dal passato ed emigrare nel futuro. Bisogna smetterla di ricomporre a tutti i costi quello che non può più essere ricomposto e tentare di nascere alla vita nuova».
In questi ultimi tempi, si è parlato molto di “rifondazione” della vita consacrata. Per Vigil, una simile prospettiva «non ha più ormai nessuna ragion d’essere, dal momento che la storia degli ultimi quindici anni è lì a dimostrarci la scarsità di risultati della rifondazione da parte di coloro che vi hanno creduto fino in fondo».
E allora?
Invece che continuare a parlare inutilmente di “rifondazione”, converrebbe incominciare a pensare a una “rifusione” vera e propria, sull’esempio di quanto avviene nelle fonderie, dove solo dopo la sua fusione la vecchia zavorra di ferro è pronta per qualcosa di radicalmente nuovo. Solo “fondendo” la vecchia vita consacrata «in stampi nuovi, al di fuori del sistema che sta affondando, essa potrà avere futuro». È forse giunto il momento di convincersi che i semplici tentativi di “ri-fondare” o di “ripetere” comunque il passato, non bastano più. Se si vuole garantire un futuro alla vita consacrata, non ci sono altre strade. Si impongono urgentemente «mutazioni e cambiamenti sostanziali».
Angelo Arrighini