I MARTIRI DI TIBHIRINE

 

In due millenni sono stati calcolati circa 70 milioni di cristiani uccisi per la loro fede. Ben 45 milioni (il 65% del totale) sono martiri del XX secolo. Oggi, in particolare, «le comunità cristiane minoritarie sono diventate il bersaglio prediletto del radicalismo islamico e dei rimanenti regimi comunisti, dove i cristiani vengono demonizzati e caricaturizzati attraverso campagne populiste di odio e di terrore» (M. Horowitz). Proprio nella terra che ha dato i natali a sant’Agostino, l’Algeria, si assiste al terrore seminato dai radicali islamici verso quei cristiani che, per il solo fatto di vivere in mezzo alla gente, si rendono colpevoli di «allontanamento dal cammino divino incitandola a evangelizzarsi» (comunicato del 18-4-1996 con cui il Gruppo islamico armato, GIA, fornisce la motivazione “teologica” del rapimento di sette monaci trappisti presso il monastero di Notre-Dame-de l’Atlas presso Tibhirine, a nord del paese).

 

CONTEMPLATIVI

E INCULTURATI

 

Le radici dunque della tragedia dei monaci trappisti, trovati sgozzati e decapitati il 30 maggio del 1996 (due mesi dopo sarà assassinato il vescovo di Orano, Pierre Claverie), non stanno tanto nel convinto e coraggioso rifiuto di collaborare col GIA durante il blitz nella notte di Natale del 1993 (chiedevano aiuto medico fuori del monastero e sostegno economico), quanto nella decisione di dar vita (nel 1979) al gruppo di dialogo e di preghiera islamico-cristiana chiamato “Vincolo di pace” (Ribât es-Salâm). Uno spazio di ascolto reciproco per comprendere quello che Dio vuole nelle relazioni tra Chiesa e islam: «Cesseremmo di essere cristiani – e anche semplicemente uomini – se dovessimo mutilare l’altro della sua dimensione nascosta per incontrarlo solamente “da uomo a uomo”, cioè in una umanità purgata da qualsiasi riferimento a Dio… Così concepita, la vita professionale del monaco fa parte in modo indubbiamente più diretto della funzione profetica della chiesa, una funzione assunta qui, ma “destinata a gettare ponti altrove”, come sottolineava Giovanni Paolo II rivolgendosi ai cristiani del Marocco. Assieme a molti altri cristiani, immersi anch’essi nella “casa dell’islam”, vorrei testimoniare che nell’islam come nel cristianesimo il profetismo non è chiuso» (fr. Christian de Chergé, priore).

Questo dialogo esistenziale, fatto di gratuità e umiltà, presuppone il lasciarsi destabilizzare dall’altro per accorciare la distanza tra i due “credo” e porta il movimento di spoliazione dei consacrati sul terreno della solidarietà piuttosto che su quello del confronto teologico. Oranti in mezzo ad altri oranti, i monaci di Tibhirine comprendono che «non è più possibile installare in qualsiasi posto un monastero “prefabbricato” perché, più di ogni altra, la vita contemplativa scopre di essere dipendente dalle condizioni “umane” di vita di un paese, dalla sua cultura, dalla sua storia, dai suoi costumi, dalla sua tradizione religiosa».

 

DONO

CHE PRENDE IL CORPO

 

I monaci dell’Atlas sono innanzitutto chiamati a dare corpo a quel luogo deserto dove Gesù si ritira in preghiera, facendo proprio l’abbassamento del Verbo divino (cf. la kenosi di Gesù in Filippesi 2,6-8 intrecciata con quella del Servo di Isaia 53,2-5) : «Le modalità della nostra presenza in Algeria trova la sua ispirazione kenotica: la mia vita nessuno la prende, io me ne privo: questo – noi qui – è il mio corpo dove l’odio trova qualcuno più forte di sé: e l’odio viene ucciso» (fr. Christophe Lebreton). Troviamo qui la logica di una comunità “marcata dal sangue dell’Agnello”, comunità che sente come soggetto dell’annuncio lo Spirito santo: «Ciò ci dispensa da qualsiasi eroismo, se non addirittura da ogni aspirazione al martirologio. Comunità combattente, sì: disarmata e affermante uno spazio vero, vissuto, di pace fraterna, dove la preghiera di Gesù risorto ha luogo: far posto alla pace».

Perciò il loro martirio ha assunto i connotati di una offerta di sé per amore, come peccatori che pregano anche per gli ingiusti: «Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito» (dal testamento di fr. De Chergè). La causa che ha condotto ad attraversare la paura della morte è stata dunque l’urgenza più grande di una disponibilità all’altro. Il martirio dei monaci avviene per la fede, nasce dalla carità e si nutre di speranza: essi «… non hanno atteso i persecutori per impegnarsi nel martirio, reinventando così, nel cuore delle masse, quello che i monaci andavano a cercare nel deserto dopo l’epoca delle persecuzioni: “il martirio della speranza”. Questo è il “rischio” che “viviamo quotidianamente” da queste parti; da tempo ci è imposto. È una scelta che deve poter resistere, anche oggi».

P. Bruno Chenu, redattore capo de La Croix, recentemente scomparso, così riassume i motivi che hanno spinto i monaci a rimanere: a) la coscienza di una chiamata interiore («Dio ha tanto amato gli algerini che ha donato loro il suo Figlio, la sua chiesa, ciascuno di noi»; b) la solidarietà con un popolo preso tra l’incudine e il martello di due violenze; c) la comunione con la chiesa algerina (e non francese) che deve continuare la sua incarnazione.

Dalla notte di Natale del 1993 è iniziato il cammino del diventare un “corpo” donato. Alla luce di questa lettura, quasi stordisce la frase di fr. Christophe: «Il dono che prende il corpo – altrimenti è un’idea di dono. Perdere la vita è il dono: prendere o lasciare». Non c’è scritto che il dono (la chiamata al martirio) “prende corpo” (cioè si fa sempre più evidente), ma che “prende il corpo”, cioè si impossessa di tutta la persona del discepolo, richiedendo anche il dono del corpo!

Fr. Philippe Hémon, trappista dell’abbazia di Tamié, descrive i sette confratelli come «uomini d’onore in mezzo a un naufragio»: hanno pensato di dare la precedenza a donne e bambini prigionieri della violenza e senza possibilità di scelta. Sono restati anche loro per accelerare la venuta del regno. Mistici e profeti, consacrati capaci di fissare lo sguardo nell’oscurità fino a contemplare il volto di Qualcuno, i sette religiosi dell’Atlas hanno saputo esprimere il martirio come desiderio di spezzare alla radice l’inimicizia e l’odio che separa.

Ancora p. Chenu conferma: «hanno sempre detto: “Testimoni sì, martiri no”. Non volevano che la loro testimonianza diventasse una testimonianza a carico dell’islam, «Saremo martiri perché altri credenti si sono comportati male, facendo violenza e uccidendo… proprio questo è il senso del testamento di Christian. Non voleva che qualcuno si servisse della sua morte per dire: “Guardate, i musulmani sono sempre quelli”; al contrario, loro volevano testimoniare che l’islam non era quello, che l’islamismo non è l’islam».

I corpi dei monaci non sono mai stati ritrovati e nel cimitero del monastero sono state sepolte solo le teste: questo non è stato detto, ma tutti lo sanno. I monaci hanno lasciato una testimonianza incredibile, quella del vangelo delle beatitudini: questo è stato detto, non sappiamo se tutti lo sanno.

 

M. C.

 

1 Cf. p. 35 del volume di Mirella Susini, I martiri di Tibhirine. «Il dono che prende il corpo», EDB, Bologna 2005, € 15,50.

Le fonti di questo studio sono: a) il diario di fr. Christophe Lebreton (Il soffio del dono), il poeta musicista e il più giovane del gruppo dei martiri; b) il libro curato dall’abate generale dei cistercensi riformati, dom Bernardo Olivera (Martiri in Algeria. La vicenda dei sette monaci trappisti); c) la raccolta degli scritti dei monaci curata da Guido Dotti, monaco di Bose (Più forti dell’odio).