IL RISVEGLIO DEGLI EREMITI

RITORNO AL DESERTO

 

Marginali tra i marginali per essere segno della presenza di Dio, si diffondono nella vecchia Europa e nell’America, in tutto l’occidente cristiano ormai tiepido, secolarizzato e distratto. Come leggere questa realtà? Quali i problemi, gli interrogativi, gli stimoli che pone alla Chiesa e alle società del mondo occidentale?

 

Nella Chiesa del post concilio i moderni eremiti da tempo inquietano, incuriosiscono, fanno parlare di sé, suscitano interrogativi e domande. Si presentano con un volto nuovo, ma l’impressione è che stentino ancora a farsi comprendere e accettare. Anche se il loro carisma è stato riconosciuto nel Codice di diritto canonico (can. 603) fin dal 1983 – una novità che non ha precedenti nella storia della Chiesa – ancora oggi sono visibili i segni di una plurisecolare diffidenza. E qualcuno si chiede se in realtà nelle pieghe del documento non si nasconda la volontà, da parte della Chiesa istituzionale, di “imbrigliare” in qualche modo una forma di vita che fiorisce e si diffonde al di fuori di schemi e regole precostituite. C’è chi vede in loro il ritorno di una cultura individualistica, o il rigurgito di una conservazione nel riproporre forme considerate obsolete di ascesi e di chiusura al mondo.

 

C’è chi li vede in conflitto con la cultura che anima la Chiesa del post-concilio, proiettata sul dialogo, l’evangelizzazione e la missione. E chi invece nella loro esperienza spirituale vede in positivo elementi di rinnovamento destinati a influenzare anche le forme più tradizionali di vita religiosa.

Un soffio dello Spirito? Come stanno veramente le cose? Intanto “loro”, gli eremiti chi sono?

 

I NUOVI

DESERTI

 

Come gli antichi Padri, cercano la solitudine, il deserto, l’interiorità della “cella”, l’essenzialità di una vita che tutto vuole ricondurre al primato assoluto di Dio. Ma nuovi sono i deserti, nuove le solitudini, nuove le forme di ascesi che vengono scelte, nuovi e diversi i percorsi, quelli geografici e anche quelli interiori, che caratterizzano queste vocazioni.

Si diffondono a macchia d’olio, nei paesi della vecchia Europa, ma anche in America, in Canada, in tutto l’occidente cristiano ormai tiepido, secolarizzato e distratto.

Una “fuga mundi” in piena regola, per inseguire la marginalità come scelta di vita, per abbracciare una solitudine abitata da Dio. Presenze silenziose e nascoste, gli eremiti sembrano vivere un destino parallelo a quello degli uomini del nostro tempo. Noi li percepiamo “accanto” ai nostri rumori, “accanto” al nostro correre e al nostro fare. Loro invece si sentono “dentro”, proprio nel cuore di quel mondo da cui pure sono fisicamente e spiritualmente lontani.

Come leggere questa realtà? Come interpretarla? Quali i problemi, gli interrogativi, gli stimoli che pone alla Chiesa e alle società del mondo occidentale? Una “spina nel fianco”, una provocazione per chi, ripiegato sull’effimero, sembra non volere o non sapere più ricercare i valori profondi, quelli che danno senso e direzione alla vita dell’uomo? Un “segno” forte per indicare alla Chiesa e alla vita religiosa attuale la via di una più radicale e profonda interiorità? Oppure fuga da un mondo sentito troppo complesso e competitivo, troppo arido e vuoto, alla ricerca di una pace impossibile? O ancora “segno di una chiusura” nel guscio rassicurante dell’io, quasi a testimoniare che la cultura individualistica afferra anche i fenomeni religiosi e spirituali del nostro tempo?

A queste domande non sarà facile rispondere. Perché l’eremita, per sua natura, sfugge a ogni sguardo indagatore. Trincerato nella sua voluta “insignificanza”, non rivela volentieri il mistero presente nella sua vita. Spesso non si lascia neppure trovare. Alcune voci ci giungono sì, dai moderni deserti, perché qualcuno, tra gli eremiti più noti, scrive o si lascia raggiungere e intervistare. Ma i più restano avvolti nel silenzio, vivono aggrappati a quella marginalità che in qualche modo definisce questo loro tipo di vita.

 

UN MARGINALE

FRA I MARGINALI

 

«Un eremita è un monaco al quadrato – afferma A. De Vogüè, monaco e teologo benedettino che vive da anni nell’eremo sovrastante l’Abbazia di Pierre-qui-Vire, in Francia – un marginale fra i marginali che non pretende affatto di essere un segno, perché il deserto è l’insignificanza. Un marginale fra i marginali che vuole soltanto essere alla presenza di Dio»1.

La definizione è calzante: il deserto è per l’eremita una strada, anzi “la” via privilegiata che lo porta a stare continuamente alla presenza di Dio. L’insignificanza, la marginalità, il silenzio costituiscono il contesto in cui fiorisce e si sviluppa il carisma dell’anacoreta.

L’eremita è uno che si spoglia radicalmente di tutto per inseguire Dio, per starsene di fronte a lui, continuamente. Per realizzare quello che Paolo e gli altri apostoli raccomandavano ai primi cristiani: «pregate incessantemente» (1Tess. 5,7).

Nel mondo del postmoderno, lacerato da tante solitudini, oppresso dai mali oscuri dell’anima, gli eremiti ci indicano una solitudine abitata da Dio, che permette all’uomo di ritrovare, in lui, la propria verità, e il mondo e le cose in una dimensione diversa, più profonda e più bella.

Lo dicono, è vero, in modo radicale, attraverso una forma di vita che costituisce un segno forte, ma anche in questo non sembrano indicare nulla che non sia già contenuto nella vita cristiana in se stessa. Perché ogni battezzato è chiamato a dare a Dio il primato assoluto nella sua esistenza.

L’eremita è per sua natura legato al deserto, in greco appunto eremìa. Luogo geografico ma dal valore anche fortemente simbolico. Proprio nel cuore del deserto morì Antonio, il padre degli anacoreti, guardando il Sinai. Nel deserto Gesù ha affrontato le tentazioni di Satana, nel deserto Mosè ha guidato il popolo di Dio verso la liberazione e la terra promessa.

Anche per i nuovi eremiti il deserto conserva tutta la sua carica simbolica. Esso appare loro come luogo d’incontro con Dio, terreno su cui si combatte la battaglia contro il male, luogo di precarietà, di passaggio, che richiama la finitudine dell’uomo, la limitatezza della sua vicenda terrena, le difficoltà del vivere quotidiano, le stanchezze, le fatiche del corpo e dello spirito nel lungo cammino che porta gli uomini alla “città “che è stata loro promessa.

Come nel terzo, quarto, quinto secolo gli antichi padri popolarono i deserti dell’Egitto, della Palestina, della Siria, ora i nuovi eremiti cercano i luoghi solitari e nascosti dell’occidente.

Alcuni addirittura si spingono nel deserto interiore e difficile delle metropoli, opponendo ai rumori e all’indifferenza per i valori dello spirito il silenzioso ascolto della Parola, alle corse frenetiche che caratterizzano la vita degli uomini d’oggi il sereno raccoglimento della preghiera, alle solitudini da molti sofferte e temute la ricerca di una solitudine scelta e sentita come piena, visitata da Dio.

 

FORME

DI VITA EREMITICA

 

Le modalità in cui i nuovi eremiti realizzano la loro vocazione sono in parte antiche in parte nuove. C’è chi vive la sua chiamata all’interno di alcuni ordini monastici di antica tradizione, come il camaldolese (di Arezzo e di Monte Corona) e il certosino. Ma anche in altri ordini, come quello cistercense, benedettino, o francescano, sono possibili ancora oggi esperienze di vita eremitica, temporanee o definitive, che affiancano la vita cenobitica prevalente.

Addirittura presso alcuni ordini, come quello dei Camaldolesi, ancora oggi sono consentite forme di “reclusione” volontaria, peraltro praticate da sempre2.

Ma accanto a queste forme tradizionali, mai venute meno nella Chiesa anche se con declini e ritorni, cresce e si diffonde l’eremitismo diocesano, per molti aspetti nuovo, reso possibile, appunto, dal canone 603 del CIC.

È caratterizzato da flessibilità e varietà negli stili di vita, garantite da una regola ad personam, che il Vescovo approva quasi riconoscendo all’anacoreta una sorta di “contrattualità”. Infatti le modalità concrete in cui la chiamata eremitica si concretizza vengono in qualche modo “contrattate” con il vescovo, che riceve la professione dei voti dell’anacoreta e legittima così il suo carisma all’interno della Chiesa.

L’eremita diocesano, non più affidato alla mediazione dell’ordine monastico, ha quindi nel vescovo il suo diretto referente. Una novità assoluta nella vita della Chiesa. In qualche modo emerge l’idea di una ecclesialità della vita cristiana, inserita sì in una dimensione universale, ma vissuta e concretizzata all’interno della Chiesa diocesana. Inoltre il dono comporta una responsabilità, un impegno di vita, che l’eremita stesso si dà adattandolo alla sua personale situazione.

È una forma di vita, questa, alla quale si accostano laici, religiosi e anche preti diocesani. Individualmente o a gruppi di due o tre persone. Con un impegno stabile o temporaneo. Alcuni coltivano l’ospitalità, altri scelgono un silenzio e una solitudine più radicali. C’è poi chi porta l’abito religioso e chi vuole l’anonimato in tutto, compresi l’abbigliamento e lo stile di vita.

Un discorso tutto da approfondire è quello di una presenza, che dalle ricerche sembrerebbe prevalente, di religiosi o ex religiosi nell’utilizzo di questo modello istituzionale di vita eremitica.

Un dato tutto da interpretare. Stanchezza rispetto alle forme più tradizionali della vita religiosa? Rifiuto di un attivismo e di un efficientismo vissuti come eccessivi o per lo meno tali da non permettere una adeguata cura delle cose interiori? Rifiuto di una vita religiosa spesso soffocata da rigidità di tipo strutturale, da vincoli burocratici, sociali ed ecclesiali? O semplicemente voglia di recuperare una spiritualità più profonda, più fondata sull’interiorità e la preghiera?

 

GLI EREMITI

LIBERI

 

Accanto a questi due modelli istituzionali di vita eremitica, uno antico e l’altro nuovo, c’è un terzo modello, non istituzionale, non riconosciuto, ma ugualmente legittimo e meritorio se attuato nella condizione di una comunione reale con la Chiesa. Si tratta dell’eremitismo libero, senza regole né riconoscimenti ecclesiali, senza vincoli e impegni come i tradizionali voti religiosi.

Questi eremiti non sono ovviamente citati nel secondo paragrafo del canone 603, però ne parla il Catechismo della Chiesa cattolica (920-921).

Se un battezzato, dopo attento discernimento e in piena comunione con la Chiesa, decide di vivere la sua chiamata alla solitudine e al deserto senza alcun vincolo, è pienamente legittimato a farlo in virtù del suo battesimo. Tuttavia, proprio perché questo tipo di vita richiede grande e sperimentata maturità umana e spirituale, è opportuno che l’eremita adotti alcune fondamentali precauzioni per evitare che una certa superficialità venga a snaturare o anche semplicemente ad appannare il suo dono.

Perché dietro la radicalità di una scelta spirituale possono celarsi bisogni di fuga, rifiuti di responsabilità, forme di disadattamento psicologico o difficoltà a relazionarsi sul piano sociale. E soprattutto perché una scelta così impegnativa richiede comunque sempre un punto di riferimento certo e costante (un padre spirituale, un confessore, un monastero…) per una verifica e un discernimento che devono essere continui nel tempo. Se questo è necessario per l’eremitismo istituzionale a maggior ragione lo è per quello libero.

C’è chi dice che sono loro i veri eremiti. E chi vede invece nella loro esperienza di vita una contestazione esplicita o implicita nei confronti della stessa Chiesa istituzionale. Affermazioni, queste, tutte da verificare, anche se è credibile che almeno in parte questo aspetto sia presente in talune esperienze.

 

UN FENOMENO

IN CRESCITA

 

Ma quanti sono gli eremiti oggi nel moderno occidente? Come vivono, cosa fanno? Che cosa li differenzia dagli stereotipi culturali che noi conserviamo nel nostro immaginario collettivo?

Sui numeri il discorso è veramente difficile. Qualcuno, è vero, ha anche provato a contarli, ma i dati sono necessariamente parziali e frammentari.

Per Giandomenico Mucci3 sarebbero circa 20.000 in tutto il mondo, compresi quelli legati ad altre religioni e tra i 1000 e 1200 quelli in Italia, sempre complessivi.

Un’altra ricerca parla di un numero che va da 150 a 250 eremiti cattolici presenti in Italia, ma solo in riferimento a quelli del secondo e terzo gruppo4. In Francia ne sono stati calcolati almeno 3005 e 70 in Germania, di cui l’80% sono eremiti diocesani, il 20% monastici o liberi6.

I dati sono frammentari e necessariamente incompleti. Anche perché molte esperienze eremitiche sono a tempo, altre in prova e, soprattutto quelle del terzo tipo, difficilmente verificabili. Il numero preciso degli eremiti stabili in Italia, nei Paesi europei, nel mondo, in realtà non lo conosce nessuno.

Tutta in salita anche la strada per definire la qualità della vita eremitica di stampo cattolico. Alcuni squarci, sempre parziali ma abbastanza indicativi, ci vengono da interviste o ricerche che troviamo sul campo. Ne cito una recente realizzata all’interno della facoltà di sociologia dell’Università di Padova7.

Il campione riguarda 35 eremiti, diocesani o liberi che vivono nell’area centro settentrionale dell’Italia. Nonostante la parzialità della campionatura, emergono dati interessanti che ci aiutano a risalire a un profilo psicologico e spirituale di questi moderni solitari.

È una vocazione che non sembra appartenere ai giovani. Nasce dai 35 ai 50 anni e spesso costituisce una seconda chiamata, dopo una prima scelta di vita religiosa a volte anche in congregazioni di vita attiva.

Dunque si tratta di adulti e prevalentemente di buona cultura. Soltanto 5 i laici con voti privati o senza voti, 4 gli eremiti consacrati dal vescovo. Tutti gli altri risultano sacerdoti o religiosi da tempo. Su 35 soltanto in 19 utilizzano il canone 603. Il cammino eremitico da parte di alcuni di essi sembra costituire una parziale affrancatura dalle strutture ecclesiastiche, non certo per alleggerire, anzi per rendere più rigorosi gli impegni legati alla vocazione ricevuta. Minimo l’utilizzo del canone 603 da parte dei laici (solo un settimo del campione) mentre in questo risulta preponderante la presenza di religiosi e clero .

Come leggere questo dato? Forse alcune richieste a entrare nel canone 603 hanno alla base un rifiuto della congregazione a permettere, anche in via temporanea e del tutto eccezionale, questo tipo di percorso. E comunque non c’è dubbio che all’interno della vita religiosa attuale va facendosi strada la domanda di una più solida e profonda spiritualità, ma anche di strutture più flessibili e articolate, più rispettose della varietà e diversità dei percorsi individuali.

 

I LUOGHI

DEGLI EREMITI

 

Anche i luoghi in cui si consuma la vocazione dei nuovi eremiti appaiono diversi rispetto agli stereotipi ai quali siamo abituati. Dei 35 intervistati solo 6 abitano in eremi veri e propri, 16 vivono in canoniche, santuari, vecchi monasteri, 13 in case o appartamenti. Pochi quelli che hanno scelto la città.

Come vivono e si mantengono? Anche qui i dati sono interessanti. Qualcuno (3) vive con una modesta pensione, altri (10) si mantengono con l’incarico presbiterale, tutti gli altri svolgono piccoli lavori artigianali o di scrittura.

Quasi tutti sottolineano la necessità di un percorso comunitario prima di affrontare il cammino eremitico, come del resto è detto nella Regola benedettina, scritta da un grande solitario, fondatore di un antico e solido modello di vita cenobitica.

Qualcuno denuncia rapporti “difficili” con la Chiesa locale, altri invece, soprattutto alcuni preti-eremiti, si sentono integrati nell’apparato diocesano, in cui hanno trovato ruolo e riconoscimento.

Non mancano sorprese. Come l’apertura, da parte di una congregazione di vita attiva, a una forma di eremitismo nell’ambito della stessa congregazione. La medesima cosa viene raccontata da due gesuiti nel corso di un’intervista.

Realtà carismatica in movimento e in crescita, dunque, questo nuovo affermarsi della vita eremitica. Che ha in sé elementi innovativi per quanto riguarda sia la vita religiosa tradizionale che la stessa vita cristiana. Infatti, pur nella sua radicalità difficilmente imitabile, questa esperienza sembra spostare fortemente l’asse dell’evangelizzazione sulla testimonianza e sulla profezia spirituale ridimensionando in qualche modo l’attivismo della predicazione e delle opere tradizionali.

 

UN VUOTO

LEGISLATIVO

 

Il risveglio degli eremiti ha accompagnato tutta la Chiesa del postconcilio. Ma gli stessi Padri conciliari in qualche modo dovettero prendere in considerazione un fenomeno che all’epoca andava già evidenziandosi in alcuni paesi. Ne resta traccia nella Lumen gentium (c. VI n. 43) e nel Perfectae caritatis (n. 1). Ma solo il nuovo Codice di Diritto Canonico si è occupato in maniera più organica della vita eremitica.

«Oltre agli istituti di vita consacrata – così recita il testo al primo paragrafo – la Chiesa riconosce la vita eremitica o anacoretica con la quale i fedeli, in una più rigorosa separazione dal mondo, nel silenzio della solitudine, nella continua preghiera e penitenza, dedicano la propria vita alla lode di Dio e alla salvezza del mondo».

Definite le linee portanti di questa particolare chiamata, il canone non dice assolutamente nulla circa gli aspetti concreti, le modalità in cui vivere la separazione dal mondo, il silenzio, la penitenza, la preghiera continua. Riconosce e legittima pienamente un itinerario spirituale, ma evita di costringere l’eremita entro limiti giuridici troppo rigorosi, che potrebbero snaturare il senso della sua chiamata. C’è dunque un vuoto legislativo, che però fa discutere e su cui non tutti sono d’accordo.

La preghiera incessante o continua, prassi costante nei deserti egiziani8 è ancora oggi il cuore della vita eremitica. Il silenzio della solitudine, l’ascesi, il distacco dal mondo e dalle cose, sono tutti mezzi, strumenti che consentono all’orante di trasformare tutta la sua vita in preghiera, a lode di Dio e per la salvezza del mondo. Emerge, dal testo, ed è confermato dal vissuto dei moderni eremiti, un concetto di solitudine che non è isolamento, ma silenziosa disponibilità ad accogliere e ad ascoltare la parola di Dio. Quanto all’ascesi, forme, modalità e misura sono affidate al singolo eremita sotto la guida del vescovo.

 

GLI EREMITI

DIOCESANI

 

Nel secondo paragrafo, il canone 603 così afferma: «L’eremita è riconosciuto dal diritto canonico come dedicato a Dio nella vita consacrata se con voto, o con altro vincolo sacro, professa pubblicamente i tre consigli evangelici nelle mani del vescovo diocesano e sotto la sua guida osserva la norma di vita che gli è propria». È in sostanza il riconoscimento di eremiti istituzionali che non sono monastici. Il vescovo, diretto referente dell’eremita, ha nei suoi confronti un ruolo di “guida”, di sostegno nel vivere la “norma di vita” che egli stesso si è dato.

C’è chi dice che in questo caso meglio sarebbe parlare di progetto più che di regola di vita, per sottolinearne una maggiore flessibilità e capacità di adattamento. Ma questo non cambia di molto la lettura del canone. Il legislatore prefigura comunque con chiarezza un ruolo discreto del vescovo nel governo di questo carisma escludendo forme di intervento attivo e diretto.

In ogni caso, il rifiorire di questa particolare forma di vita, pone indubbiamente alla Chiesa tutta una serie di interrogativi e di problemi.

Questi nuovi contemplativi infatti sempre più spesso bussano alle porte delle comunità monastiche tradizionali per chiedere il sostegno di una guida spirituale o anche semplicemente per essere aiutati nei momenti della formazione. A volte un monastero diventa per loro il luogo concreto in cui approfondire una spiritualità di riferimento. Per alcuni solitari il legame con una comunità contemplativa diviene stabile e prevede momenti annuali di soggiorno nel monastero stesso, e un ruolo spirituale dell’abate o dell’abbadessa, a cui il vescovo affida l’eremita , perché lo segua e lo aiuti nel suo cammino di solitario.

Non c’è dubbio che anche le comunità monastiche tradizionali dovranno in qualche modo interrogarsi sul ruolo che possono avere nei confronti di tutti quei battezzati che, in forma stabile o anche solo transitoria, volessero scegliere questa forma di vita, e attrezzarsi di conseguenza.

 

UNA MODERNA

«TEOLOGIA DEL DESERTO»

 

La vita degli eremiti postmoderni non è fatta solo di gesti e di abitudini. Suppone una visione spirituale e culturale del mondo e delle cose, è radicata in un pensiero che ha radici antiche. E che ora viene riattualizzato, reinterpretato e riletto. Vediamo come.

Molte colonie di eremiti in tutto il mondo ormai, ripropongono, non solo a livello architettonico, il modello delle antiche laure. In greco il termine laura sta a indicare un sentiero. Precisamente quei sentieri che nei deserti egiziani del IV e V secolo servivano a unire le celle degli eremiti ai luoghi della sinassi e alla chiesa, centrale rispetto al complesso di costruzioni.

Gli esempi potrebbero essere tanti. Ne citiamo uno per tutti. A Chester, proprio a ridosso dei grattacieli di Manhattan, in un bosco di pini, un sacerdote americano ha costruito la laura di Bethlehem. Una “casa del pane”, segno vivo per la metropoli indaffarata e distratta che «non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,2-4)

Padre Eugene Romano9 fa rivivere così nella sua comunità eremitica l’ispirazione e la spiritualità degli antichi padri del deserto.

In Svizzera, in una baracca in mezzo a un bosco, a pochi chilometri da Lugano, vive da parecchi anni un eremita dell’ordine benedettino, padre Gabriel Bunge, noto studioso e divulgatore di Evagrio Pontico10.

Evagrio è una delle voci più alte e raffinate degli antichi deserti. La sua dottrina spirituale offre una tecnica di discernimento dei «pensieri», di introspezione, che ha molto da insegnare anche al pensiero moderno. È una vera e propria pedagogia spirituale, indica una via per raggiungere la liberazione interiore, l’armonia della mente, quello stato di interiore unione con Dio che gli antichi padri chiamavano esichìa, quiete. Visse per circa 14 anni nel deserto egiziano di Kellia, dove c’era una vera e propria città di eremiti.

Le celle, costruite dentro una corte chiusa da un muro, erano molto distanziate le une dalle altre, e per recarsi nella chiesa e nei luoghi della sinassi, questi antichi solitari a volte percorrevano anche qualche chilometro.

La loro vita si svolgeva prevalentemente nel silenzio della cella, dove lavoravano manualmente intrecciando giunchi (o come copisti se sapevano scrivere), quando non erano impegnati nella mietitura o in lavori comuni. Lavoravano per mantenersi, ma anche per scacciare il demone dell’akedia. Lavoro e preghiera incessante erano le attività della cella.

La preghiera più praticata era la melete che consisteva nel recitare a bassa voce versetti della Scrittura o dei Salmi, conosciuti a memoria. Tutta la settimana passava nella «custodia della cella», cioè in una solitudine riempita solo dalla preghiera e dal ricordo incessante di Dio.

Però era loro consentito di andare a trovare un anziano o un fratello per uno scambio spirituale o un consiglio. Il sabato sera si recavano in Chiesa per la sinassi, che era il loro momento di vita comune. Un pasto insieme, forse consumato in locali adiacenti o vicini alla Chiesa, precedeva l’Eucaristia, inserita in una liturgia notturna. Trascorrevano insieme la domenica mattina conversando. Poi, presa la loro razione di pane per la settimana, se ne tornavano ognuno alla sua cella. Un regime semianacoretico dunque, in cui la solitudine era contemperata da alcuni scambi fraterni.

Ritroviamo un ritmo di vita molto simile in molte comunità di eremiti anche oggi; per esempio nel Piccolo eremo del cantico, dove vive una fraternità di eremite della diocesi di Arezzo. Si appoggiano spiritualmente al monastero dei camaldolesi. Vivono in una casa colonica adibita a eremo, in un luogo isolato e aperto: le prime case si trovano solo a qualche chilometro di distanza.

Trascorrono le loro giornate in assoluto silenzio, dedicandosi al lavoro e alla preghiera. I momenti comuni li vivono soltanto il sabato sera con i vespri e la veglia, la domenica mattina con la preghiera liturgica delle lodi e il pranzo fraterno. Ogni 15 giorni inoltre, si ritrovano per un incontro comune in cui affrontano qualche problema o argomenti di studio e di spiritualità. Vivono del loro lavoro.

 L. R., ha una lunga esperienza di vita eremitica, tuttavia è consacrata, dal 1992, solo col rito della Consecratio virginum: allora la professione eremitica non veniva concessa tanto facilmente alle donne. Più fortunate le sue consorelle, alle quali si è aperta la strada del canone 603.

Interessanti alcune cose che emergono dalle pagine del loro Orientamento spirituale: ci tengono a sottolineare che la loro non è una semplice convivenza di donne solitarie, e neppure una comunità religiosa strutturata con una regola e una superiora. Non sono neppure una laura, cosa che comporterebbe una madre spirituale in un ruolo di guida sulle altre. «L’impostazione di vita nel Piccolo eremo del cantico è centrata sull’attenzione alla persona, al suo cammino interiore, alle sue caratteristiche, alla sua storia personale, affinché ognuna possa vivere il mistero e la vocazione alla comunione nel Signore. Perciò, all’interno di un orientamento generale in cui tutte si riconoscono, ciascuna eremita è accompagnata da un progetto personale di vita quotidiana elaborato individualmente.

Interessante anche l’apertura di queste sorelle ad accogliere nei loro eremitaggi tutti coloro che volessero anche solo temporaneamente fare esperienze di vita solitaria.

Uno schema simile, che tempera la solitudine con alcuni momenti comunitari, lo ritroviamo anche in un’altra associazione di anacorete, che vive in Liguria. Le donne sembrano costituire un fetta importante del moderno eremitismo. Si tratta di due monache benedettine che hanno ricevuto successivamente la chiamata alla vita eremitica. Si sono date una regola, praticamente quella di Benedetto applicata all’eremo, e sono consacrate col canone 603, quindi soggette alla vigilanza del vescovo. Lavoro, preghiera liturgica e personale, lectio divina vengono praticate personalmente. Ma celebrano insieme i vespri, seguiti dall’adorazione eucaristica. Praticano l’ospitalità.

Interessante quello che scrivono nella loro regola sulla solitudine:«Vogliamo viverla nello spirito di s. Benedetto che “abitò con se stesso sotto lo sguardo di Colui che dall’alto scruta” (s. Gregorio). La desideriamo come via alla nostra comunione con Dio, con i fratelli, con il creato. Vogliamo vivere la solitudine non come “assenza” ma come possibilità di rimanere sotto lo sguardo di Dio, “abitate” dalla sua presenza».

 

LA SPIRITUALITÀ

DELLA CELLA

 

La cella è una delle parole chiave che i moderni eremiti riprendono e attualizzano adattandola alla loro esperienza storica e spirituale.

A chi approdava nei deserti antichi, dell’Egitto, della Siria, della Palestina, veniva detto come prima cosa:«Costruisciti una cella » e poi: «Restaci, dimora in essa, non lasciarla».

La cella è il simbolo di una condizione interiore di silenzio dominato e riempito dalla Parola e dalla Presenza di Dio.

Però non è solo una realtà del cuore. Rappresenta, anche nella sua materialità temporale, tutto il doloroso e difficile cammino di svuotamento, di allontanamento dalle passioni, di distacco dal mondo e dalle cose, per raggiungere il bene della quiete interiore, della preghiera ininterrotta, la gioia della Presenza divina.

La cella è il luogo fisico e spirituale in cui matura e si stabilizza il ricordo continuo di Dio. Antonio, il padre dei monaci, dice che la cella è per i monaci ciò che il mare è per i pesci, è il luogo della vita, fisica e spirituale, la vita del corpo e quella dei pensieri. Ma, avverte Sincletica11 «molti che vivono sul monte fanno quello che fa la gente in città e si perdono. È possibile, vivendo insieme a molti, praticare con la volontà la vita solitaria e, vivendo da soli, essere con il pensiero in mezzo alla folla». La cella è dunque soprattutto il cuore, la profondità dello spirito umano, in cui Dio viene accolto e la sua parola ascoltata. Restare nella cella – questo l’insegnamento degli antichi Padri – significa ritrovare se stessi e la propria verità davanti a Dio.

P. V. è una eremita consacrata col canone 603. Vive su una collina, da sola, in Emilia, a pochi chilometri dal paese più vicino. Intorno a lei solo qualche casa sparsa. Da una stalla che le è stata regalata ha ricavato alcuni ambienti: una stanza da lavoro, una piccola cucina, una cappella, una stanza per dormire. «Io mi esercito ogni giorno nella fatica di tutti gli uomini per incontrare l’Assoluto» così definisce la sua vita.

La sua giornata ruota attorno alla preghiera liturgica e personale e all’ascolto della parola di Dio. Si sveglia alle cinque ogni mattina. Dopo una preghiera silenziosa, la preghiera liturgica («mi metto in comunione con chi recita i salmi» dice lei), quindi il lavoro (produce icone o lavora nell’orto), poi un pasto sobrio. Nel pomeriggio si dedica all’ascolto di fratelli o alla formazione (ascolta cassette di conferenze, o studia, legge). Spesso pratica la preghiera notturna e l’adorazione eucaristica.

La spiritualità a cui fa riferimento è quella dei padri del deserto, ma sente molto vicino anche Charles De Foucauld. Per lei la «cella» è soprattutto un luogo interiore. Avverte la sua chiamata come un invito a fare di tutta la sua vita una preghiera di lode e di intercessione a Dio per i fratelli. Come tutti i veri eremiti, non si sente affatto lontana dal mondo. «Quando sto davanti a lui – dice – io abbraccio l’umanità».

 

SOLITUDINE

E COMUNIONE

 

Una solitudine nella comunione, quella dell’eremita, che si sente ed è nel cuore della Chiesa. E con la testimonianza della sua piccola vita indica ai fratelli il silenzio della cella anche come una strada alla carità. Nei Detti dei Padri troviamo in proposito affermazioni straordinarie. «Non per virtù vivo in solitudine – dice Abba Matoes – ma per debolezza. Perché la solitudine della cella insegna a frenare una parola di troppo, a evitare reazioni aggressive verso fratelli che ci hanno ferito e offeso, a farsi violenza pur di non far male al fratello. Se vuole, un uomo vivente può morire, per non rimproverare il suo fratello»12.

E poi, la vicenda dei grandi eremiti, come Benedetto o s. Francesco si ripete ancora oggi: c’è sempre qualcuno che bussa alla porta di un solitario per chiedergli il suo segreto di vita, o un aiuto, una preghiera, una parola. E anche per lui scatta allora il tempo della misericordia e dell’amore.

 

EREMO

E VITA RELIGIOSA

 

«L’eremo non sa indicare come uscire dalla crisi della vita religiosa, si colloca invece dentro di essa senza pretese, senza teorie e senza profezie» Così scrivono, nel loro Progetto di vita, alcuni frati minori conventuali della provincia patavina di s. Antonio, fondatori dell’Eremo di s. Maria di Betel.

Si tratta di un’esperienza eremitica, all’interno della regola e della spiritualità francescana, con il pieno consenso dei superiori e confratelli, con una particolarità: «Desideriamo caratterizzarci seriamente facendo una scelta chiara ed esplicita di vita nel silenzio... marcare in maniera specifica l’identità della nostra comunità in senso eremitico e contemplativo» fino a diventare «fraternità fatta preghiera».

Non di vita eremitica pura si tratta: l’apostolato viene ridimensionato ma non abbandonato. Al silenzio, alla preghiera, alla meditazione vengono restituite le doverose priorità.

Ma c’è di più.«Desideriamo riappropriarci – aggiungono – di una teologia della vocazione cristiana letta non più solo in termini di esigenze ministeriali ma anche di cammino dell’anima non sottoponibile a letture ideologiche».

Nostalgia delle origini? Voglia di ritrovare le radici ? Il pensiero corre a quel bellissimo testo che è La Regola di vita negli eremi di s. Francesco d’Assisi, che invitiamo a leggere13.

La spiritualità francescana esercita un certo fascino anche tra i moderni eremiti. Ma c’è un po’ di tutto. Per esempio in un eremo del Lazio una eremita – e non è la sola – vive la regola primitiva dei fondatori del Carmelo, altri seguono la spiritualità di fratel Charles de Foucauld. Nella diocesi di Bologna una libera eremita riprende la spiritualità francescana. Ha dato vita a una fraternità di eremiti che, col permesso dei vescovi, riapre alla preghiera dei fedeli le chiese chiuse, in qualche modo le ripristina, le ricostruisce come Francesco ha fatto per s. Damiano. Sul monte Luco vive un’altra libera eremita. Ha settantasei anni e fa vita eremitica da 35. Per anni ha vissuto di elemosine. Anche per lei la preghiera è alla base di tutto, ma non ha una spiritualità di riferimento.

 

SOLITARI

NELLE CITTÀ

 

La novità di una rilettura dell’eremitismo antico appare più evidente soprattutto in quelli che molti definiscono gli eremiti metropolitani, i solitari nelle città.

Della «separazione dal mondo» accentuano gli aspetti più simbolici e interiori ridimensionando quella separazione fisica che però conservano in alcuni momenti e aspetti della loro vita e ritengono comunque necessaria. La città, per loro, è il simbolo del cammino terreno degli uomini, con il suo carico di solitudini, di incomunicabilità, con i suoi rumori, i suoi mali. La città è il moderno deserto in cui l’uomo costruisce i suoi idoli, il successo, i piaceri, il consumo sfrenato, il mito dell’efficienza, dell’effimero, l’idolatria dei poteri.

Ma la città è anche il luogo in cui gli uomini sono chiamati a incontrarsi, a vivere la storia e il tempo che è stato loro donato, a incontrare Dio, a camminare verso la celeste Gerusalemme sapendo che però nel mistero essa è già presente nel mondo. È qui, sul campo, che alcuni solitari, testimoniando la speranza che hanno nel cuore, realizzano con la loro vita una nuova e tutta interiore fuga mundi. Essere nel mondo senza essere del mondo: cioè amarlo e odiarlo, come ha fatto Gesù.

Perciò sono soprattutto le barriere dello spirito quelle che innalzano, per custodire il cuore dalle distrazioni e dal male. Ripropongono, nei deserti delle città, l’idea del combattimento spirituale. Sul campo, viso a viso, corpo a corpo, senza fuggire, con le armi di Dio.

Anche per gli antichi padri il termine mondo stava ad indicare gli aspetti più decaduti della natura umana, non certo il rifiuto della convivenza umana in quanto tale. «Non può avvicinarsi a Dio se non colui che si allontana dal mondo – così afferma un grande solitario, Isacco di Ninive –. Migrazione però: io non parlo di distacco dal corpo, ma dai suoi desideri. Questa è la virtù: essere, nel proprio pensiero, vuoti di mondo»14.

I solitari delle città vivono nel silenzio delle loro case, nell’anonimato, dedicandosi alla preghiera e alla meditazione della parola di Dio. Vivono sobriamente, del loro lavoro. Si ritagliano spazi significativi, nella giornata – prevalentemente al mattino e alla sera – da dedicare alla preghiera liturgica e personale e all’ ascolto della parola. Qualcuno di loro nella regola o progetto di vita, prevede rientri in alcuni tempi dell’anno in una comunità monastica di riferimento. Sono laici e sacerdoti, consacrati secondo il canone 603 ma anche liberi.15

Riprendono e attualizzano nel contesto metropolitano la pratica della preghiera incessante, fatta in una cella che di volta in volta è il mondo, l’autostrada percorsa in automobile, il luogo di lavoro, la strada affollata di gente, il tram, o la silenziosa intimità del proprio appartamento. Con la loro vita testimoniano la sfida dell’uomo moderno a trovare Dio, e a lasciarsi trovare da lui.

Non di pura tecnica o prassi si tratta. La preghiera incessante che animava il monachesimo delle origini , può ancora illuminare la vita dei cristiani oggi, chiamati a essere, come Giovanni, «lampada che arde e risplende», pietre vive nell’edificio spirituale che è la chiesa di Dio. Questi moderni solitari , pur nella radicalità di una scelta che non appartiene a tutti, indicano con forza la bellezza della vocazione di ogni battezzato, che è di rendere con la propria vita, in ogni momento culto a Dio, come afferma anche la Lumen gentium al c.34, a proposito della partecipazione dei laici al sacerdozio comune.

E quindi alla fine, proprio loro che sembrano lasciare il mondo tagliando un po’ su tutto: cose, relazioni, incontri, parole, sono proprio loro a testimoniarci, con la vita, che il mondo è bello perché appartiene a Dio, che Dio lo si può incontrare e lodare ovunque, ovunque si può, nella cella del cuore, intercedere per ogni fratello che si incontra. Quello che il concilio ha definito consecratio mundi – sempre nello stesso capitolo della costituzione Lumen gentium – passa nel cuore di ogni credente, che è reso capace, in Cristo, di attraversare il mondo santificando tutto ciò che tocca o che fa. E proprio nel rapporto con il mondo si gioca il futuro della Chiesa del terzo millennio e quello dell’evangelizzazione.

«Nascosta agli occhi degli uomini, la vita dell’eremita è predicazione silenziosa di colui al quale ha consegnato la sua vita, poiché egli è tutto per lui»: così il Catechismo della Chiesa cattolica definisce la vita eremitica. E forse nessuna definizione è più appropriata di questa (CCC 921).

Pur con tutti i loro limiti, magari anche con qualche eccesso o stravaganza di troppo, i moderni eremiti ci indicano, profeticamente, un rapporto col mondo fatto di immersione e di separatezza, di amore profondo ma anche di odio, nella consapevolezza che il deserto attraversa ogni storia e ogni vita, ma alla fine, per tutti, è solo e soltanto un passaggio verso la vita, quella vera. Gli eremiti, oggi, ci insegnano a camminare nel deserto, animati dalle parole di Gesù :«... quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via» (Gv.14,3-4).

 

Liliana Lattanzi

 

1 ANTONIOLI F.,Cercatori di Dio, Ed.Paoline, Milano 1996, p.39.

2 Si veda in proposito MATUS Thomas, Nazarena, Ed. Camaldoli-Pezzini 1998, e M. Cecilia Zappi, L’eremita missionario Romano Bottegal, Ed. S. Paolo, Cinisello Balsamo 2004.

3 MUCCI G., I nuovi eremiti La civiltà Cattolica, IV/2002, p.259.

4 TURINA Isacco, Il lavoro degli eremiti contemporanei, in Vita monastica n. 229, p. 87.

5 La Croix 14/07/2004

6 LEENEN M. Anna, Ordens Korrespondenz n.4/2004.

7 TURINA I., La conoscenza dell’eremita. Esperienze contemporanee di eremitismo cattolico individuale nell’Italia centrosettentrionale, Tesi di dottorato in sociologia, 31/12/2004.

8 Sulla preghiera incessante si legga un testo bellissimo di Cassiano, la X conferenza del Libro I in Conferenze ai monaci, Città Nuova, Roma 2000.

9 si veda in proposito ROMANO E. L., Una spiritualità del deserto, Ed. S. Paolo, Cinisello Balsamo 2000, e il nostro articolo Ritorno degli eremiti in Testimoni 12/2002.

10 ANTONIOLI, op. cit.

11 Detti editi e inediti dei Padri del deserto , Ed. Qiqajon, Bose 2002, p. 116.

12 ibidem, p. 134.

13 in Fonti francescane , Ed. Francescane 2004.

14 CHIALÀ S., Dall’ascesi eremitica alla misericordia infinita, Leo Olschki 2002, p. 209.

15 Si veda in proposito A. VALLE, Semi di Dio nelle pieghe della storia, in Jesus, aprile 2005.