CHIUSURA DEGLI ISTITUTI PER I MINORI

UNA FAMIGLIA PER OGNI BAMBINO

 

Entro il 2006 tutti gli istituti per minori ancora aperti in Italia dovranno essere chiusi: la VC si fa trovare pronta all’importante appuntamento accompagnando con un lavoro di rete il rilancio delle diverse forme di accoglienza da parte delle famiglie.

 

«Cala di due terzi la presenza dei minori negli istituti. È ragionevole quindi la speranza della chiusura degli istituti al termine del 31 dicembre del 2006 così come indicato dalla legge 149 del 2001». Lo ha affermato il sottosegretario al ministero del Welfare, Grazia Sestini, con delega alle politiche sociali, a margine del recente convegno nazionale di Torino “Tutti i bambini hanno diritto a una famiglia”. La trasformazione degli istituti, già avviata per quelli censiti, prevede la loro trasformazione in comunità familiare o comunità educativa. Si intravede, dietro questa decisione politica, la scelta che ogni minore ha diritto a un percorso educativo e non a soluzioni di mero parcheggio o contenimento di devianza.

I bambini che vivono in istituti (202 strutture con accoglienza residenziale delle 247 totali) sono circa 3.000, ma per avere il dato complessivo dei “minori fuori dalla famiglia” è necessario aggiungere a questo numero i bambini accolti nelle comunità (familiari ed educative), che possono essere stimati tra i 15.000 e i 20.000, e il numero dei minorenni in affidamento familiare, che nel 1999 in Italia erano 10.200. Permangono regioni in cui i dati risultano più elevati, come la Sicilia e la Campania.

Siamo dunque a un passaggio culturale cruciale: se infatti la funzione degli istituti è stata importante in un momento storico in cui l’urgenza era quella di proteggere i minori (finalmente un pasto caldo, vestiti e un tetto!) ma anche la società da una folla di mendicanti e straccioni, oggi occorre voltare pagina. Oramai è condiviso da tutti che la permanenza prolungata in istituti o comunità è negativa per i bambini, perciò la legge afferma con forza il diritto del minore a crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia. Il primo e decisivo intervento deve essere rivolto alla famiglia di origine dei bambini, la quale deve essere aiutata a prevenire e superare le condizioni che le impediscono di svolgere il suo compito. Ma la legge ha anche stabilito che quando la famiglia non è in grado di provvedere alla crescita e all’educazione del minore, rimane il diritto del minore a vivere, crescere ed essere educato nell’ambito di una famiglia. Solo se la prevenzione ed il sostegno falliscono, la società è chiamata a proporre delle soluzioni alternative: la principale è l’affidamento, in cui un’altra famiglia accoglie in una esplicita e temporanea condizione di sussidiarietà il bambino. Se anche questa soluzione non fosse percorribile (per situazioni particolari legate al bambino, alla famiglia di origine, al tessuto sociale nel quale è vissuto) l’inserimento deve avvenire all’interno di una comunità di tipo familiare.

 

UNA SOCIETÀ

A PARTIRE DALLA FAMIGLIA

 

Già il Rapporto sulla condizione dell’infanzia e della adolescenza del 2000 aveva sottolineato l’importanza di guardare l’infanzia e l’adolescenza nel nostro paese “a partire dalla famiglia”. Partire “dall’attenzione alla famiglia” significa avere consapevolezza che è possibile incrementare il benessere dei minori riconoscendo il più possibile la famiglia come soggetto attivo delle politiche sociali e protagonista di scelte. Occorre dunque una politica che favorisca lo sviluppo di esperienze innovative di accoglienza familiare e di percorsi educativi, nella consapevolezza del profondo nesso tra educazione e capitale umano, quali fattori essenziali di sviluppo della nostra società. Qualunque auspicabile iniziativa a sostegno di adozioni e/o affidi deve però fare i conti con un humus culturale che vede l’Italia, fra i paesi industrializzati, al primo posto per quanto attiene l’età in cui i figli escono dalla famiglia di origine e all’ultimo posto per il tasso di natalità. Cresce altresì l’instabilità familiare e l’età in cui si ha un primo figlio proprio.

In questa situazione il Forum delle associazioni familiari ha proposto alcuni punti fermi. La scadenza precisa impone che si avvii un ampio dibattito e una progettazione di interventi alternativi all’intervento residenziale di tipo istituzionale, in modo da costruire percorsi fruibili da tutti i minori oggi in istituto o che risulteranno bisognosi di interventi integrativi o sostituivi della propria famiglia. Un secondo punto concerne la valorizzazione della famiglia come risorsa della società e risposta privilegiata, anche se non unica, ai bisogni dei minori in difficoltà: ciò significa privilegiare concretamente interventi “familiari” (affido, adozione, comunità familiari realmente tali), attraverso una progettazione partecipata tra operatori dei servizi e famiglie disponibili.

Un terzo aspetto riguarda la concertazione delle risorse strategiche all’interno della rete dei soggetti che rispondono ai bisogni dei minori in difficoltà (istituzioni, servizi, famiglie, associazioni), in un’ottica di sussidiarietà e in uno stile di reciproca valorizzazione, per costruire quel welfare territoriale plurale oggi irrinunciabile. Oggi è certamente necessaria una grande differenziazione e flessibilità di progetti e di azioni, per offrire risposte mirate, personalizzate, competenti ed efficaci a minori che presentano problemi, bisogni e domande di grande diversità. I requisiti gestionali e strutturali delle comunità devono differenziarsi chiaramente in rapporto alla presenza o meno nella struttura di una coppia residente: occorre dunque favorire la nascita di comunità o case-famiglia gestite da famiglie. Infine, come ogni impresa straordinaria, anche quella della chiusura degli istituti per minori deve essere accompagnata da un impegno anche economico altrettanto straordinario, nella consapevolezza che si tratta non tanto di un costo sociale quanto di un investimento sulle generazioni future.

Sulla stessa lunghezza d’onda vanno le interessanti proposte dell’associazione fondata da don Benzi, Comunità papa Giovanni XXIII. Essa chiede di sperimentare le adozioni aperte (non interruzione totale dei rapporti con la famiglia di origine o parti di questa famiglia, es. nonni, per continuare a avere notizie circa i propri figli e a poterli incontrare con modalità protette), di rilanciare: l’affidamento familiare con nuovi strumenti quali: i servizi di affido a livello locale (con la nuova figura del consulente per l’affido), l’affidamento alle associazioni che si occupano di accoglienza familiare (garanti dell’inserimento dei giovani presso le famiglie loro associate, in accordo con i servizi sociali), l’istituzione in ogni regione di una anagrafe di tutti i minori fuori dalla famiglia (per il monitoraggio di affidamenti diurni, residenziali a parenti e a terzi, in comunità familiari, in comunità-alloggio educative, in convitti e strutture assistenziali, in istituti medico-pedagogici) e di una banca dati dei minori dichiarati adottabili, l’affiancamento familiare (possibilità di riconoscere ad alcune famiglie di poter entrare all’interno delle famiglie problematiche e svolgere un lavoro educativo per recuperare le capacità genitoriali), l’affido dei neonati e dei minori di 6 anni, gruppi di vita per gli adolescenti (momenti di accoglienza diurni in cui gli adolescenti sono accompagnati in un percorso formativo con adulti di riferimento), il riconoscimento della figura della cosiddetta casa-famiglia (struttura educativa residenziale con convivenza continuativa e stabile di due adulti, di norma coppia sposata con o senza figli, che risiede presso la struttura e accoglie minori e adulti con età e caratteristiche diverse, allo scopo di garantire un clima di disponibilità affettiva con rapporti individualizzati per assicurare sviluppo e maturazione affettiva, mantenimento, assistenza, partecipazione alla vita sociale. ospitalità), la famiglia “con professionalità” (che segue un percorso costante di formazione-aggiornamento e diventa capace di osservazione anche clinica del bambino, di relazionare con competenza ai servizi e al tribunale oltre che di gestire le conflittualità con la famiglia di origine), le reti familiari (con statuto e riferimento a una associazione o cooperativa o congregazione religiosa), la comunità di famiglie (famiglie che scelgono di vivere l’una accanto all’altra, in un rapporto di solidarietà, di aiuto reciproco, di messa in comune delle proprie risorse, anche lavorative ed economiche, mantenendo la propria autonomia nell’accoglienza).

 

VITA CONSACRATA

IN RETE CON LE FAMIGLIE

 

Sin dal medioevo i brefotrofi accoglievano ed educavano minori senza famiglia. Nell’ottocento si è però compreso che la loro esistenza poteva alimentare la cultura dell’abbandono indiscriminato (attraverso le famose “ruote” in cui lasciare anonimamente gli indesiderati). La crisi degli istituti è scoppiata dagli anni 1960-70 sotto la spinta di vari fattori sociali e culturali (crescita economica, riduzione degli orfani, sviluppo della psicologia, introduzione dell’istituto dell’adozione), oltre che della riduzione di vocazioni negli enti religiosi, i quali in diversi casi sono stati costretti alla chiusura.

Oggi siamo di fronte a un progetto globale di società solidaristica che non vuole delegare a istituzioni chiuse la cura dei meno fortunati, ma farsene carico attraverso reti di famiglie. In questa prospettiva si muove anche la VC da tempo, attraverso la Firas (Federazione italiana religiose nell’assistenza sociale), operando per il superamento degli istituti residenziali per minori, con ampie trasformazioni strutturali e relazionali. Sr. Manuela Latini (cf. Famiglia oggi, 3/2005, pp. 42 e ss.) sottolinea come la formazione delle religiose educatrici è passata «dall’attenzione incentrata sul minore in situazione di disagio alla famiglia nella sua globalità…. Si è passati nel corso di questi ultimi anni, da interventi educativi totalizzanti all’interno della struttura, a un lavoro di rete sul territorio, promuovendo, partecipando e intensificando rapporti di collaborazione e di progettazione alternative, sia a livello civile che ecclesiale. Noi religiose che operiamo nel sociale non vogliamo essere “l’ultima spiaggia” per la soluzione dei problemi dei minori in difficoltà, ma altresì desideriamo partecipare attivamente a questo processo educativo, non solo perché ogni minore ha diritto a una famiglia, ma anche perché la famiglia… è la comunità personalizzante per eccellenza».

Ovviamente non bisogna idealizzare la famiglia, che non sempre è luogo veramente costruttivo: «Dove la famiglia fa fatica, puntualizza sr. Manuela, le religiose sono vicine, non per sostituirla ma per aiutarla, sostenerla e incoraggiarla. Noi religiose ci sentiamo fortemente coinvolte e impegnate in questo processo evolutivo… Vi sono disagi invisibili, non rilevati dalle statistiche, che minano e distruggono le famiglie dall’interno, provocando l’imprevedibile tragedia che “fa notizia”. Solo allora ci si commuove e la curiosità può divenire addirittura morbosa. Ebbene: a questo “voler sapere” si deve sostituire una sensibilità educativa a costruire». La VC dunque si pone oggi come soggetto della comunità civile, pronta a formare una figura di religiosa educatrice intesa come coadiutrice familiare che affianca i genitori, a promuovere la cultura dell’infanzia contro quella della violenza e del potere. «Costruire un ambiente di vita che consenta una compiutezza di costruzione umana: questa la condizione non solo per vincere la scommessa sul futuro ma anche per vivere tutti e meglio la nostra vita di oggi». Si tratta in fondo di credere a quell’avventura collettiva che si chiama fiducia nella vita (Messaggio dei vescovi italiani per la XXVII Giornata per la vita).

 

Mario Chiaro