CHIUSURE E APERTURE NEL RINNOVAMENTO DELLA VC

VIVERE INSIEME IL VANGELO

 

La comunità come luogo in cui si impara a diventare insieme fratelli e credenti, luogo di discernimento della missione personale e comunitaria, “scuola del servizio del Signore”. Saper interpretare i testi delle origini, senza letture fondamentaliste e senza “mitizzarne” i contenuti.

 

Il ritorno al Vangelo è da sempre, non solo da oggi, un obiettivo irrinunciabile per tutti i religiosi. Lo si è insistentemente ribadito anche nel recente congresso internazionale sulla vita consacrata, non per nulla vissuto all’insegna delle due icone evangeliche della samaritana e del buon samaritano.

I religiosi, come del resto ogni cristiano, sono chiamati a seguire il Cristo da una parte e ad essere più vicini ai poveri dall’altra, senza però appropriarsi sia del primo che dei secondi. Non ovunque però si accetta questa identificazione dei religiosi con i semplici cristiani. O la vita consacrata, affermano alcuni, si propone di vivere il Vangelo in maniera più specifica e radicale, o non ha una sua ragion d’essere. Infatti, nella professione religiosa, ci si impegna pubblicamente a  vivere il Vangelo secondo lo spirito del proprio carisma di fondazione, per tutta la vita e in una comunità di fratelli o sorelle. È un impegno comunque che non può mai prescindere da una piena consapevolezza delle condizioni religiose, sociali e culturali del contesto in cui si intendono vivere sia i voti religiosi che la propria consacrazione.

Ma che cosa comporta, si chiede Philippe Lécrivain in un suo denso saggio in Études (4/2005), il fatto di aver scelto di vivere il Vangelo in una maniera del tutto particolare com’è quella che si propongono i consacrati? In un film di una trentina d’anni fa, Non invecchieremo insieme, con un insolito umorismo si tentava di dire quanto fosse difficile nella vita durare a lungo insieme. Ora anche i religiosi, dal momento che respirano a pieni polmoni il clima del proprio ambiente, hanno inevitabilmente a che fare con lo stesso problema.

Lécrivain affronta questo tema partendo dall’importanza del silenzio e della solitudine nella vita comune in un contesto sociale in cui vengono invece privilegiate e ricercate tutte le possibili forme di incontro interpersonale. La solitudine non è una fuga o la ricerca esasperata di isolamento. Rettamente intesa permette a ognuno di percepire e accettare più facilmente la propria diversità dagli altri. È, infatti, nella solitudine che si perde l’illusione di essere tutto per gli altri.

Se questo può valere, in gradi e modi differenti, per i propri amici, per una coppia di coniugi, a maggior ragione vale per dei consacrati. Nella vita comune, infatti, è importante imparare non solo ad accettare l’estraneità degli altri e a non ridurla al già conosciuto, ma anche a tacere e accettare di veder rimesse in causa le  proprie certezze. Quando in una comunità regna il silenzio, è più facile veder crollare le proprie difese, imparando, nello stesso tempo, a rinunciare all’immagine che si ha di sè stessi e accettando di andare assolutamente “indifesi” all’incontro con gli altri. Nell’abbassamento di Dio (Fil 2, 6-11) è possibile trovare la chiave più vera di ogni comunicazione umana e religiosa.

Quante volte, nella vita comune, c’è una preoccupante tentazione: quella  difendere a tutti i costi la propria verità prendendola per la verità. Nel cristianesimo c’è una sola verità, quella di Gesù Cristo. La comunicazione, grazie all’azione dello Spirito, avviene «al di là di tutti i muri di separazione» (Ef 2, 14). Non basta la fedeltà agli inizi se non è contestualmente accompagnata dalla comunicazione con gli altri.

 

LA FRATERNITÀ

UNA VOCAZIONE

 

La solitudine e il silenzio costituiscono, però, solo “l’atrio d’ingresso” nella vita comune. Un posto non meno importante, quando si parla di incontro con l’altro, lo occupano anche la parola e i gesti.

Impegnandosi a vivere il Vangelo con altri, i religiosi impegnano direttamente la loro fede in questa parola. Non si tratta semplicemente di una adesione intellettuale, ma di un cammino prima di riflessione e poi di convinzione e di fede vera e propria, fino a rimettersi in tutto e per tutto a Dio. Nel Nuovo Testamento non si diventa forse credenti solo dopo aver rotto con il passato accettando il cammino obbligato per arrivare a una conversione?

Sapersi rimettere nelle mani di altri, ecco a cosa si impegnano i religiosi. Ma, accettando di vivere in comunità, scelgono anche un modo particolare per arrivare a Dio. Contrariamente a ciò che si pensa spesso, un percorso del genere «rende molto più fragili di quanto non si pensi». Non è infatti così semplice spogliarsi di certe maschere irrisorie, rinunciare alla soddisfazione immediata di fare del bene agli altri e, soprattutto, non volere ridurre gli altri a sé stessi! Più che la ricerca di un modello di comportamento etico, sociale o politico sia pure in senso lato, nella vita comune si dovrebbe vivere una autentica esperienza di uscita da sé stessi, di itineranza, di esodo vero e proprio.

Nella vita consacrata si parla con fin troppa disinvoltura di fraternità, ritenendola una cosa subito fatta. E, invece, quanto è difficile ammettere che la fraternità è una impegnativa vocazione. Nel cristianesimo non c’è altro modo di essere fratelli che “vivere” da fratelli. La fraternità non ha altro fondamento che Dio stesso. Una comunità non è il frutto di una semplice cooptazione. Non nasce da alcuni legami privilegiati. Nasce prima di tutto da una fede condivisa. Nella comunità religiosa è in gioco l’identità sia di Dio che dell’uomo, del rispetto di ciò che sono l’uno per l’altro. Non ci può essere assolutamente nessuna imposizione morale nella fraternità evangelica. Questa non potrà mai diventare fine a se stessa. Ciò che conta è di essere all’altezza di ciò che si è e insieme di consentire a Dio di essere tale anche nei rapporti umani. Solo a questo prezzo è possibile vivere insieme e alla sua presenza.

Nel mondo dei religiosi, però, è facile scorgervi spesso una specie di fossato e di netta contrapposizione al suo interno. Da una parte ci sono quelli sempre più convinti che più velocemente ci si aprirà alla modernità, più in fretta il progresso riprenderà il suo corso e più velocemente si riempiranno i noviziati. Dall’altra, invece, non mancano quanti pensano di doversi assolutamente liberare da una simile illusione, mettendosi più modestamente all’ascolto degli altri e lasciando risuonare più profondamente in sé stessi questa “alterità”.

 

MISSIONE

E COMUNITÀ

 

Negli anni 1970 molti religiosi hanno scelto, in qualche modo, di “nascondersi”, immettendosi a pieno ritmo in una attività professionale. Questa opzione si è rivelata liberatrice per molti e sicuramente anche portatrice di una grande speranza. Trent’anni dopo, invece, i giovani religiosi non condividono più questo orientamento con lo stesso entusiasmo. Il loro desiderio è sempre di impegnarsi nella  Chiesa e nella società, ma in un altro modo, più associativo e meno ideologico.

Senza contestare la scelta di parlare di Dio attraverso un impegno radicale dei poveri e degli esclusi operata da molti negli anni 1970, i giovani religiosi vorrebbero oggi potersi esprimere e parlare di Dio attraverso un’esperienza spirituale differente. Nella post-modernità si vanno riscoprendo sia la figura del mistico, che quella del profeta. Mentre il mistico spinge gli esclusi e gli oppressi a resistere e a protestare, il profeta presta loro la sua voce per aprirli alla speranza di un futuro.

Ma il problema reale è poi sempre quello di verificare come le diverse contrapposizioni si possano coniugare con la vita comunitaria, in una sempre più complessa opera di discernimento sia della missione comunitaria che di quella personale. Non è possibile oggi un effettivo rinnovamento della vita consacrata e un reale inserimento dei religiosi nella missione della Chiesa e nella vita della società al di fuori di una prospettiva essenzialmente comunitaria.

Affidare a una comunità un impegno apostolico è qualcosa di più e di diverso che decidere la sua installazione in un determinato posto. È indispensabile una preventiva opera di discernimento in cui siano coinvolti il superiore maggiore, il suo consiglio e i religiosi destinati a quella comunità. Affidare una missione comunitaria significa soprattutto indicare una linea di azione generale che tenga conto degli orientamenti capitolari da una parte e della situazione locale concreta dall’altra, puntando decisamente verso “proposte innovatrici evangeliche”.

Prima di “inviare” dei confratelli in un’opera apostolica, è ancora più importante verificare fino a che punto quei confratelli, nel pieno rispetto dell’età, dei gusti, delle capacità di ciascuno condividano o meno le finalità di quell’opera che viene loro richiesta, sia che si tratti di un lavoro professionale, di un impegno associativo o un servizio di volontariato. Bisogna, inoltre, considerare attentamente anche la dimensione economica, dal momento che una comunità non vive di aria. Bisogna, infine, imparare anche a discernere insieme, sotto la responsabilità del superiore locale, gli impegni di ciascun membro della comunità, sperando di poter collocare, come si dice, l’uomo giusto al posto giusto. Ma anche dopo aver rispettato tutte queste preventive condizioni, si impone necessariamente una certa flessibilità di cui tener conto quando ogni anno si dovrebbe rinviare al superiore maggiore il proprio progetto comunitario aggiornato.

Se la comunità, come siamo venuti dicendo, è il luogo dove si impara a diventare insieme fratelli e credenti, se è contemporaneamente il luogo dove ci si esercita a discernere insieme la missione personale e quella comunitaria, va anche ricordata la bella espressione di Benedetto da Norcia, secondo il quale la comunità è prima di tutto «la scuola del servizio del Signore».

Paolo III, nel XVI secolo, concludeva l’atto formale della sua approvazione della Compagnia di Gesù con queste semplici e impegnati parole: «Seguite la vostra vocazione, là dove vi conduce lo Spirito!». Come la comunità cristiana primitiva presentata dagli Atti degli Apostoli, anche la Compagnia di Gesù è così entrata in una dinamica di fondazione al seguito di Cristo e sotto l’azione dello Spirito. Ora proprio questa è la dinamica nella quale dovrebbe entrare ogni istituto religioso.

 

IL “MITO”

DELLE ORIGINI

 

Il Vaticano II, a suo tempo e con molta chiarezza, ha chiesto ai religiosi di ritornare allo spirito delle loro origini e di percorrere con coraggio la via dell’aggiornamento. Questo invito si è rivelato salutare per molti, ma anche sterilizzante per non pochi altri. Invece di guardare sempre in avanti, si sono spesso bloccati gli occhi sul “retrovisore”, col rischio non puramente teorico di “mitizzare” le proprie origini.

Ora, rileggere gli scritti delle origini di un istituto è un’operazione eccellente. Ma questa operazione ha senso «solo se sappiamo comprendere questi scritti come dei testi di  fondazione, non da ripetere pedissequamente, ma da interpretare». La storia serve soprattutto per comprendere il presente. Sono proprio «le emergenze contemporanee e il senso che si attribuisce loro a imporre la ricostruzione del passato e insieme la sua attualizzatine».

È un fatto che ogni generazione avanza la pretesa di disegnare il vero ritratto del proprio fondatore. Tuttavia «più si ha la pretesa di avvicinarsi alle origini, tanto più queste sembrano sfuggire di mano». Non bisogna illudersi più di tanto. Il tempo delle origini non era sicuramente meno complesso di quello attuale. Rispetto al passato, oggi forse, quando serve, sappiamo anche più facilmente distaccarci dal passato, in modo da evidenziare più facilmente la frequente sovrapposizione del chiaro e dello scuro.

Rientra comprensibilmente nei desideri di tutti i religiosi l’esigenza di vivere il Vangelo secondo l’interpretazione del proprio fondatore, di leggere il presente facendo memoria del passato, anticipando l’avvenire nella condivisione di una stessa speranza ed esprimendo la propria identità in una narrazione comune.  Ora se si può parlare, a questo proposito, di un processo di identificazione, va anche precisato che non tutti lo intendono allo stesso modo.

Alcuni, il più delle volte semplicemente per paura, “blindano” la lettura e l’interpretazione dei testi, rinchiudendosi inevitabilmente in una lettura “fondamentalista” dalla quale trarre regole intangibili. Altri, più numerosi, si accostano ai testi di fondazione con più “apertura”, privilegiando la figura del fondatore e più ancora quella del Cristo alla cui sequela si è posto per primo proprio il fondatore stesso. Rifiutando, a buon diritto, ogni fondamentalismo, si dedicano volentieri a una specie di “mimetismo immaginario”, vale a dire: cercano di fare ciò che, secondo loro, oggi il fondatore avrebbe fatto.

Ma esiste anche un terzo modo di procedere, quello proposto da autori come Ricoeur e Beauchamp. Senza rinunciare a un studio serio dei testi, a una presentazione circostanziata del loro autore, ci si rivolge ai lettori stessi, invitandoli non a “mimare” i testi, ma a “interpretarli”, diventando a loro volta – attraverso il gioco della chiusura e dell’apertura dei testi - degli autentici “creatori”, dei veri fondatori.

Vivere insieme il Vangelo come un fondatore, tale è l’impegno che si assumono i religiosi al momento della loro professione.  Questo è anche ciò che dona alle loro comunità una fisionomia singolare, facendone dei “laboratori” dove ci si esercita a diventare fratelli e credenti, a imparare le missioni personali e comunitarie, a mettere in scena in modo innovativo il testamento ricevuto.

 

Angelo Arrighini