RIPERCUSSIONI SULLA VITA FRATERNA

PATOLOGIA E BENESSERE NELLA VC

 

È possibile che nella vita consacrata le persone si lascino trasportare da condizioni di grande inabilità e fragilità psicologica, al punto da perdere di vista il valore della loro consacrazione? Sembrerebbe proprio di sì. La problematica presente anche nel documento La vita fraterna in comunità.

 

La presente riflessione parte dalla considerazione che non basta sottolineare i diversi fattori di incongruenza o di malattia psicologica degli individui, ma occorre che tali difficoltà intrapsichiche siano definite nel contesto comunitario, perché diventino opportunità di crescita per ogni confratello e consorella, in vista del comune obiettivo di essere testimoni dell’amore di Gesù Cristo. In questo modo la vita fraterna può diventare per tutti, anche per chi è più in difficoltà a livello psicologico, «una schola amoris, per giovani e adulti. Una scuola ove si impara ad amare Dio, ad amare i fratelli e le sorelle con cui si vive, ad amare l’umanità bisognosa della misericordia di Dio e della solidarietà fraterna».

 

DISADATTAMENTO

E PATOLOGIA

 

Dal punto di vista funzionale e strutturale, ogni persona ha bisogno di alcuni presupposti di base legati alla costruzione del sé individuale: anzitutto, che abbia una integrità di fondo nella propria storia genetica, in particolare che non ci siano deficit o anomalie particolarmente gravi, legate al proprio sistema ereditario. Inoltre, occorre che le esperienze del suo percorso evolutivo siano state adeguatamente integrate per fronteggiare i bisogni reali, grazie ai diversi stimoli che la persona riceve lungo il processo di crescita, a livello formativo, relazionale, affettivo. Infine, è importante che non ci siano fattori che possono alterare il sistema di personalità dell’individuo sia a livello fisiologico (traumi fisiologici o malattie organiche), che psicologico (traumi psicologici, stress permanente dovuto a condizioni esterne, ecc.), che potrebbero alterare la funzionalità dell’individuo nelle diverse situazioni della sua esistenza. Infine, tale funzionalità è legata al sistema relazionale di riferimento dove la persona è inserita. Sappiamo come nella vita religiosa il sistema relazionale di riferimento, fondamentale per la maturazione e la crescita umana di ciascuno, è quello della comunità.

Se da una parte è importante che la persona consacrata abbia già una maturità psicologica di base, è anche vero che una cordiale e autentica vita fraterna è fondamentale per la maturazione di ogni religioso e religiosa, in special modo per quanti portano con sé delle ferite psicologiche che incidono nel loro comportamento. «Occasione particolare per la crescita umana e la maturità cristiana è la convivenza con persone che soffrono, che non si trovano a loro agio nella comunità, che sono quindi motivo di sofferenza per i fratelli e perturbano la vita comunitaria» (ivi, 38).

Infatti, prendersi carico gli uni degli altri nella comunità religiosa vuol dire coinvolgersi in un cammino di formazione continua anche con chi vive delle difficoltà psicologiche, partecipando insieme a un processo di apprendimento in vista di relazioni sempre più autentiche. In questo modo il fratello che soffre non è solo un problema da risolvere o un paziente designato da curare, ma una persona con cui condividere i doni di una comunione centrata sul modello dell’amore Trinitario, dove c’è spazio per tutti i membri della comunità, in particolare per il «fratello ferito e bisognoso di aiuto» (ivi, 37).

Qualche volta la tentazione di rendere le persone una sorta di capro espiatorio per le proprie difficoltà intrapsichiche risolve il problema del gruppo e aggrava le patologie del singolo. L’esperienza clinica ci insegna che quando alcuni modi di fare individuali coinvolgono la sensibilità del gruppo, possono esserci atteggiamenti aggressivi espliciti e mascherati giustificati da accuse avvallate da comportamenti esterni che oggettivamente disturbano il quieto vivere comunitario. Ciò significa che i “casi difficili” nella vita fraterna possono intrecciarsi con condizioni relazionali conflittuali e ambigue, ed essere fonte di stress e di reazioni disadattive tra le persone.

In altri termini, gli elementi disfunzionali delle dinamiche interpersonali e della struttura organizzativa della vita consacrata, con il tempo possono trasformarsi in vere stimolazioni conflittuali che contribuiscono ad accrescere il disagio dei singoli, in modo particolare di chi ha già delle fragilità psicologiche che si ripercuotono sull’ambiente relazionale in cui la persona è inserita . Prendiamo l’esempio di un confratello che era ben abituato a essere “sempre disponibile” alle diverse necessità pratiche dei membri della sua comunità. Nulla di male in tutto questo. Anzi, esteriormente il suo sembrava essere un atteggiamento lodevole, proprio come si addice a un buon religioso. Se non fosse per il fatto che alla fine delle sue “buone azioni” si avvertiva un senso di frustrazione e di disagio che a volte si manifestava in accuse velate da parte di chi si sentiva estromesso dal suo “buonismo”. Commentando il comportamento degli altri, il religioso lodevole diceva spesso: «a volte i confratelli mi soffocano con le loro continue richieste, quando pretendono che faccia come vogliono loro». E poi aggiungeva: «ma in fondo sono soddisfatto quando posso accontentarli, che è ciò che faccio sempre. Peccato che non siano capaci di apprezzare tutto ciò, ma tanto so che non lo capiranno mai…».

La coscienza estremamente sensibile di questa persona e la sua generosità verso gli altri si coniugavano male con la rigidità e la durezza che egli aveva verso se stesso. Controllava tutto nell’ambiente comunitario, così come controllava se stesso, e si manifestava sempre coerente rispetto alle valutazioni del comportamento altrui, costantemente fondate su canoni di accettazione, comprensione e giustificazione. A lungo andare, però, erano gli altri che si sentivano “soffocati” dal suo stile ossessivo e petulante, con conseguenti tensioni mascherate che progressivamente si sono trasformate in veri conflitti interpersonali, imperniati sul dialogo sottinteso – ma non espresso – tra il gruppo che sembrava dire «non ne possiamo più di te!», e il confratello lodevole che sembrava rispondere «siete proprio degli ingrati». La cosa interessante è che in comunità continuavano a dispensarsi reciprocamente frasi rassicuranti e ringraziamenti “floreali”, sovrapposti però a messaggi inconsapevoli che erano il preludio di incomprensioni e tensioni.

 

ACCOGLIERE LE

DIFFICOLTÀ DEL FRATELLO

 

Semplificando al massimo la classificazione della patologia di una persona che vive un disagio psicologico, possiamo distinguere i disturbi in due grosse categorie :

– i disturbi che incidono in maniera notevole sulla capacità di analisi della realtà da parte della persona e limitano molto la sua autonomia personale; sono i disturbi particolarmente gravi che minano profondamente la struttura della persona e la sua capacità di funzionamento nel contesto interpersonale ed intrapsichico;

– i disturbi di funzionamento che incidono sulla capacità di analisi della realtà e la capacità di autonomia della persona, ma non in maniera grave. Sono i disturbi di tipo nevrotico, con difficoltà di adattamento che possono dipendere sia dalla struttura di personalità dell’individuo ma anche dalle situazioni interpersonali del sistema relazionale in cui egli vive.

In quest’ultimo caso si tratta di disturbi alimentati da conflitti che provocano sentimenti di ansia, di tensione e di impotenza, che si ripercuotono nel modo di relazionarsi del soggetto con il mondo circostante. Quando dinanzi a condizioni difficili la persona non riesce a raggiungere una soluzione realistica, rimane in un grave stato di angoscia, da cui si difende attraverso dei meccanismi nevrotici che, benché allevino l’ansia, interferiscono con il normale funzionamento della persona nella vita comunitaria quotidiana, creando ulteriori problemi a sé e agli altri.

Nella vita consacrata si trovano spesso tali situazioni di disadattamento che possono tramutarsi in vere e proprie condizioni di patologia intrapsichica di tipo cronico. Si tratta dei tanti piccoli “fastidi relazionali”, incomprensioni, gelosie, antipatie, che si riflettono in comportamenti reattivi e disadattivi, quali il senso di persecuzione (“ce l’hanno tutti con me”), il senso di colpa diffuso (“io sono la causa di tutto”), il mutismo (“non parla più con nessuno e non sappiamo il perché”), il catastrofismo (“in questa comunità non c’è nulla che funzioni”), ecc. Sono comportamenti che incidono nella vita delle persone e che possono acuire il disadattamento patologico in quanti già hanno difficoltà o fragilità psichiche.

Perché tali dinamiche tra individuo “difficile” e comunità possano contribuire alla condizione patologica individuale, ci devono essere diversi fattori relativi non solo alla personalità del soggetto ma anche alla struttura del gruppo e della istituzione, quali le incomprensioni tra giovani e adulti, l’assenza di una programmazione comunitaria, l’incompatibilità tra i diversi sistemi di formazione, il disadattamento culturale, l’accentuazione dei valori di ingresso, ecc. Oppure ancora, le rotazioni selvagge, l’alternanza continua nell’assunzione dei ruoli comunitari, tutti elementi che possono incidere sul sistema di personalità dell’individuo e diventare occasione di disadattamento ulteriore.

Per esempio, se una persona abituata a una certa attività viene improvvisamente sollevata dal suo incarico senza adeguate spiegazioni, oppure se viene colpita da una malattia che limita in modo grave la sua autonomia personale, anche se si tratta di una gravità soggettiva, la sua capacità di adattamento viene messa a repentaglio e può assumere comportamenti disfunzionali accompagnati da un senso di impotenza, o da sentimenti di rabbia, sconforto, melanconia, depressione, che si riflettono sul gruppo e vengono da esso alimentati. Se la persona ha già delle difficoltà di integrazione della propria personalità, tali fattori possono diventare altamente disgreganti per sé e portarla a reazioni di tipo patologico.

Con tali premesse, che vedono sia l’individuo sia il gruppo corresponsabili del disagio comunitario, si può parlare di patologia della vita religiosa? Secondo alcuni autori sì, ma non è questo il punto. Non si tratta di verificare quanto malata sia la persona che reagisce in un certo modo ma, con un’ottica propositiva, si tratta piuttosto di riscoprire le continue potenzialità formative della vita comune, anche dinanzi a certi comportamenti anormali, perché le persone imparino ad arricchirsi attraverso interazioni diverse da quelle disfunzionali, più sane e autentiche.

 

DISADATTAMENTO

E FORMAZIONE

 

Quando la persona si trova a vivere condizioni particolarmente pesanti di disagio psicologico e intrapsichico, diventa importante la presenza di un ambiente relazionale propositivo che aiuti tutti a riscoprire le cose di Cristo nella vita comune, anche se a volte la presenza di confratelli in difficoltà rende ciò faticoso e poco gratificante. È anche vero, però, che il lavoro di evangelizzazione reciproca che caratterizza la vita comunitaria diventa tangibile proprio quando è più difficile, perché «indipendentemente dalle varie fasi della vita, ogni età può conoscere situazioni critiche per l’intervento di fattori esterni — cambio di posto o di ufficio, difficoltà nel lavoro o insuccesso apostolico, incomprensione o emarginazione, ecc. — o di fattori più strettamente personali — malattia fisica o psichica, aridità spirituale, lutti, problemi di rapporti interpersonali, forti tentazioni, crisi di fede o di identità, sensazione di insignificanza, e simili. Quando la fedeltà si fa più difficile, bisogna offrire alla persona il sostegno di una maggior fiducia e di un più intenso amore, sia a livello personale che comunitario» .

Tale aiuto permette di riscoprire la freschezza del cammino comune, gioioso non perché senza problemi, ma perché nelle difficoltà le persone possono riscoprire la motivazione profonda che le accomuna ad affrontare i disagi con un cuore diverso, con la consapevolezza che solo l’amore comunitario centrato sulla presenza di Cristo può “guarire” fino in fondo le fragilità umane. In questo modo la presenza del fratello che soffre per le proprie difficoltà psicologiche sarà un’occasione specifica per diventare Schola amoris, per amare secondo la logica del Vangelo, per riscoprire insieme «il senso dell’alleanza che Dio per primo ha stabilito e non intende smentire»(ivi, 70) con ciascuna persona che vive in fraternità.

 

Giuseppe Crea

1 La vita fraterna in comunità, 25.

2 Crea G. – Mastrofini F., Animare i gruppi e costruire la comunità, Edizioni Dehoniane, Bologna 2004.

3 Pinkus L. Divagazioni sul tema del… curare la psiche, in: «Riv. It. di Analisi Transazionale e Metodologie Psicoterapeutiche», 8 (1988) 14, 3-12.

4 Vita consecrata, 70.