FORMAZIONE ALLA MISSIONE

BISOGNA IMPARARE AD AMARE

 

Tra missione e consacrazione religiosa non ci sono tensioni né opposizione, perché l’una e l’altra si richiamano a vicenda in un rinforzo benefico. Questo è l’impegno dei giovani in una VC all’altezza del Vangelo nella modernità.

 

Alla luce della nuova evangelizzazione, ci sembra importante continuare a mettere l’accento sulla necessità di tenere sempre strettamente collegate la vocazione dei giovani consacrati alle sfide della storia, allo scopo di ricercare gli itinerari migliori verso la statura missionaria dei fondatori. Ancora una volta ci aiuta il padre generale dei missionari della Consolata, p. Piero Trabucco (Bollettino Imc, 109/2005), che così intende rispondere all’esplicita richiesta dei novizi d’Europa prima della scadenza del suo mandato.

 

IL PRIMATO

DEL SERVITIUM DEI

 

Rifacendosi a questa espressione di san Benedetto, egli imposta le sue riflessioni a partire dal primato di Dio, sorgente ed energia della VC: «I meno giovani di voi ricordano senza dubbio il fascino che esercitava, alcuni anni addietro, il costante martellamento sui valori sociali e su certe opzioni che, si pensava, potessero dare una svolta ai nostri istituti e diventare fermento di vita nuova per tutta la Chiesa. Andava allora di moda il modello di vita religiosa che alcuni chiamavano “liberale” per opporlo a quello “tradizionale” e i cui slogan più ricorrenti suonavano pressappoco così: la nostra preghiera è l’impegno sociale; ciò che conta è inserirsi in mezzo alla gente e incarnarsi nel loro mondo; la forza della nostra fede è proporzionata alla nostra apertura ai poveri… Nessuno può negare il margine di generosità e di altruismo presente in quei tentativi di sperimentare una vita religiosa e missionaria diversa. Tuttavia si poté ben presto constatare come quei generosi tentativi di rinnovamento, rivolti principalmente all’impegno, portassero sovente le persone consacrate a privarsi dei necessari momenti di contemplazione e a dare scarsa considerazione ai cammini di fede in una pedagogia di crescita globale del religioso. Mentre tutta l’attenzione era proiettata verso il servizio al fratello, il servizio di Dio si trovò relegato ai margini della loro vita».

Queste radicalizzazioni sono andate attenuandosi ed è chiaro per tutti che quanto più l’individuo cresce nella donazione all’altro, tanto più deve restare fedele nel suo servizio a Dio con espressioni significative e ricche. «Permettetemi, continua il padre, che vi dica con forza e molta convinzione: rendete la dimensione contemplativa un elemento assodato nella vostra vita, mantenetevi sempre alla scuola della preghiera, curate molto la meditazione e la lectio divina». Dopo Dio, la missione è il dono più prezioso che la vocazione riserva ai consacrati. I modi di questa missione possono essere riassunti in quel triplice “ad” a cui ogni missionario della Consolata dovrà dare il pieno assenso prima di emettere i voti: ad gentes (esige la disponibilità ad andare dovunque l’istituto manda, preferibilmente tra i non cristiani); ad extra (chiamati per essere inviati significa uscire dalla propria terra o cultura per andare verso altre terre, culture e popoli); ad vitam (la vocazione missionaria, nelle due caratteristiche richiamate, dura sempre). Tra missione e consacrazione religiosa dunque non devono esserci tensioni e tanto meno opposizione, perché l’una e l’altra si attirano vicendevolmente e ne ricevono mutuo beneficio. Ecco il senso del richiamo ad alcuni aspetti della “sequela di Gesù”: «La spiritualità della sequela ha come base una fede radicale in Gesù di Nazaret, quale rivelazione piena di Dio e sua offerta definitiva per la salvezza della umanità. Tale spiritualità ci insegna a dare un’attenzione particolare all’Eucaristia e alla parola di Dio e a mettere proprio lui, Gesù di Nazaret, al centro di tutta la nostra vita. La sequela spinge inoltre a lasciarsi animare dallo Spirito stesso di Gesù. Uno Spirito che ci porta al Tabor, alla contemplazione prolungata del volto del Padre, e che fa crescere in noi allo stesso tempo l’attenzione ai poveri e agli ultimi, che sono i primi nel Regno che lui ha annunciato».

 

L’EQUIPAGGIAMENTO

PER ESSERE FELICI

 

Dopo aver richiamato queste fondamenta, p.Trabucco identifica alcuni tratti necessari per crescere gioiosamente nella missione. Partendo dal fatto che, tra i missionari sul campo di lavoro, si riscontra poca propensione alla lettura costante e a una formazione fuori dell’ambito accademico, egli afferma: «Vediamo da una parte molti missionari che, trovandosi coinvolti in un lavoro sempre più esigente e a volte stressante, sembrano concedere sempre meno spazio allo studio e meno tempo alla riflessione. Altri confessano di non essere spronati allo studio a causa dell’appiattimento culturale in molti paesi di missione e per le scarse iniziative di riflessione teologica delle chiese locali in cui svolgono la loro azione apostolica, con il conseguente impoverimento culturale e di riflessione… Allora mi vengono spontanei alcuni interrogativi: quali motivi spingono i missionari a chiedere di proseguire i loro studi per accedere a titoli accademici, quando a loro volta sono poco propensi alla lettura e allo studio? Perché sono pochi coloro che, al termine dei dieci anni di formazione di base, hanno maturato una disposizione alla lettura che li aiuti a qualificare la loro vita e l’attività missionaria senza dovere ritornare, dopo breve tempo, sui banchi di scuola?».

Accanto alla cura dell’autoformazione mette poi il continuo discernimento degli pseudo-valori che corrodono i voti e che vanno affrontati per non correre invano. In particolare si sottolinea la tentazione del “vantaggio personale”. «Quando abbiamo detto il nostro “sì” al Signore che ci chiamava, eravamo coscienti della radicalità della vocazione. Nelle sue mani abbiamo posto tutto noi stessi, tutta la nostra vita. Cammin facendo, può nascere in noi il desiderio di riappropriarci nuovamente di quanto generosamente avevamo dato, facendo sempre più spazio in noi alla “autorealizzazione” e a quel “narcisismo” che non ci permettono più di essere oblativi. Inoltre, sebbene continuiamo a coltivare la relazione con Dio, la possiamo però segregare ai margini della nostra vita fino al punto che Dio ha ben poco da dire sulle attività che svolgiamo. Anche la stessa consacrazione può correre il pericolo di non essere più vissuta nella logica della croce, ma piuttosto come ricerca di interessi e vantaggi personali, quali un maggiore benessere, il potere, il plauso altrui, la tranquillità o una carriera accademica, alcuni vantaggi a favore della propria famiglia».

Andando più in profondità, occorre la coscienza che, per poter rispondere a qualsiasi vocazione, una persona deve imparare ad amare. «Se manca questa capacità, l’individuo programma la sua vita solo sulla base di desideri e di idee che gli possono fornire un certo aiuto, ma non costituiscono mai la base necessaria per vivere gioiosamente e bene la propria vocazione. L’impegno nell’intraprendere decisamente e onestamente questa dimensione formativa ha un’importanza capitale. L’esperienza nell’affrontare situazioni di crisi dei missionari conferma il dato di fatto che troppo sovente, durante gli anni della formazione di base, la formazione affettiva del giovane è stata sottovalutata, complici forse i falsi pudori e i silenzi deleteri». Tra gli ostacoli che un giovane deve superare nell’affrontare in maniera seria la formazione affettiva vanno mese certe reticenze culturali nell’affrontare il tema della sessualità (rendono le persone poco propense a prendere in mano con serietà la loro maturazione affettiva) e la difficoltà della persona ad entrare nel profondo di se stessa (piuttosto che sottoporsi a tale “operazione chirurgica” nell’io profondo, l’individuo preferisce fuggire o nascondere le proprie debolezze).

Ma c’è bisogno anche di una revisione del proprio stile di vita: «noi possiamo lanciare messaggi credibili solamente se mostriamo di essere persone libere dallo spirito consumista, dalla corsa per accaparrare sempre più cose, che sanno resistere al puro istinto di soddisfare i propri capricci. Questa libertà personale di fronte alle cose, il coraggio di fare a meno di ciò che non ci è necessario, il desiderio di giungere ad una maggiore coerenza di vita, sono il punto di partenza obbligato per giungere ai poveri». Come per il sacerdote e il levita descritti nella parabola del Samaritano, c’è il rischio di ignorare i poveri o di non aver tempo per loro. «Eppure l’attenzione e l’amore al povero sono la nostra carta d’identità e la nostra migliore qualifica missionaria. Un missionario lontano dai poveri è un controsenso. Solo avvicinandoci a loro, costruiamo sulla roccia il nostro futuro e quello dell’istituto e poniamo motivazioni forti ed evangeliche alla nostra vocazione. E i poveri stessi ci daranno il gusto dell’annuncio evangelico, ci insegneranno il senso della solidarietà e della gratuità, ci renderanno più ecumenici e universali». Così non possiamo abituarci ai drammi dell’umanità che i mezzi di comunicazione quotidianamente mettono davanti ai nostri occhi. Dobbiamo cercare di conoscerli per poterli dibattere e approfondire. Noi non abbiamo le ricette a tanti e tali problemi. Eppure non si vive senza cercare soluzioni. Non si vive senza sognare in grande, particolarmente quando si è giovani. E il sogno del missionario è un mondo più giusto, più solidale e fraterno.

Proprio nella semplice quotidianità, la vita consacrata cresce in progressiva maturazione per diventare annuncio di un modo di vivere alternativo a quello del mondo e della cultura dominante. E la nostra quotidianità che esiste ovunque e a ogni età (la routine, la ripetizione, la semplicità delle azioni) va vissuta con lo spirito dei trent’anni di Gesù a Nazaret, coscienti che in quel modo costruiamo il regno di Dio. Dare valore aogni azione, anche piccola, a ogni incontro con la gente comune tra cui viviamo, accettando di “perdere tempo” donandoci agli altri e servendoli. Questo è lo spirito di quella «carità “monotona” da usarsi con coloro che il Signore mette al nostro fianco. Ricordiamo sempre che è Dio che ci dona i “fratelli” con cui dobbiamo vivere la missione e santificarci. E facile amare i “lontani”, è invece molto più difficile amare le persone con cui condividiamo la vita di ogni giorno». In questa quotidianità si impara a praticare una povertà che ci priva anche della capacità di essere noi a decidere i nostri progetti, i nostri piani, i mezzi da utilizzare, le persone con cui collaborare. Per i discepoli di Gesù, la povertà è anche la disponibilità ad accettare i limiti dell’ambiente in cui viviamo, la scarsità di tanti beni, le scomodità, la preziosità delle mediazioni umane ( la comunità e coloro che hanno il compito di guidarci).

L’augurio del padre generale mette insieme libertà e felicità: «La libertà è condizione indispensabile per essere discepoli del maestro di Nazaret. Puntate sempre all’essenziale, e di questo equipaggiatevi bene. E siate felici perché non c’è vocazione che possa maggiormente permettervi di esserlo!».

 

a cura di Mario Chiaro