INIZIATO IL PONTIFICATO DI BENEDETTO XVI

UN NOME UN PROGRAMMA

 

Sono già abbastanza chiare le linee programmatiche che il papa intende seguire. Esse si pongono in continuità con l’azione di Giovanni Paolo II e avranno come riferimento il concilio. Gli farà da stimolo il motto Duc in altum, verso orizzonti sempre più ampi della Chiesa missionaria.

 

In Germania l’avevano definito – ma non chi lo conosceva da vicino – un Panzerkardinal, un cardinale “carro armato”, una specie di “schiacciasassi”. In realtà Joseph Ratzinger, ora Benedetto XVI, si è presentato alla Chiesa e al mondo come un uomo mite, quasi timido – che non vuol dire intimidito – o meglio, come egli stesso ha detto dalla loggia della basilica di San Pietro subito dopo la sua elezione, come un semplice umile servitore del Signore, bisognoso di essere aiutato e sostenuto dal consiglio e dalle preghiere di tutti.

Ci pare che questo sia un tratto della sua personalità non trascurabile perché ci aiuta a conoscere, al di là di ogni cliché, quale sarà il suo stile e insieme quali le “sicurezze” su cui poggerà la sua attività apostolica: non le sue capacità, che sono tante, ma Cristo.

Fin dalle prime parole non ha avuto paura di confessare la sua trepidazione e la sua “debolezza” umana di fronte al compito enorme che gli è stato affidato. Ha detto di aver avvertito «un senso di inadeguatezza e di umano turbamento», ma di aver sentito anche la mano forte di Giovanni Paolo II che stringeva la sua, di aver visto i suoi occhi sorridenti e di aver ascoltato le sue rassicuranti parole: «Non aver paura!”.

Ha nuovamente accennato a questa sua trepidazione, il 24 aprile, durante la messa per la consegna del pallio e dell’anello del pescatore: «In questo momento – ha affermato – io debole servitore di Dio devo assumere un compito che realmente supera ogni capacità umana». E si è chiesto: «Come posso fare questo? Come sarò in grado di farlo?». E di nuovo nell’udienza concessa il 25 aprile ai pellegrini venuti dalla Germania ai quali ha confessato: «Quando poco alla volta l’andamento delle votazioni (in conclave) mi hanno fatto capire che, per così dire, la mannaia sarebbe caduta su di me, mi sono come sentito venire le vertigini... Ho detto al Signore con profonda convinzione: Non fare questo. Tu hai delle persone più giovani e migliori che possono assumere questo grande compito con tutt’altro slancio e tutt’altra energia...».

Ma ecco la sua sicurezza, che trova il fondamento nella fede: «Se è enorme il peso della responsabilità che si riversa sulle mie povere spalle, è certamente smisurata la potenza divina su cui posso contare: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. Scegliendomi quale vescovo di Roma, il Signore mi ha voluto suo vicario, mi ha voluto “pietra” su cui tutti possano poggiare con sicurezza». E ha aggiunto: «Non sono solo. Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta, e la vostra preghiera, cari amici...». Inoltre, ha detto di poter contare sulla «generosa collaborazione» dei cardinali ai quali ha chiesto: «Non fatemi mai mancare questo vostro sostegno». E soprattutto di fare affidamento sulla preghiera di tutta la Chiesa. «Cari amici, ha detto nell’omelia in occasione della consegna del pallio, in questo momento io posso dire soltanto: pregate per me perché io impari sempre ad amare il Signore. Pregate per me, perché io impari a amare sempre più il gregge... Pregate per me perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi. Preghiamo gli uni per gli altri, perché il Signore ci porti e noi impariamo a portarci gli uni gli altri».

 

PERCHÉ IL NOME

DI BENEDETTO?

 

Le ragioni per cui il papa ha scelto il nome di Benedetto sono state spiegate da lui stesso nel corso dell’udienza generale – la prima del suo pontificato – il 27 aprile.

La prima, perché ha voluto riallacciarsi idealmente a Benedetto XV (1914-1922), il quale «fu coraggioso e autentico profeta di pace e si adoperò con strenuo coraggio dapprima per evitare il dramma della guerra per poi limitarne le conseguenze nefaste. Sulle sue orme desidero porre il mio ministero a servizio della riconciliazione e dell’armonia tra gli uomini e i popoli...».

La seconda, perché il nome di Benedetto evoca la straordinaria figura del grande “patriarca del monachesimo occidentale”, san Benedetto di Norcia  e perché la sua figura «costituisce un punto di riferimento per l’unità dell’Europa e un forte richiamo alle irrinunciabili radici della sua cultura e della sua civiltà».

Della Regola di san Benedetto inoltre ha fatto suo il motto –  che è anch’esso un programma: “Nulla assolutamente antepongano a Cristo” (Regola 72,11). Perciò, ha sottolineato, «Cristo sia sempre al primo posto nei nostri pensieri e in ogni nostra attività».

Da questi accenni già si può intravedere come la prima preoccupazione di Benedetto XVI – e questo è il primo punto del suo “programma” di governo, come ha detto nella messa per la consegna del pallio – è «di non fare la mia volontà, di non perseguire  mie idee, ma di mettermi in ascolto con tutta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da lui, cosicché sia egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia».

Per questo, il primo sostegno che si aspetta è la preghiera. E la preghiera è anche la prima forma di impegno e di testimonianza che egli si aspetta dalla Chiesa. Citando le parole di Giovanni Paolo II ha detto: «Le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche scuole di preghiera, dove l’incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazioni di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino a un vero invaghimento del cuore» (prima udienza generale).

 

COME “BUSSOLA”

IL CONCILIO

 

Sull’importanza della preghiera è ritornato anche nell’incontro con i rappresentanti delle chiese e comunità cristiane e di altre religioni non cristiane, nella convinzione che è questa la base per ogni incontro e di ogni forma di dialogo: «Chiedo a voi tutti – ha dichiarato – di dare insieme con me un esempio di quell’ecumenismo spirituale che nella preghiera realizza senza ostacoli la nostra comunione» (25 aprile). E a noi religiosi/e ha chiesto, prima ancora del nostro fare, «di essere testimoni della trasfigurante presenza di Cristo».

Avrà certamente colpito l’insistenza con cui egli ricorda e cita, quasi in ogni discorso, Giovanni Paolo II. Non si tratta solo di un debito di riconoscenza , ma di una precisa volontà di raccoglierne l’eredità e di proseguire sul cammino da lui tracciato. Come è stato per Giovanni Paolo II, la “bussola” che gli farà da orientamento sarà il concilio. «Anch’io, ha affermato nel messaggio ai cardinali nella cappella Sistina, nell’accingermi al servizio che è proprio del successore di Pietro, voglio affermare con forza la decisa volontà di proseguire nell’impegno di attuazione del concilio Vaticano II, sulla scia dei miei predecessori e in fedele continuità con la bimillenaria tradizione della Chiesa...» In effetti, «col passare degli anni, i documenti conciliari non hanno perso di attualità; i loro insegnamenti si rivelano anzi particolarmente pertinenti in rapporto alle nuove istanze della Chiesa e della presente società globalizzata».

Con queste affermazioni pare siano destinate a rimanere velleitarie le richieste di un nuovo concilio ecumenico ipotizzate qua e là da alcuni (cf. Testimoni 8). Sarà invece sua preoccupazione di dare maggiore incremento alla “collegialità”, attraverso forme da sperimentare e che certamente saranno poste allo studio. Ne ha accennato lui stesso nel messaggio ai cardinali. Dopo aver chiesto loro di sostenerlo con la preghiera «e con la costante, attiva e sapiente collaborazione», ha affermato: «Come Pietro e gli altri apostoli costituirono un unico collegio apostolico, così   oggi il successore di Pietro e i vescovi, successori degli Apostoli, devono essere tra loro strettamente uniti... Questa comunione collegiale, pur nella diversità dei ruoli e delle funzioni del romano pontefice e dei vescovi, è a servizio della Chiesa e dell’unità nella fede, dalla quale dipende in  notevole misura l’efficacia dell’azione evangelizzatrice nel mondo contemporaneo. Su questo sentiero, pertanto, sul quale hanno avanzato i miei venerati predecessori, intendo proseguire anch’io, unicamente preoccupato di proclamare al mondo la presenza viva della Chiesa».

 

MOLTE PECORE

DISPERSE

 

Benedetto XVI sarà certamente anche un papa “missionario”, probabilmente non nel senso che intende compiere un gran numero di viaggi, come Giovanni Paolo II, ma  nel senso che l’evangelizzazione sarà al vertice di tutta la sua azione apostolica. Egli ha infatti iniziato il suo mandato all’insegna dell’invito di Gesù, fatto proprio anche da Giovanni Paolo II:  Duc in altum. Bisogna andare al largo e gettare le reti. Come Giovanni Paolo II è stato un papa missionario, così, ha affermato, «voglia il Signore alimentare anche in me un simile amore perché non mi dia pace di fronte alle urgenze dell’annuncio evangelico nel mondo d’oggi» (Omelia in san Paolo fuori le mura, 25 aprile).

Per spiegare meglio il senso di questa sua volontà si è servito delle due immagini del pastore e della pesca miracolosa, su cui si è soffermato a lungo nella messa per la consegna del pallio e dell’anello di pescatore (24 aprile). Il buon pastore, ha affermato, va alla ricerca della pecorella che si è smarrita nel deserto. Egli si mette in cammino per condurre questa pecora –  o meglio l’umanità – fuori da questo deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio. Il pallio è il simbolo della missione del pastore, al quale «non è indifferente che tante persone vadano nel deserto». Quale deserto? «Vi sono tante forme di deserto: vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento della dignità e del cammino dell’uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti esteriori sono diventati così ampi... La Chiesa nel suo insieme, e i pastori in essa, come Cristo, devono mettersi in cammino, per condurre fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso colui che ci dona la vita, la vita in pienezza».

E nella figura dell’agnello ha individuato lo stile pastorale che intende adottare: non quello del potere, ma dell’amore. Infatti «non è il potere che redime, ma l’amore!... Il Dio, che è diventato agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini».

Il primo aiuto che la Chiesa intende dare a questo mondo, ha sottolineato, consiste nel «far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce ma quella di Cristo». Rientra in questa luce anche la «disponibilità a cooperare per un autentico sviluppo sociale, rispettoso della dignità di ogni essere umano» e per la pace e l’unità di tutta la famiglia umana.

 

UNA RETE

STRAPPATA

 

Nell’immagine dell’anello del pescatore ha indicato l’altro aspetto della sua missione: il servizio all’unità della Chiesa. Riferendosi all’episodio evangelico della rete gettata per la pesca, in cui gli apostoli avevano preso una grande quantità di pesci e la rete non si era rotta, con una chiara allusione alla divisione tra i cristiani, ha detto: «Ahimé, amato Signore, essa ora si è strappata, vorremmo dire addolorati!». Ma, ha aggiunto: «Rallegriamoci per la tua promessa. Facciamo tutto il possibile per percorrere la via verso l’unità, che tu hai promesso. Facciamo memoria di essa nella preghiera, come mendicanti; sì, Signore, ricordati di quanto hai promesso. Fa’ che siamo un solo pastore e un solo gregge! Non permettere che la tua rete si strappi e aiutaci a essere servitori dell’unità!».

Nel citato messaggio ai cardinali egli aveva accennato al problema dell’unità definendolo un impegno primario del suo pontificato: «L’attuale successore di Pietro si assume come impegno primario quello di lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione piena  e visibile dell’unità di tutti i seguaci di Cristo. Questa è la sua ambizione, questo è il suo impellente dovere». Indicando quindi le condizioni perché il cammino ecumenico sia proficuo, ha sottolineato la necessità della conversione interiore «presupposto di ogni progresso sulla via dell’ecumenismo», quindi il dialogo teologico e l’approfondimento delle motivazioni storiche di scelte avvenute nel passato. Inoltre la “purificazione della memoria” «che sola può disporre gli animi ad accogliere la piena verità su Cristo». Ha ribadito di voler «coltivare ogni iniziativa che possa apparire opportuna per promuovere i contatti e l’intesa con i rappresentanti delle diverse chiese e comunità ecclesiali».

Lo ha ripetuto anche davanti ai rappresentanti delle altre chiese nell’incontro del 25 aprile: «Sento fortemente il bisogno di affermare di nuovo l’impegno irreversibile, preso dal concilio Vaticano II e proseguito nel corso degli ultimi anni grazie all’azione del Consiglio pontificio per la promozione dell’unità».

Nello stesso incontro ha espresso anche la volontà di voler dialogare con le altre religioni non cristiane, con gli ebrei, i musulmani... e le diverse culture, con l’unico desiderio di  continuare a costruire «ponti di solidarietà per cercare il vero bene di ciascuna persona e della società in quanto tale».

Un dialogo, ha sottolineato, oggi indispensabile,  in un mondo segnato da conflitti, da violenza e da guerre. E se la pace è un dono di Dio, essa è anche un impegno che riguarda tutti, specialmente coloro che professano di appartenere a delle tradizioni religiose: «È pertanto doveroso che ci impegniamo in un dialogo autentico e sincero, basato sul rispetto della dignità di ogni persona umana, creata, come noi cristiani fermamente crediamo, a immagine e somiglianza di Dio». Perciò, ha affermato, «rivolgo a tutti voi e a tutti i credenti delle tradizioni religiose... un forte invito a diventare insieme artefici di pace, in un reciproco impegno di comprensione, di rispetto e di amore».

 

Quello che gli è stato affidato è veramente, per usare le sue parole, «un compito inaudito». Per questo, oltre che sulle preghiere e l’aiuto di tutta la Chiesa, ha dichiarato di fare grande affidamento sui giovani. Nel discorso del 25 aprile ai pellegrini venuti dalla Germania, sfatando un luogo comune, ha detto: «Non è affatto vero che la gioventù pensa soprattutto ai consumi e al piacere. Non è vero che è materialista ed egoista. È vero il contrario: la gioventù vuole cose grandi. Vuole che si metta fine all’ingiustizia, che siano vinte le disuguaglianze e che tutti abbiano la loro parte ai beni del mondo. Vuole che gli oppressi ottengano la libertà. La gioventù vuole cose grandi, vuole il bene». Per questo, ha aggiunto, «io ho fiducia nel Signore e ho fiducia anche in voi...».

Al di là delle linee programmatiche, delineate in questi suoi primi interventi, sono piaciuti a tutti anche la sua serenità e il suo ottimismo. Di fronte a un certo pessimismo diffuso anche nelle comunità cristiane, nell’omelia in piazza San Pietro il 24 aprile, ha esclamato: «Sì, la Chiesa è viva... la Chiesa è giovane: essa porta in sé il futuro del mondo e perciò mostra a ciascuno di noi la via verso il futuro». E anche nel discorso ai giovani tedeschi: «La Chiesa non è affatto vecchia e immobile. No, essa è giovane». Di qui il rinnovato invito, che è un annuncio di speranza: «Non abbiate paura di Cristo: egli non toglie nulla e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo, e troverete la vera vita».

 

A. Dall’Osto