UN IMPERATIVO DEI NOSTRI TEMPI
QUALE SPIRITUALITÀ PER IL DIALOGO?
Il dialogo,
oggi, è un’urgenza alla quale nessun uomo può sottrarsi senza gravi conseguenze
che toccano sia l’equilibrio psico-fisico-spirituale
dell’individuo, sia la vitalità della realtà comunitaria. Spazio e significato
del dialogo nella vita consacrata.
È finito una volta per sempre il tempo in cui potevamo
chiuderci nel “privato” personale, collettivo, nazionale, confessionale,
religioso… Siamo di fatto cittadini del mondo. La globalizzazione è lo spazio
inevitabile in cui siamo costretti, volenti o nolenti, a respirare. La nostra
speranza di vita sono gli orizzonti sempre nuovi che ci si aprono davanti.
Si tratta degli orizzonti più diversi che possiamo
esemplificare come geografici: lo tsunami dell’oceano
indiano lo abbiamo seguito come se si fosse riversato sulle nostre spiagge;
antropologici: il dibattito, tuttora in corso sulle tante tecniche di
ingegneria genetica, ci costringe a non ignorare più i risultati di un
laboratorio universitario lontanissimo come la Corea del sud; religiosi: non
possiamo restare estranei a conflitti e riconciliazioni possibili nel vicino
oriente, in India o in Indonesia, fra sunniti e
sciiti, fra indù e islamici, fra islamici e cristiani.
Tutto questo, e molto altro ancora, ci raggiunge in tempo
reale, con la velocità della luce, e diventa inevitabile provocazione per noi.
Non riusciamo più a far finta di non sapere, di non vedere, di non udire.
Non si riflette però abbastanza sul fatto che questa
universale interconnessione fisica, antropologica, religiosa è simultaneamente
carica di domande e di risposte talmente veloci da finire in un feedback
continuo e automatico, apparentemente ingestibile dall’uomo, da qualunque uomo.
La cibernetica è una realtà oggettiva sperimentabile da
tutti in moltissimi ambiti. Il succedersi velocissimo delle immagini proiettate
da un film o dai gesti altrettanto veloci di un prestigiatore, non lasciano
all’osservatore la possibilità di seguire la scena col tempo necessario alla
sua elaborazione personale, costringendolo a farsi prendere letteralmente “per
il naso” dall’illusione, con conseguenze anche profondissime che raggiungono le
regioni subliminali della persona, sollecitando adesioni che la corteccia
cerebrale umana sembra non avere il tempo di analizzare. Le vittime di questo
eccesso di velocità si contano a miliardi, soprattutto nell’ambito della
politica locale o internazionale.
In realtà, noi tutti facciamo parte, nostro malgrado, del
numero enorme di tantissima povera gente “presa per il naso” dalla velocità.
Il Dialogo
necessario
Non credo che si possa parlare di “dialogo”, e tanto meno di
“spiritualità” supposta dal dialogo, se non si parte dal dato di fatto al quale
ho appena accennato. E aggiungo che oggi il dialogo non è più una scelta, ma
una necessità. Il dialogo è un’urgenza alla quale nessun uomo, oggi, può
pensare di sottrarsi e, tanto meno, di farlo impunemente, senza conseguenze
gravi che toccano sia l’equilibrio psico-fisico-spirituale
dell’individuo, sia la vitalità di una qualsiasi realtà comunitaria.
Siamo tutti immersi nel dia del logos o, meglio, dei logoi. E il dia è una preposizione della lingua greca che
indica lo stare in mezzo tra due o più cose, persone, realtà. Il che significa,
nel nostro caso, che il nostro essere uomini oggi, in questo nostro mondo,
comporta necessariamente uno stare in mezzo, obbligati cioè, che lo si voglia o
no, a stare al gioco. È caduta una volta per sempre, la pretesa assurda di
restare isolati nella cosiddetta torre d’avorio della propria solitaria
autosufficienza e intangibilità. Neppure le monache di clausura sfuggono a
questo dato di fatto.
In tutto questo, anzi, a causa di tutto questo è però nata
anche una possibilità provvidenzialmente nuova, perché si è simultaneamente
reso più credibile – e questa è la bella notizia che dovrebbe entusiasmarci in
quanto cristiani – l’annunzio con cui ha avuto inizio il Nuovo Testamento: logoQ sarj egeneto,
oppure nell’espressione italiana: “Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua
tenda in mezzo a noi”.
Potremmo individuare in questo il punto di partenza solido
di una spiritualità che prenda coscienza di una cosa semplicissima e insieme
determinante della fede cristiana: l’admirabile commercium, che possiamo tradurre anche “scambio dialogico
integrale, fino all’unione fisica”, fra il cielo e la terra, fra Dio e l’uomo,
manifestato, realizzato, nel mondo, grazie all’evento inaudito del “Verbo fatto
carne”.
“Il Verbo si è fatto uomo ed è venuto ad abitare in mezzo a
noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come dell’unico Figlio che
viene dal Padre, pieno di grazia e di verità (Gv
1,14). Dio nessuno lo ha mai visto: l’unico Figlio, che è Dio, ed è in seno al
Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,16-18).
“Figlio e uomo, il Cristo può veramente parlare di cose che sa, quelle di Dio
come quelle dell’uomo”, rivelandosi come la personificazione stessa del
dialogo. Farsi uomo è in effetti la via che la Parola fatta carne, ha scelto
per parlarci di Dio. Da sempre con il Padre, la Parola è entrata nella storia
umana facendosi uomo, capace di condividere la fatica e le domande di tutti (cf. la nota della Nuova Traduzione CEI a Gv 1,14).
GESÙ È TUTTO INTERO DIA LOGO
La contemplazione di questo novum et inauditum, parte integrante
ormai dell’esperienza umana, ha generato una provocazione impossibile da
ignorare. Si tratta infatti di un evento che – a partire dalla testimonianza e
dalla voce di Giovanni il battezzatore – ha messo in movimento il mondo, grazie
alla manifestazione inaudita di un amore che ha condotto l’amante a preferire a
tal punto il dialogo e l’intimità col suo partner, da lasciarsi appendere a una
croce. Il sussurro partito dal fruscio dell’ala della colomba, posatasi su Gesù
di Nazareth al Giordano, è divenuto così vento impetuoso che scuote le
montagne, terremoto potente rumoroso come un tuono. Scrive l’autore degli Atti
degli Apostoli. “Venne all’improvviso dal cielo un suono, come di vento che si
abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove stavano” (2,2). Una specie di
big bang, di un nuovo inizio del mondo e della storia, ma soprattutto il
ripetersi di quella parola primordiale di cui parlava il libro della Genesi
quando, intercettando la voce dello “Spirito di Dio (che) si librava sulle
acque” caotiche primordiali (Gen 1,2), decifrò la
parola di colui che disse: “Sia la luce”. E la luce fu (Gen
1,3).
Ebbe inizio così il dialogo per eccellenza, al quale ogni
altro dialogo avrebbe dovuto fare, da lì in poi, riferimento. Un dialogo che si
presenta subito come condivisione evidente e simultanea di un rapporto che è
insieme segno efficace di un legame nuovo della terra col cielo e scambio di
parole finalmente comprensibili fra gli esseri umani sulla terra.
Proseguono gli Atti degli Apostoli: “Apparvero loro lingue
come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti
furono pieni di Spirito santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo
Spirito dava loro il potere di esprimersi” (2,3-4).
LA CHIESA
NASCE DAL DIALOGO
L’inizio della Chiesa parte con assoluta evidenza dal
dialogo: dialogo impetuoso provocato dal Cielo sulla terra che mette in moto,
anzi in qualche modo “impone”, la comunicazione fra gli uomini.
Si tratta però di un dialogo assai misterioso non solo
perché chi dà inizio al dialogo appartiene al Cielo, ma anche perché colui che
ha reso possibile il discorso dialogico è la stessa realtà celeste, chiamata
Spirito che, rimanendo su ciascuno di loro, dava loro il potere di esprimersi e
di farsi capire (cf. vv.
3-4). Ne consegue che non possa darsi mai dialogo vero senza un’accoglienza
generosa del dono dello Spirito santo.
La misteriosità di un simile dialogo genera inevitabilmente
meraviglia e stupore. Constatano gli Atti degli Apostoli: “A quel rumore, la
folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li udiva parlare nella
propria lingua. Erano stupefatti e, fuori di sé, per la meraviglia dicevano: “E
come mai ciascuno di noi (li) sente parlare nella propria lingua nativa?””
(2,6-8).
Stupirsi dell’altro, meglio, lasciarsi stupire dall’altro, è
il presupposto indispensabile di ogni vero dialogo. E spesso dentro questo
stupore si nasconde la rivelazione di una consonanza, di una familiarità, di
una intimità imprevista, che solo quel determinato incontro, vero e proprio
evento provvidenziale, ha potuto misteriosamente determinare.
Lo stupore è di fatto la prima reazione, quella più
naturale, che sperimentiamo tutti – soprattutto se stranieri o estranei – se
qualcuno si accorge di noi e ci rivolge addirittura la parola nella nostra
lingua materna.
Una simile esperienza ha qualcosa in comune con lo stupore
ineffabile che sperimentò Adamo, il primo uomo, alla vista di Eva postagli di
fronte dal Signore come “aiuto che gli fosse simile” (Gen
2,22) strappandogli così la prima parola umana che si conosca al mondo: “essa è
carne della mia carne e osso delle mie ossa” (Gen
2,23).
Un accostamento che impone di andare oltre il semplice
stupore per aprirsi al riconoscimento nell’altro/a di un’identità e di
un’appartenenza che si fondono e si richiamano a vicenda nell’alternarsi
misterioso di unicità, distacco e comunione che segnerà, da quel momento in
poi, ogni rapporto umano e dunque ogni dialogo.
Aveva concluso Adamo: “La si chiamerà donna, perché
dall’uomo è stata tolta” (col gioco di parole ebraiche intraducibile in
italiano: ishshá – ish).
Cui il commento dell’autore biblico aggiunge: “Per questo l’uomo abbandonerà
suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen 2,24).
Riconoscere con stupore l’identità dell’altro e accettare di
dialogare con lui, comporta dunque un uscire dalla propria famiglia e da se
stessi.
Lo stupore di Adamo era stato tanto più grande quanto più
forte era stata la sua disillusione quando, nel dare il nome “a tutto il
bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche… non
trovò un aiuto che gli fosse simile” (Gen 2,20).
L’accondiscendenza di Dio, che è comunione del Padre, del Figlio e dello
Spirito santo si rivela tutta nel permettere anche all’uomo di sperimentare una
comunione d’amore analoga alla sua creando appunto la donna: “Allora il Signore
Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle
costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la
costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo” (Gen 2,21-22).
Infatti non si dialoga che fra esseri riconosciuti di pari
dignità. Da qui la conclusione di Adamo: finalmente qualcuno che è “carne della
mia carne e osso delle mie ossa”.
LA PAROLA
NASCE DAL SILENZIO
La solitudine di Adamo si rinnova ancora oggi nel drammatico
sentimento di angoscia dell’uomo contemporaneo, interpretato spesso da artisti sensibili,
come il famoso Munch, o espresso in parole da
filosofi come quelli dell’esistenzialismo del novecento, che gridavano
anch’essi sgomenti per l’incomunicabilità prodotta dall’inflazione degli
infiniti mezzi di comunicazione approntati da tecniche sempre più sofisticate e
sempre più anonime e, al fondo, drammaticamente incomunicanti:
“Soltanto un dio ormai ci può salvare”.
La parola cristiana proviene dal profondo silenzio
misterioso di Dio, che “nessuno ha mai visto”, né “mai potrà vederlo”, e che tuttavia
rinunzia a tenere per sé il suo segreto comunicandosi tutto nella Parola
discesa in mezzo agli uomini. Il dialogo, del Padre col Figlio, nello Spirito
santo, diventa così invito a dialogare da figli, nel Figlio, con Dio e con gli
uomini.
Nel mistero di Pasqua lo Spirito del Figlio – nuovo Adamo –
uscendo dal costato trafitto, si è riversato comunque sulla comunità della
Chiesa, nuova Eva, dando origine ad un dialogo che apre finalmente i cuori alla
speranza.
Di questo sono testimoni quei particolari discepoli di Gesù
di Nazareth che hanno fatto dell’accoglienza della Parola, e del suo annunzio
al mondo, la stessa ragion d’essere della loro vita, significandola con
l’impegno solenne della verginità feconda.
Nessuno dubita infatti che scegliere una vita di
consacrazione religiosa significhi anzitutto scegliere la verginità.
La verginità, però, è semplicemente dono. Dono proposto,
ricevuto, accolto, custodito con cura, a partire dalla consapevolezza profonda
e indicibile di un desiderio d’amore e di maternità, che caratterizza
simultaneamente la libertà di chi dona e di chi riceve il dono. Il dialogo
proprio di un cuore verginale parte dal riconoscimento di un primato attribuito
umilmente all’Altro, col la A maiuscola, accolto come fonte d’acqua pura o seme
fecondante con cui riempire il proprio vaso fino a renderlo traboccante al di
fuori di sé nel parto luminoso della vita teso a raggiungere e colmare dello
stesso amore tutti, fino ai confini del mondo. “Non siete stati voi ad avere
scelto me, ma io ho scelto voi, perché andiate e portiate frutto e il vostro
frutto rimanga” (Gv 15,16).
La consapevolezza di essere stati amati per primi da lui e
di essere stati scelti prima ancora che potessimo essere in grado di capire
fino in fondo quale fosse la natura e le conseguenze di un simile amore, di una
simile scelta, ci riempie ancora tutti di stupore.
Prima di noi rimasero stupiti del resto patriarchi, profeti,
apostoli, uomini e donne dediti al servizio di Dio al punto che tutti avrebbero
potuto far propria la contemplazione di Paolo, quando cantava nella sua Lettera
ai Romani: “O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di
Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!
Infatti, chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo
consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da ricevere da lui il
contraccambio?” (11,33-35).
LO STUPORE DI SENTIRSI AMATI
E IL DIALOGO
La gioia della nostra condizione verginale, immersa tutta
nella gratuità, ci pone nella prospettiva ottimale da cui guardare ogni
esperienza concreta di dialogo, perché lo stupore di sentirsi amati, e perciò
scelti da lui per una missione avvolta di mistero, ci predispone in modo del
tutto naturale a riconoscere e accogliere il mistero della diversità
dell’elezione e dell’amore con cui Dio si è manifestato nel cuore,
nell’intelligenza e nella vita degli altri.
Dio, che ha scelto me nella verginità, è lo stesso Dio che
ha amato e scelto altri fratelli e sorelle nel matrimonio cristiano, così com’è
lo stesso Dio che ha chiamato in vita miliardi di altri esseri umani oltre i
confini dei territori che sono a me familiari siano essi geografici, etnici,
religiosi o semplicemente culturali.
Onestà vuole inoltre che, fino a prova contraria, si possa e
si debba dare per scontato che la stessa purezza di cuore che rivendichiamo per
noi, nel chiedere il riconoscimento della nostra identità, la concediamo anche
agli altri.
Infatti, rispondendo alla chiamata di Dio, percepita nel
segreto della propria coscienza, ciascuno vuole essere fedele a ciò che crede
costituisca la sua identità, senza pretendere di sapere a tutti i costi perché
l’altro non sia stato chiamato come lui. A Pietro che pretendeva di conoscere
il perché del discepolo prediletto che, alle sue spalle, seguiva a modo suo il
Signore, Gesù risorto rispose senza dare ulteriori spiegazioni: “Se voglio che
rimanga finché io venga, a te cosa importa? Tu segui me” (Gv
21,22).
La missione ricevuta dall’altro può essere molto diversa
dalla mia. Infatti c’è certamente una missione da compiere nel piano della
salvezza del mondo progettato e attuato da Dio per mezzo di ciascuno di noi. Se
Dio è unico e si chiama Padre, lo è necessariamente di tutti.
A questo tende ogni chiamata personale. Se io fossi nato,
per esempio, in India, o in Africa o in territori completamente islamici,
sarebbe da attribuire a me questa scelta? O non invece al Signore, che
certamente avrebbe avuto su di me progetti diversi da quelli che intravedo io
dal momento che sono nato in Italia, da una famiglia cattolica, apostolica,
romana? Di fatto il Signore mi ha chiamato all’interno della cattolicità, mi ha
chiamato per nome inserendomi, grazie al battesimo, nel corpo stesso di Cristo
e poi scegliendomi a essere monaco e sacerdote. È dovuta a me questa scelta? Io
ho soltanto risposto a una domanda partita semplicemente da lui, ma è lui che
mi ha scelto in vista di un progetto pensato, e perseguito misteriosamente da
lui.
Certo questo non significa che io non possa sentirmi sanamente orgoglioso e riconoscente per il dono ricevuto,
ma significa anche che non posso essere mai, in nessun caso, presuntuoso o
prevaricatore nei confronti delle chiamate degli altri. Né posso, con la
pretesa di volere il bene, o il “maggior” bene degli altri, forzarli a pensare
come me, accusandoli implicitamente di disonestà là dove essi pensano invece
che Dio abbia scelto per loro semplicemente una strada diversa da quella che
vivo e che propongo io. In teologia morale si parla chiaramente di “ignoranza
invincibile”. E quanti soprusi sarebbero stati evitati nei rapporti intra e inter comunitari se si
fosse tenuto presente un principio così elementare! Dialogare significa anche
sopportare con pazienza l’ignoranza dell’altro, ma significa soprattutto concepire
il nostro irrinunciabile impegno missionario come povera, umile, semplice
testimonianza dell’amore universale e personale di Lui.
Derivano dal dono verginale, fondamento della nostra vita
consacrata, la povertà che possiamo anche tradurre con “distacco”, e
l’obbedienza.
FEDELTÀ
A UNA RELAZIONE D’AMORE
Avere scelto di rispondere sì alla proposta, che ha dato
inizio alla nostra particolare relazione d’amore col Signore, ha comportato
delle scelte esistenziali estremamente importanti, analoghe a quelle che
accompagnano scelte di altro tipo e particolarmente quelle di una coppia che dà
origine a una famiglia normale.
Le parole della Genesi: “Per questo l’uomo abbandonerà suo
padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen 2,24) sono state completate per noi dall’invito di Gesù
a vivere lo stesso tipo di distacco per seguire lui.
Il distacco chiesto ad Adamo ed Eva, prototipi della coppia
umana, viene chiesto di nuovo a chi, percependo l’urgenza di una salvezza che
può sfuggire di mano, accetta di accogliere, libero e generoso, l’invito di
Gesù a seguirlo, scegliendo di vivere, nell’intimità esclusiva con lui, quella
stessa unione misteriosa dei “due in una sola carne” di cui parlava il libro
della Genesi.
Nell’uno e nell’altro caso si produce comunque il contesto
ideale in cui vivere un’esperienza di dialogo che culmina in una comunione su
cui si estende misteriosa la shechinà o la presenza
amorosa del Signore risorto.
Il coinvolgimento di Dio in questa particolare comunione,
culmine e fonte di ogni vero dialogo che vale sia per i vergini che per gli
sposati, nasce dalla stessa parola di Gesù che dice: “L’uomo non divida quello
che Dio ha congiunto” (Mt 19,6).
L’accettazione dell’invito a seguire lui coinvolge
profondamente colui che è l’unico buono (cf. Mc 10,18; Mt 19,17), perché tutto
è nato da uno sguardo d’amore di lui e dal dialogo d’amore che ha avuto inizio
con quello sguardo: “Gesù fissò lo sguardo su di lui – racconta Marco a
proposito in un giovane smanioso di salvarsi – lo amò e gli disse: “Una sola
cosa ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in
cielo; e vieni, segui me!”” (Mc 10, 21).
Si rimane senza parole quando si coglie la possibilità di
confrontare lo stupore, aperto al dialogo, di Adamo di fronte all’ ““aiuto che
gli era simile” (Gen 2,20) con la chiusura e il
mutismo del giovane che, alle parole di Gesù, rifiutò di farsi coinvolgere nel
dialogo, “si fece scuro in volto e ne se andò rattristato” (Mc
10, 22).
Accettare il dialogo comporta in realtà un distacco, che è
uscita da se stessi per donarsi, rischiando tutto, all’Altro.
Ma fa parte integrante del dono la possibilità di un rifiuto
con conseguenze drammatiche che tutti conosciamo. Rimane infatti sempre valida
la profezia di Gesù: “chi vuol tenere per sé la propria vita la perderà, e chi
avrà perduto la propria vita, per causa mia, la troverà” (Mt
10,35).
Entrare in gioco nel dialogo è questione di vita o di morte,
senza alternative.
UNA “CRISTIANA”
VITA CONSACRATA
Non qualunque perdita della vita, chiarirebbe l’evangelista
Matteo, garantisce la possibilità di ritrovarla, ma soltanto quella particolare
perdita che si subisce “per causa mia e del vangelo”.
Ritroviamo ciò da cui ha origine sempre ogni “cristiana”
vita consacrata. Sottolineo l’attributo cristiana. Non intendo con questo
portare alcun giudizio critico, e tanto meno condannare, persone – e sono
milioni – che consacrano se stesse per il bene degli altri in contesti diversi
da quelli della nostra vita consacrata. Tutt’altro!
Non possiamo tuttavia rinunziare a fondare cristianamente
la nostra particolare vita consacrata.
Si dialoga sempre, e solo, fra persone pienamente
consapevoli della propria identità, almeno altrettanto quanto rispettosi dell’identità
degli altri.
Al cuore di ogni dialogo, degno di questo nome, c’è sempre
l’impegno serissimo di testimoniare una precisa, personale identità. Il che
comporta ancora un distacco, che definirei semplicemente “ascetico”, da ogni
forma sia pure implicita di captatio benevolentiae e soprattutto di quel particolare
proselitismo che tende solo a catturare l’altro.
Un dialogo vero non si maschera mai, perché comporta sempre
un’ingenua apertura del cuore che dimostri all’altro, con la trasparenza più
netta, quella assoluta mancanza di ambiguità o di doppiezza che caratterizza
chi può dire di sé di non anteporre nulla, assolutamente nulla, all’amore di
Cristo. Gesù diceva nel vangelo di Matteo: “se il tuo occhio è semplice, tutto
il tuo corpo sarà luminoso” (Mt 6,22). Testimoniare
con purezza e semplicità di cuore di non aver nulla di più caro di Cristo non
è, del resto, la sostanza stessa del nostro essere consacrati appunto nella
Chiesa di Cristo?
È questa la nostra identità e di questo si aspettano tutti che
noi testimoniamo.
Intimamente collegata all’impegno di testimoniare sta
l’astensione da qualunque tipo di giudizio sulla coscienza dell’altro
ricordandosi dell’ammonimento del Signore: “Non giudicate per non essere
giudicati” (Mt 7,1), aperti sempre al perdono sincero
e totale, come a tutti ha voluto chiedere il papa nell’anno giubilare.
Il cristiano impegnato nella vita consacrata ha ricevuto dal
Signore soprattutto il mandato di annunziare al mondo lo shalom
della riconciliazione e della pace, che si costruiscono solo col metodo
paziente del dialogo.
La missione, alla quale ci ha chiamati il Signore
all’interno della straordinaria diversità dei carismi suscitati dallo Spirito
santo nella Chiesa, si concretizza poi sempre quando riusciamo a dare “la vista
ai ciechi, l’udito ai sordi, la parola ai muti, le braccia ai mutilati, le
gambe solide e rinforzate ai paralitici”. In una parola: quando aiutiamo ogni
essere umano a relazionarsi pienamente con gli altri e, dunque, a poter
dialogare con tutti in libertà, perché profondamente riconoscente a Dio per il
recupero pieno della propria identità.
“Dare la parola” comporta accorgersi dell’altro,
apprezzarlo, ridargli piena fiducia, perché riabbia la forza e il coraggio di
accettare pienamente se stesso e di proporsi agli altri. E comporta anche il
distacco, da parte di chi si piega a dialogare con lui, dal rischio di
chiuderlo nel paternalismo protettivo a oltranza, cioè, in un rapporto
esclusivo che, irrispettoso, sottometta l’altro ai propri modi personali di concepire
il bene e la verità.
Aprire all’altro la possibilità del dialogo significa godere
che l’altro, assumendosi fino in fondo la responsabilità della parola, al fine
ritrovata, la utilizzi in piena libertà non solo per affermare se stesso, ma
anche per distinguere la propria dall’altrui identità, dimostrando così
simultaneamente, a se stesso e a chi lo ha aiutato, la natura autentica di ogni
vero dialogo.
ESPERTI
DI DIALOGO
A tutto questo soccorre la nostra preziosa esperienza di
persone consacrate all’interno di una realtà comunitaria che non potrebbe
sopravvivere mai senza un continuo dialogo. In quanto persone consacrate
dovremmo essere, quasi per definizione, esperti di dialogo. Non fa forse parte
integrante della nostra vita consacrata l’arte dell’ascolto dell’altro che
proseguiamo a chiamare ancora umile atteggiamento obbedienziale
che permette a tutti di gareggiare nell’obbedirsi a vicenda e nel prevenire
premurosamente gli uni i bisogni e i desideri degli altri.
L’obbedienza caratterizza a tal punto la vita consacrata che
a molti è apparso assolutamente normale concludere che fosse il distintivo
stesso di essa, nei confronti di ogni altro modo di vivere il battesimo
cristiano. In realtà per tutti e tre gli impegni fondamentali che costituiscono
la vita consacrata cristiana si potrebbe dire le stessa cosa. Infatti i voti di
verginità, povertà, obbedienza sono talmente l’uno dentro l’altro da costituire
in solido un’unità inscindibile. Nessuno dei tre voti può essere perseguito da
solo, senza gli altri. Mentre però gli impegni della verginità e della povertà
sembrano appartenere senz’altro al colore di fondo “spirituale”, che accompagna
ogni singola scelta compiuta da chi vive la vita consacrata, l’obbedienza ha
dei risvolti pratici tali da far apparire più difficile il dialogo anche quando
è sinceramente perseguito come valore indiscusso riconosciuto in modo
universale.
Nessuno oggi metterebbe in dubbio la necessità del dialogo
in ogni aspetto della vita consacrata, quali che siano i ruoli esercitati
all’interno dei singoli istituti o congregazioni. Tuttavia ritengo importante
fermarsi qualche attimo in più a riflettere su questo dato di fatto, per
osservare semplicemente quanto sia difficile, ancora oggi, distinguere fra
l’obbedienza del “suddito” al suo “superiore”, prescritta dal diritto canonico,
e l’ascolto reciproco vissuto all’interno di una fraternità particolarissima
quale è quella in cui si riconosce e si identifica la vita consacrata
cristiana.
Forse questo particolare problema si avverte in modo più
acuto negli istituti maschili che non in quelli femminili, ma non credo sia del
tutto fuori posto riflettere sui presupposti teologici che rendono più
difficile la dialogicità nella prassi concreta dei
rapporti fra responsabili e comunità religiosa o cosiddetta monastica.
Credo che la difficoltà debba essere vista, almeno in parte,
come conseguenza dell’appiattimento, fino all’identificazione, del responsabile
di una realtà di vita consacrata con la persona che, all’interno della Chiesa,
ha il dono specifico di una ordinazione sacerdotale.
Negli istituti religiosi maschili si vorrebbe, ancora oggi,
ricondurre ogni autorità, esercitata all’interno delle comunità di vita
consacrata, all’ordinazione sacerdotale, definendoli tutti, quasi senza
distinzione, istituti clericali.
Questo fatto, che ha mille motivazioni pastorali dalla sua
parte, comporta però anche dei rischi che si ripercuotono poi negativamente nei
rapporti quotidiani concreti fra i membri delle comunità di vita consacrata,
soprattutto nelle decisioni capitolari.
Di questi rapporti uno dei più gravidi di conseguenze è
proprio quello di risolvere adeguatamente, con rispetto sincero del dialogo,
certe incomprensioni che si possono dare fra coloro che detengono l’autorità
“ordinata” e gli altri membri di comunità.
Non intendo affrontare il problema dalla prospettiva
giuridica. Non spetta a me e, d’altra parte, non mi ritengo affatto competente
in questo campo.
Mi sembra comunque importante osservare questa serie di
problemi anche dalla prospettiva teologico-spirituale,
perché avere idee un po’ più chiare su questo punto facilita senza dubbio il
dialogo dei religiosi e delle religiose con altri membri importanti (parroci o
vescovi in particolare) della realtà ecclesiale.
La particolare natura del loro carisma distingue nettamente
le comunità di vita consacrata dal carisma proprio della istituzione clericale.
La vita consacrata ha infatti il suo fondamento in ciò che teologicamente viene
chiamato sacerdozio universale dei fedeli che hanno ricevuto il dono di essere
sacerdoti, re e profeti nel battesimo, sacramento fondante dell’essere
cristiani, a differenza del carisma proprio del sacerdozio ministeriale, che
suppone la sacramentale “imposizione delle mani”.
SPIRITUALITÀ
DEL DIALOGO
Il ragionamento fatto, che attiene alla teologia sacramentaria, ne comporta, a mio parere, un altro, che
riguarda invece più propriamente la teologia spirituale.
L’abilità a rispondere, che caratterizza il responsabile di
una comunità di vita consacrata, manifesta se stessa quando è capace di agire
in modo speculare. Cioè quando è capace di ri-flettere la luce o, per essere
più chiari, quando è capace di rispondere alle domande, che gli vengono poste
dai membri della comunità, allo stesso modo con cui lo specchio ri-flette
l’immagine che gli si pone di fronte, senza rinunziare – e questo è il suo proprium necessario – al dovere del discernimento e della
decisione finale.
Questo fenomeno, che ho chiamato speculare, comporta
certamente che il trasmittente abbia almeno un piccolissimo accenno di
luminosità, ma comporta soprattutto che il ricevente sia sufficientemente puro
e trasparente per poterlo riflettere senza deformare con i propri pre-concetti,
la domanda e sia inoltre sufficientemente esperto per poter discernere e
rispondere in modo adeguato alla domanda stessa, per il bene sia del
richiedente che della comunità, ma soprattutto perché “in tutto sia resa gloria
a Dio” e non agli uomini.
Tre condizioni che sono facili a dirsi ma assai difficili da
praticare.
In genere si sintetizzano in ciò che viene definita:
capacità di ascolto.
In realtà si tratta proprio di “saper ascoltare”. Ascoltare
con piena disponibilità e distacco la persona che ti sta di fronte. Ascoltare,
ed eventualmente purificare nel fuoco dell’amore gratuito, che si esprime nel
distacco da sé e dai propri pregiudizi, per uscire, andando incontro all’altro
da “amare come altro se stesso” a pari dignità. Ascoltare le esigenze degli
“assenti”, silenziosi ma estremamente eloquenti, che sono gli altri membri
della comunità identificata non soltanto con la realtà locale, ma anche con
quella congregazionale, a sua volta strettamente legata alla realtà della
Chiesa e dell’umanità. Ascoltare infine la parola di Dio letta, meditata,
approfondita, alla luce del mistero di Cristo, Figlio di Dio fatto carne, morto
e risuscitato grazie al dono dello Spirito Santo. il che significa prendersi
tutto il tempo necessario per permettere a tutti, a cominciare da se stessi, di
essere illuminati e attraversati dalla Parola di fuoco del Vangelo, perché ogni
decisione si fondi e si concluda sulla purezza e con purezza di cuore, alla
luce della parola di Dio, escludendo con estrema attenzione ogni altra
interferenza umana.
Al centro della domanda e della rispettiva risposta non può
esserci mai, in persone che si sono impegnate allo stesso modo a “nulla
anteporre all’amore di Cristo”, né la gratificazione di chi si sente più in
alto o più importante dell’altro per essere stato interpellato; né
l’abdicazione alla propria responsabilità da parte di chi si rifugia
nell’ignavia, facendo passivamente sua la massima del “chi obbedisce non
sbaglia mai”.
Un dialogo vero fra persone consacrate si gioca tutto sulla
presenza o meno di un ascolto reale. Qualunque carenza, sia del trasmittente
che del ricevente, comporterà infatti o l’assenza o l’imperfezione anche grave
di ogni qualsivoglia dialogo.
Ma chi, come e che cosa permetterà all’uno e all’altro dei
soggetti interessati di essere adeguatamente in dialogo?
Non il perfezionismo di chi non riesce a riconciliarsi mai
con i propri limiti e perciò pretende di avere sempre ragione, scaricando
sistematicamente sulle carenze inevitabili dell’altro anche le proprie, ma
piuttosto l’umiltà di chi accetta di vivere facendo propria, per esempio, la
parola di Paolo che scriveva così ai suoi amici di Filippi:
“Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta
umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, non cercando l’interesse
proprio, ma piuttosto quello degli altri, avendo fra di voi gli stessi
sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,3-5) il quale “pur
essendo…” con tutto ciò che segue, concludendo il dialogo come l’ha concluso
Lui, perché “ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio
Padre”.
Non sembri, questa, la conclusione di un fervorino
moralista. Si tratta invece di cose molto serie, perché su questo non ci
giochiamo soltanto la credibilità della nostra vita consacrata, ma
semplicemente la fede. Infatti, nella carenza di dialogo si nasconde
surrettiziamente non soltanto la fragilità della nostra fede, ma il rischio,
grosso come una casa, dell’idolatria, quella che pone altre cose, che sono
fuori e persino al di sopra di noi, al posto che spetta unicamente a lui,
l’unico Dio, l’unico Signore.
Innocenzo
Gargano