ROMERO, A 25 ANNI DAL SUO MARTIRIO
“ROSMARINO” DELLA CHIESA
Oscar Arnulfo
Romero, pastore e profeta latinoamericano, ci chiede di lasciarci evangelizzare
dai poveri. La sua morte martiriale, 25 anni fa, è ancor oggi segno
paradigmatico di una svolta nella coscienza dell’umanità del terzo millennio.
Nello stemma episcopale aveva voluto un rametto di rosmarino
(romero in spagnolo) per ricordare il suo cognome: un’erba che profuma e
purifica, segno del desiderio di prestare un servizio sincero personale alla
Chiesa.1 E questo servizio continua al punto che mons. Romero è diventato il
testimonial d’eccezione per la campagna internazionale sugli Obiettivi del
Millennio, primo fra tutti quello di dimezzare la povertà entro il 2015.
L’ENIGMA DEL VESCOVO
FATTO POPOLO
In una lettera inviata ai vescovi, in occasione del XXV
anniversario della sua morte, a nome delle realtà e degli organismi che si sono
adoperati a tenerne viva la memoria,2 mons. Tommaso Valentinetti (presidente di
Pax Christi Italia) ha proposto di ricordare il martire salvadoregno nelle
liturgie del Giovedì Santo e, particolarmente, nella messa crismale: “Mons.
Romero fu assassinato proprio durante una celebrazione eucaristica e, in
quest’anno tutto orientato a sottolineare la centralità dell’Eucaristia nel
cuore delle chiese, mi pare ancora più significativo fare riferimento a un
vescovo che ha mescolato il proprio sangue a quello di Cristo. Le ultime parole
da lui pronunciate, quel lunedì del 24 marzo 1980, alle ore 18.25, nella
cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza, mentre celebrava l’offertorio,
furono: “In questo calice il vino diventa il sangue che è stato il prezzo della
salvezza. Possa questo sacrificio darci il coraggio di offrire il nostro sangue
per la giustizia e la pace del nostro popolo. Questo momento di preghiera ci
trovi uniti nella fede e nella speranza””.
La traiettoria del monsignore santo d’America, appellativo
datogli subito dai suoi poveri (il postulatore della causa, mons. Vincenzo
Paglia, ha annunciato la ripresa dell’iter del processo di beatificazione), può
essere sintetizzata nella definizione di Rafael Valladares (il più intimo
compagno di gioventù e vocazione religiosa): “Quest’uomo è un enigma e un
mistero indecifrabile, e bisogna conoscerlo per non giudicarlo”. Canonizzato
anzitempo – la sua casa è diventato un santuario in miniatura! – e al tempo
stesso mitizzato o demonizzato, è difficilmente comprensibile secondo categorie
logiche occidentali: è stato un pastore con alto senso di responsabilità,
capace di reagire di fronte al sangue versato; né di destra né di sinistra, un
cristiano con senso della storia inteso come cammino verso Dio.
In questo senso sono sempre illuminanti le parole
pronunciate da mons. Tonino Bello nel 1987. “La parola di Dio ha costruito nel
santo vescovo salvadoregno la spiritualità dell’esodo, la spiritualità del dito
puntato, la spiritualità del servo sofferente. Esodo da dove? Dal nascondiglio
di una fede rassicurante, intimistica, senza sussulti… Era un professore della
fede, non un confessore. Era uno di quelli che scorgevano nei documenti di
Medellin e di Puebla un attentato all’ortodossia del Vaticano II. Non simpatizzava
certo per la teologia della liberazione. Era così sospettoso nei confronti di
quei preti che si facevano carico dei problemi d’ingiustizia e di oppressione
vissuti dal popolo, che la sua nomina ad arcivescovo di San Salvador nel
febbraio 1977 venne salutata con entusiasmo da tutti i quadri del potere
costituito. Quando, sotto le raffiche delle armi cadde padre Rutilio Grande, in
ultima analisi fu lui a cadere sotto l’urto della parola di Dio e, come per
Paolo, “all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo”. Gli si aprirono allora
gli occhi e le orecchie, e intuì tutta la portata delle parole dell’Esodo: “Ho
osservato la miseria del mio popolo... ho udito il suo grido... e sono sceso
per liberarlo”. I tre anni di lotta che seguirono, fino alla sua morte, sono
legati a queste risonanze bibliche. Basta leggere le sue omelie per rendersi
conto come, alla radice del suo cambiamento, ci sia solo la parola di Dio e non
la smania di chi si serve degli oppressi per emergere e trovare consensi… È ora
di finirla con le ingenerose speculazioni che fanno di Romero un eroe ma non un
martire; che presentano quest’uomo come travolto dall’ideologia ma non
afferrato dallo Spirito; e che, delle quattro virtù cardinali, gli accreditano
la giustizia ma non la prudenza, gli riconoscono la fortezza ma non la
temperanza! Ma la parola di Dio, oltre la spiritualità dell’esodo, ha costruito
nel santo vescovo salvadoregno la spiritualità che, raccogliendo lo spunto da
un apologo, potremmo chiamare del dito puntato. Fu lo stesso Romero a
raccontarlo, nell’omelia del funerale di padre Navarro, un altro prete ucciso
nel maggio del 1977: “Si narra che una carovana, guidata da un beduino del
deserto, era disperata per la sete e andava cercando acqua nei miraggi del
deserto. E la guida diceva loro: non di là, di qua. E così varie volte, finché
uno della carovana, innervositosi, tirò fuori la pistola e sparò alla guida
che, ormai agonizzante, tendeva ancora la mano per dire: non di là, ma di qua.
E così morì, indicando la strada”. C’è in questo apologo il riverbero di una
coscienza profetica che in Romero ha ormai preso corpo e che, di giorno in
giorno, diventa sempre più chiara”.
Un mese prima della sua morte, sul quaderno degli esercizi
spirituali, annota: “Il nunzio di Costa Rica mi ha messo in guardia da un
pericolo imminente proprio in questa settimana... Le circostanze impreviste si
affronteranno con la grazia di Dio. Gesù Cristo aiutò i martiri e, se ce ne
sarà bisogno, lo sentirò molto vicino quando gli affiderò il mio ultimo
respiro. Ma, più dell’ultimo istante di vita, conta dargli tutta la vita e
vivere per lui... Accetto con fede la mia morte per quanto difficile essa sia.
Né voglio darle un’intenzione, come vorrei, per la pace del mio paese e per la
crescita della nostra chiesa... Perché il cuore di Cristo saprà darle il
destino che vuole. Mi basta, per essere felice e fiducioso, sapere con certezza
che in lui è la mia vita e la mia morte; che, nonostante i miei peccati, in lui
ho riposto la mia fiducia, e non resterò confuso, e altri proseguiranno con più
saggezza e santità il lavoro per la chiesa e per la patria”.
I VERI DISCEPOLI
DI MONSIGNORE
A ispirare le scelte di Romero non furono testi marxiani o
trascrizioni in chiave ideologica di qualche esponente della teologia della liberazione
o la suggestione di riconquistare nuovi spazi sociali da parte della chiesa.
Furono invece le meditazioni sui carmi isaiani del Servo di Jahweh: “Abbiamo
incontrato i contadini senza terra e senza lavoro stabile, senz’acqua, senza
luce e senza scuole. Abbiamo incontrato gli operai privi di diritti sindacali,
licenziati dalle fabbriche quando reclamano e completamente alla mercè dei
freddi calcoli dell’economia. Abbiamo trovato gli abitanti dei tuguri, la cui
miseria supera ogni immaginazione, con l’insulto permanente dei palazzi vicini.
In questo mondo disumano, la chiesa della mia arcidiocesi, sacramento attuale
del Servo sofferente di Jahweh, ha cercato di incarnarsi”.3 Così nella visione
pastorale di Romero i poveri diventano il principio architettonico di ogni
rinnovamento sociale: “Il mondo dei poveri è la chiave per comprendere la fede
cristiana.... I poveri sono quelli che ci dicono cos’è la polis, la città, e
che cosa significa per la Chiesa vivere realmente nel mondo”.
Il discorso pronunciato da Romero all’università di Lovanio,
prima che venisse insignito della laurea honoris causa, ci fa capire quanto
sapore di Vangelo c’è nelle sue parole: “Le maggioranze povere del nostro paese
sono oppresse e represse quotidianamente dalle strutture economiche e
politiche. Da noi continuano a essere vere le terribili parole dei profeti
d’Israele. Esistono tra noi quelli che vendono il giusto per un denaro e il
povero per un paio di sandali; quelli che accumulano violenza e saccheggio nei
loro palazzi; quelli che schiacciano i poveri; quelli che accumulano casa su
casa e aggiungono campo a campo fino a occupare tutto il terreno... Questi
testi dei profeti Amos e Isaia non sono voci lontane di molti secoli fa... Sono
realtà quotidiane, la cui intensa crudeltà viviamo giorno per giorno. Le
viviamo quando vengono da noi madri e spose di prigionieri e di scomparsi,
quando appaiono cadaveri sfigurati in cimiteri clandestini, quando sono uccisi
coloro che lottano per la giustizia e per la pace!”.
“Il popolo è il mio profeta” diceva Romero nell’omelia del 7
luglio 1979; poi affermava a pochi mesi dal suo assassinio: “Io non credo nella
morte senza resurrezione. Se mi uccidono, resusciterò nel popolo salvadoregno.
Lo dico senza nessuna arroganza, con molta umiltà”. “Poco tempo dopo l’inizio
del suo ministero vescovile, il popolo (che lui chiamava affettuosamente mi
pobrerìa) è entrato nel suo cuore e nella sua mente e ne ha fatto un uomo e un
credente nuovo – ricorda il noto teologo della liberazione Jon Sobrino, direttore
del Centro Monseñor Romero”. Nella preparazione della messa per il suo funerale
(30-3-1980), pensando all’omelia, qualcuno propose che nella prima parte si
parlasse delle letture bibliche e che nella seconda si cominciasse così: “E ora
parliamo dei fatti della settimana”. “Quello che si voleva – spiega ancora
Sobrino - era che la predica non fosse soltanto su Monsignore, ma come quella
di Monsignore. Si voleva diffondere il suo ricordo non solo parlando di lui, ma
parlando come lui. Da allora la tradizione di Romero è andata nella direzione
giusta ogni volta che abbiamo fatto e detto come lui faceva e diceva. Non
dobbiamo restare ad ammirare Monsignore e a tesserne le lodi, dobbiamo
proseguire la sua battaglia”.
Ma cosa significa in concreto ricordare-celebrare Romero?
Significa seguirlo nell’annuncio coraggioso e non violento del Regno (non è
quindi omologabile a Camilo Torres o “Che” Guevara) contro l’idolatria del
denaro e del potere militare, contro la connivenza dei politici con
l’ingiustizia, contro gli pseudo-valori del consumismo globalizzato, contro
l’in-formazione interessata e la falsificazione della religione (spiritualismo,
individualismo e gregarismo). Significa imitare un discepolo che, al di là di
affetti e avversioni o slanci e limiti, non ha considerato la salvaguardia
della vita come un valore maggiore della sua adesione a Cristo.
Sul frontone della cattedrale di Westminster vi sono dieci
statue di “nuovi martiri” del novecento: una è quella di Romero. Giovanni Paolo
II ha così pregato durante la celebrazione giubilare del 7 maggio 2000:
“Ricordati, Padre dei poveri e degli emarginati, di quanti hanno testimoniato
la verità e la carità del Vangelo fino al dono della vita: pastori zelanti,
come l’indimenticabile arcivescovo Oscar Romero ucciso all’altare durante la
celebrazione del sacrificio eucaristico”.
Mario Chiaro
1 Cf. il recente lavoro, frutto di ricerca sugli archivi
personali del monsignore, di R. Morozzo Della Rocca, Primero Dios. Vita di
Oscar Romero, Ed. Mondadori, Milano 2005.
2 La celebrazione annuale, iniziata da don Luigi Di Liegro
nel 1981, è oggi promossa dal “Comitato romano Oscar Romero” al quale
partecipano: Commissione Justitia et Pax dell’Unione internazionale superiore e
superiori generali, Pax Christi Italia, Commissione internazionale giustizia e
pace Famiglia domenicana,
3 El Salvador è il più piccolo paese dell’America centrale,
con più di 5mln di abitanti su appena 21mila kmq. La guerra civile che l’ha
dilaniata (scoppiata dopo che era cessata la presenza mediatrice di Romero),
dal 1980 al 1992, conta quasi 80mila vittime. L’economia è nelle mani di poche
famiglie con il 60% delle terre migliori (l’élite forse più vorace ed egoista
dell’America latina). Il 60% degli abitanti è analfabeta e più del 30%
disoccupato o sottoccupato. Ogni giorno oltre 300 persone cercano di lasciare
il paese verso gli Usa, pagando alle bande di trafficanti la cifra di 7mila
dollari.