QUANDO LA RETORICA DIVENTA INTOLLERABILE
È ORMAI TEMPO DI APRIRE GLI OCCHI
Ascoltando
dall’Africa certe dichiarazioni come quelle di Blair e di Chirac si avverte
quanto certi discorsi da parte dei capi di stato europei sappiano di ipocrisia.
Le belle parole e i buoni propositi non bastano più. È tempo di fare qualcosa
di concreto.
Ci sono momenti in cui è necessario parlare, ma ci sono
momenti in cui il parlare, se non si materializza in qualche azione concreta,
diventa una forma di alienazione collettiva.
Questa è la sensazione che provo ogni volta che alla
televisione, alla radio o sulla stampa si annuncia un improvviso progetto per
salvare l’Africa. Non che non ce ne sia bisogno, ma questo genere di annunci
assomiglia troppo ai tuoni che precedono la pioggia: “Quando tuona prima di
piovere, dal campo non ti muovere”, dice un proverbio popolare che ricorda che
il tuono non è sempre necessariamente accompagnato dalla pioggia. È quanto stiamo
vedendo quest’anno in Burundi dove sembra proprio che la pioggia si faccia
attendere.
L’ANNO
DELL’AFRICA
Questi proclami di campagne finali per debellare la fame, la
malattia, l’analfabetismo, la corruzione, tanto solenni e clamorosi nel battage
mediatico quanto sterili nei loro effetti, sono probabilmente il sintomo di una
coscienza che ha bisogno di essere acquietata con un soprassalto di compassione
e di buona volontà. Il primo ministro britannico Tony Blair ha detto e ripetuto
in questi primi mesi dell’anno che il 2005 sarà “l’anno dell’Africa” perché, lo
cito a memoria, ma la citazione è sostanzialmente fedele, l’Africa è oggi “un
caso etico” che si impone alla prossima generazione europea. Per questo ha
invitato gli stati creditori a ridurre e, in qualche caso, a cancellare il
debito internazionale dei paesi africani più poveri e, secondo impegno, ha
proposto un piano Marshall per l’Africa.
Quanto al debito sono parecchi anni che se ne parla, ma i
casi di cancellazione sono stati molto pochi! Non lo si è fatto neppure nei
confronti dei paesi asiatici colpiti lo scorso inverno dallo tsunami, malgrado
subito dopo quella catastrofe lo si fosse detto e promesso sotto il colpo
dell’emozione. Per quello che riguarda il ventilato Piano Marshall, non si deve
dimenticare che è una vecchia proposta, ripetuta e dimenticata o accantonata
già varie volte, che riviene periodicamente a galla quasi a calmare i rimorsi
della coscienza. È una proposta che rivela un atteggiamento paternalistico di
matrice coloniale (“se non interveniamo noi, occidentali, l’Africa da sola non
ce la può fare”) e una profonda sfiducia nei capi come nei singoli, una
sfiducia che umilia la gente del Continente africano (“È colpa della corruzione
della classe dirigente africana!”).
Credo che nessuno voglia e neppure possa negare la
corruzione della classe dirigente in Africa, ma prima di lanciarci contro di
essa noi europei, eredi dei colonialisti, dovremmo chiederci chi ha insegnato
ai governanti attuali a stornare i fondi per scopi diversi da quelli per cui li
hanno ricevuti. E chi ha insegnato loro il sistema delle tangenti e chi sono
coloro che tengono il palo per questo genere di operazioni?
Al primo ministro britannico ha fatto eco il presidente
francese Jacques Chirac che non poteva permettere al suo classico rivale di
precederlo sul terreno africano. In occasione della campagna contro la malaria,
ai primi di marzo scorso, egli ha sentenziato che la malaria è “un insulto alla
coscienza mondiale”. Se ne è accorto solo ora? Non sapeva che essa è la prima
causa della mortalità in Africa? È da tempo che l’Organizzazione mondiale della
Salute ha fatto circolare la notizia che ogni minuto in Africa c’è una persona
che muore di malaria. Non sa che basterebbe poco per offrire ai malati di malaria
una cura sufficiente mentre la malaria è una di quelle malattie che potrebbe
essere facilmente curata se solo si mettessero sul mercato medicine a prezzi
accessibili. Ma sembra proprio che la malaria, come l’AIDS, sia una di quelle
malattie su cui le industrie farmaceutiche speculano per trarne dei grossi
profitti. Se i governi dei paesi ricchi volessero fare una campagna per
debellare queste malattie o comunque ridurne gli effetti negativi, basterebbe
che obbligassero il mercato farmaceutico a tenere bassi i prezzi o a cedere il
brevetto a questi paesi. Basterebbe uscire dalla retorica e prendere qualche
decisione coraggiosa.
RETORICA DEI POLITICI
E PROMESSE MANCATE
Ascoltare in Africa questo genere di discorsi da parte dei
capi di stato e di governo europei, fa un altro effetto da quando si sentono in
Europa. Qui uno, anche se non è africano, sente che queste cose sanno di
ipocrisia e di presa in giro, e suscitano nell’animo non l’ammirazione per chi
le dice, ma la frustrazione di chi oltre che vittima della malattia e del
sottosviluppo, si sente anche preso in giro, e allora la frustrazione diventa
rabbia incontenibile. Prima di tutto perché queste affermazioni, dato il
contesto attuale di entrambi i paesi, assumono il sapore della
strumentalizzazione politica. Sia in Gran Bretagna che in Francia, infatti,
siamo in campagna elettorale e in tali circostanze tutto fa brodo per
racimolare qualche voto in più tra gli africani “metropolitani” e i loro amici.
Ma la rabbia maggiore viene dalla retorica che accompagna queste affermazioni,
una retorica che, personalmente, sta diventando intollerabile.
Sono anni che i governi si sono impegnati a versare lo 0.7 %
del loro bilancio per i progetti dello sviluppo dei paesi più poveri; c’è poi
un impegno preso collettivamente dalle Nazioni Unite in occasione dell’inizio
del millennio, di ridurre per il 2025 la fame nel mondo, quando tutti sanno che
queste promesse sono pacchianamente disattese e non saranno mai realizzate.
Anzi è noto che gli aiuti versati dai governi occidentali, governo italiano
incluso, per vincere la battaglia dello sviluppo dei paesi poveri, diminuisce
con il passare del tempo. Tutti sanno – e se non lo sanno è bene che lo
sappiano – che gli aiuti governativi stanziati per lo sviluppo del continente
africano sono stati drasticamente tagliati in questi ultimi anni, mettendo in
crisi molte organizzazioni non governative che operavano in Africa e impedendo
loro di completare i progetti a lunga scadenza che avevano messo in cantiere. E
questo in un tempo di globalizzazione economica e finanziaria che vede
moltiplicarsi e gonfiarsi i profitti, che tuttavia si accumulano solo nelle
casse di pochi fortunati.
I temi trattati dai due politici sono un discorso che può
incantare coloro che non conoscono la situazione in Africa e i meccanismi degli
aiuti governativi ai paesi più poveri. Ma si deve sapere che i fondi che
vengono ancora offerti per i progetti di sviluppo dell’Africa aiutano, solo o
prevalentemente, i governanti africani, perché i soldi che essi mendicano a
casa nostra in Europa in nome dei poveri, ai poveri non arrivano che in misura
molto ridotta perdendosi nei meandri delle relazioni personali e familiari di
coloro che sono al potere. Secondo: che i fondi che i governi occidentali
stanziano ai governi dei paesi in via di sviluppo, o non escono affatto dalle
casse del paese donatore, oppure ne escono solo virtualmente, perché rientrano
poi sotto altra forma. Terzo: quello che i governi danno è spesso solo una
restituzione, ridotta e non voluta, di quanto in altro modo e sotto varie forme
i cittadini di quei paesi hanno portato via ai paesi impoveriti.
MANCA UNA CULTURA
DELL’AIUTO
Perché queste iniziative umanitarie possano dare frutto,
devono essere accompagnate da una campagna di sensibilizzazione fatta sia nei
paesi donatori che in quelli che ricevono il dono. Ciò che manca è una cultura
dell’aiuto e della reciprocità. L’aiuto ai paesi poveri non deve essere
umiliante e non deve essere nascostamente interessato, ma deve essere fatto
passare da pari a pari, nel rispetto delle priorità e delle necessità dei paesi
più poveri. È sconsolante vedere alla TV ogni tanto le distribuzioni ai poveri
dei doni che vengono dalle organizzazioni umanitarie o dalla collaborazione dei
governi. Ma ancora più sconfortante è vedere il modo con cui queste
distribuzioni sono fatte: esse sono lo specchio delle nostre relazioni con i
poveri.
Non passa giorno che alla televisione del Burundi senza che
si vedano degli esempi di queste distribuzioni, fatte sotto i riflettori della
TV locale, mettendo in evidenza le malattie e la miseria della gente e,
dall’altra parte, la generosità dei cosiddetti “benefattori”. Ma quanti altri
soldi destinati a queste campagne umanitarie sono scomparsi o indirizzati per
altri canali ad altre finalità, spesso legate alla guerra o alle armi o per
opere tanto faraoniche quanto inutili? Non lo si saprà mai.
Solo ogni tanto si viene a sapere che c’è qualche avvocato
coraggioso che, sostenuto dall’opinione pubblica internazionale, perché quella
locale non riuscirebbe mai a farsi sentire o a chiedere conto, osa indagare,
per esempio, sulla destinazione finale di 40 milioni di dollari, destinati
proprio a una campagna contro la malaria in Burundi. Essi sono scomparsi e con
essi è scomparso anche il rappresentante dell’Organizzazione mondiale della
Salute che li aveva stanziati, il quale in nome della sua organizzazione,
voleva sapere dove fossero finiti quei milioni.
Quando i vari Tony Blair e i Jacques Chirac e gli altri
governanti, anche di casa nostra, vengono in visita in Africa, sono accolti dai
politici di qui con grande solennità e dopo i lunghi vuoti discorsi di
circostanza vengono condotti a visitare qualche realizzazione sociale o qualche
progetto da esposizione in favore dei poveri. Questi ultimi devono cantare e
danzare il loro “grazie” ai cosiddetti benefattori, nei quali riescono a
provocare qualche lagrima di circostanza sulla miseria di qui, per poi
aggiungere altre promesse con cui cercano di legare a sé ancora di più i
governanti africani.
Poi in fretta tornano a casa convinti di aver fatto del bene
e sperando di aver guadagnato un alleato politico e, più ancora, un potenziale
futuro consumatore dei prodotti del proprio paese.
Non sarà ora che si aprano gli occhi di tutti, di chi dà e
di chi riceve? Certo tutti sono riconoscenti quando ricevono, ma chi ci
guadagna è spesso chi non ne avrebbe bisogno. È ora che questa retorica
finisca, che i poveri siano aiutati ad aiutarsi e che il tutto avvenga nel
rispetto e alla luce del sole… altrimenti anche questa sarà un’occasione
perduta.
Gabriele
Ferrari s.x.
corrispondenza
da Bujumbura, 13 marzo 2005