SEMINARIO SUL RELIGIOSO-PRESBITERO

UN PROBLEMA IRRISOLTO

 

Anche se su tre sacerdoti uno è religioso, e in una pastorale integrata è sempre più indispensabile l’apporto del religioso presbitero, la sua specifica identità, dai tempi del Vaticano II, è rimasta irrisolta. Alcune vie ipotizzabili di soluzione del problema.

I campi di uno specifico contributo del religioso presbitero ai confratelli diocesani.

 

Il discorso sull’identità ecclesiale del religioso presbitero non è sicuramente meno problematico di quello sull’identità della vita consacrata. Il religioso presbitero è una figura sostanzialmente lasciata in ombra anche dal Vaticano II. È pertanto più che comprensibile la diversità di opinioni ogni qualvolta, sia negli scritti che nei convegni, viene posto a tema un argomento del genere. Una riprova la si è avuta anche nel recente seminario di studio promosso, a Roma, dalla Cism, il 31 marzo u.s.

Lo scopo del seminario era proprio quello di “fare il punto” sulla condizione attuale del presbitero religioso nella Chiesa. L’opportunità per una scelta del genere nasce anche solo da una semplice constatazione statistica. Nel 2000 il clero diocesano contava 265.782 presbiteri nel mondo, a fronte di 139.397 religiosi presbiteri. Questo significa che nel mondo su ogni tre presbiteri, uno è religioso. Eppure, com’era già detto con estrema chiarezza nella scheda degli organizzatori del seminario di studio, “né il concilio Vaticano II né i sinodi posteriori hanno considerato i presbiteri religiosi come una realtà con una identità propria nella vita e nella missione della Chiesa”. Anche a questo riguardo, aveva osservato il moderatore dell’incontro, Bruno Secondin, introducendo i lavori, esistono “silenzi roboanti”.

Da qui, allora, l’avvertita e diffusa esigenza di uscire dall’ambiguità e affrontare direttamente il tema dei religiosi presbiteri, per verificare se sia o meno condivisa l’opinione che il carisma del ministero ordinato vissuto in un istituto religioso è un dono particolare di Dio alla Chiesa. La sua identità, si sono chiesti ancora gli organizzatori del seminario di studio, più che una sintesi tra ministero ordinato e vita consacrata, non potrebbe essere invece una “originale unità”? Storicamente e teologicamente, non è possibile ipotizzare atteggiamenti plurimi in riferimento allo stesso ministero ordinato?

 

CHIESA LOCALE

E CARISMA RELIGIOSO

 

Una risposta a questi e simili interrogativi non è possibile, però, senza una previa chiarifica sia del modello di presbitero di cui si intende parlare, sia delle sue relazioni con la Chiesa universale e particolare. È quanto hanno cercato di fare i relatori nell’incontro Cism, Erio Castellucci, Rossano Zas Friz De Col, Velasio De Paolis, in uno spazio di tempo decisamente insufficiente rispetto alla complessità storica, teologica, ecclesiologica, pastorale dell’argomento in questione.

Nel suo breve saluto di apertura dell’incontro, il segretario della Cei, mons. Giuseppe Betori, ha esordito dicendo che più è chiara l’identità dei religiosi, più incisiva sarà la loro attività sia nella Chiesa che nel mondo. Richiamando alcuni documenti del magistero, ha ricordato che ogni vocazione, nella sua realtà e nel suo impegno apostolico, ha come punto necessario di riferimento la chiesa locale. I religiosi presbiteri, a pieno titolo, fanno parte del presbiterio diocesano, allargandone, anzi, gli orizzonti apostolici. I religiosi presbiteri non potranno né dovranno, tuttavia, rinunciare a un sempre più ampio approfondimento della specificità del proprio carisma all’interno della chiesa locale.

Tutti, però, religiosi presbiteri e presbiteri diocesani non dovrebbero lasciar nulla di intentato in vista di una sempre più concreta conoscenza personale, di una reciproca stima e di una più fattiva collaborazione. È quanto auspicato soprattutto negli ultimi documenti pastorali dei vescovi italiani. Anche i religiosi non dovrebbero sottrarsi all’impegno comune di uscire decisamente da una pastorale abitudinaria per riscoprirne più convintamene il suo volto missionario. Le due scelte di fondo degli Orientamenti dei vescovi italiani, vale a dire la dimensione della Chiesa di popolo presente in un territorio e tutto il discorso sulla pastorale integrata, non possono essere impunemente ignorate anche dai religiosi. La Chiesa sarà tanto più vicina alla gente, quanto più i vari progetti pastorali delle singole chiese locali, saranno elaborati e contrassegnati dalla ricchezza dei carismi della vita consacrata.

Se il segretario della Cei non poteva dire cose più appropriate in quanto riferite, però, soltanto ad alcuni dei documenti pastorali più recenti dei vescovi italiani, la problematicità invece della figura del religioso presbitero è stata analizzata più a fondo sia da don Erio Castellucci, della facoltà teologica di Bologna, che dal gesuita Rossano Zas Friz De Col, della facoltà teologica dell’Italia meridionale. I due relatori si sono in parte sovrapposti soprattutto in riferimento alla ricostruzione storica del rapporto tra monachesimo e ministero ordinato, tra ministero dei religiosi presbiteri e quello dei presbiteri diocesani, dai primi secoli della vita della Chiesa fino al Vaticano II. Per Castellucci, la crisi d’identità del ministero ordinato (diacono, presbitero, vescovo) è in realtà il riflesso della crisi d’identità della Chiesa. Le differenti opinioni sul presbiterato dipendono sostanzialmente dalle diverse ecclesiologie soggiacenti. Da qui lo sforzo dell’autore di mediare tra le due tendenze che oggi costituiscono le due linee di forza della concezione del ministero ordinato, quella cristologica e quella ecclesiologica. “La questione fondamentale riguarda l’articolazione del riferimento cristologico con quello ecclesiologico, entrambi essenziali. Se viene assolutizzato il primo, il ministro si colloca “sopra” gli altri fedeli, come “mediatore” tra la Chiesa e Cristo; se viene assolutizzato il secondo, il ministro è semplicemente un “coordinatore” di doni che la comunità gestisce”. La proposta conclusiva di Castellucci è quella della “diaconia ecclesiale”, della “carità pastorale” come elemento spirituale specifico del ministero ordinato. Gli sviluppi futuri della teologia del ministero ordinato non potranno prescindere dalla maturazione di una teologia e di una spiritualità sia della chiesa locale (diocesi – parrocchia), sia della diaconia del ministero ordinato a servizio di quella chiesa locale. Ciò che purtroppo finora non è stato ancora fatto è proprio quello di dedurre da una visione ministeriale-pastorale del ministero ordinato tutte le conseguenze dogmatiche, spirituali e pastorali sia in riferimento al religioso presbitero che al presbitero diocesano.

 

POSSIBILI

VIE D’USCITA

 

Se un terzo dei presbiteri appartiene a istituti di vita consacrata, però “né il Vaticano II né i sinodi posteriori, ha esordito Zas Friz De Col, hanno considerato i presbiteri religiosi come una realtà con una identità propria nella vita e nella missione della Chiesa. Sono sempre stati considerati ambiguamente come presbiteri diocesani, quando si trattava del loro ministero incarnato in una diocesi, o come religiosi quando si considerava la loro situazione in quanto membri di un istituto religioso. E tuttavia non sono né presbiteri diocesani né religiosi. Sono presbiteri religiosi”.

L’ambiguità dell’attuale situazione è evidenziata anche dal fatto che “non esiste una giustificazione teologica e canonica dell’esistenza dei religiosi presbiteri, i quali finora hanno accettato passivamente l’assenza di una loro “identità ecclesiale” specifica”. Quando si è voluto porre qualche rimedio al diffuso malessere che nasce proprio dalla mancanza d’identità, non hanno saputo fare di meglio che operare una sintesi tra il ministero ordinato e la vita consacrata da una parte, oppure sottolineare la dimensione religiosa della loro vocazione dall’altra.

Una via d’uscita potrebbe essere quella di riconoscere che il presbitero religioso e il religioso presbitero sono una vocazione speciale nella Chiesa, che non è quella di essere presbitero e religioso, o religioso e presbitero, ma “un’unità chiara con una identità distinta preesistente”. Il problema per il religioso presbitero rimane sempre quello di ritrovare una propria identità nell’ambito del presbiterio universale della Chiesa, una identità “che incontra difficoltà a essere ufficialmente riconosciuta”. Infatti, “quale identità ritrovare, se non viene riconosciuta?”.

Il più grande ostacolo per portare avanti un programma di questo genere “continua ad essere l’assenza di una teologia del ministero ordinato del presbitero religioso, ancora da formulare”. Si dovrebbe provare storicamente, all’interno della comunità apostolica, la presenza di due modi di esercitare il ministero ordinato, quello residenziale e quello itinerante. All’interno poi di una ecclesiologia di comunione come quella promossa dal Vaticano II si potrebbero recuperare le due tendenze principali nella teologia del ministero ordinato, quella cristologica e quella ecclesiologica. A questo punto, perché non ipotizzare che la prima corrisponda a un orientamento più religioso e la seconda a una tendenza più diocesana nell’esercizio del ministero ordinato?

Zas Friz De Col ha concluso il suo intervento formulando tre suggerimenti. Dar vita, anzitutto, all’interno della Cism, a un gruppo di studio che valuti teologicamente e canonicamente la proposta di considerare il sacerdozio dei religiosi un carisma specifico. Inoltre, provare a ipotizzare una Chiesa italiana in cui tutti i presbiteri di una chiesa particolare siano considerati presbiteri diocesani. E infine, pensare, in un prossimo futuro, una collaborazione del religioso presbitero che non sia fondato soprattutto nel ministero parrocchiale, interrogandosi a fondo se nel futuro la parrocchia continuerà ad essere il centro dell’azione pastorale di una chiesa particolare.

Il riconoscimento ufficiale, invocato dal relatore gesuita, manca anche nel nuovo codice di diritto canonico del 1983. “La normativa del codice sul sacerdozio, ha detto mons. Velasio De Paolis, riguarda semplicemente il sacerdote in quanto tale, salvo “qualche breve cenno” ai sacerdoti appartenenti agli istituti di vita consacrata. Così pure la legislazione sugli istituti di vita consacrata e specificamente dei religiosi riguarda coloro che professano i consigli evangelici, tranne “qualche breve cenno” ai religiosi che sono anche chierici. Si può dire che in pratica il codice sembra ignorare il problema del presbiterio in quanto diocesano e in quanto religioso. La stessa terminologia “presbitero religioso” o “presbiterio diocesano” non sembra trovare particolare accoglienza nel codice che preferisce ancora il linguaggio di “sacerdote” con la specificazione di “secolare” o “religioso””. Il codice, in altre parole, legifera sui chierici quasi prescindendo dai religiosi, così analogamente tratta dei religiosi quasi prescindendo dai chierici. “Il codice si muove quasi come su due piani distinti e separati”.

 

COMPLEMENTARIETÀ

NELLA DIVERSITÀ

 

Con questo incontro, ha affermato p. Agostino Montan sintetizzando i lavori, “abbiamo solo incominciato a dipanare la matassa (della complessa problematica sul religioso presbitero), a individuare le componenti della crisi”. La tensione tra sacerdozio dei religiosi e sacerdozio dei presbiteri diocesani, con il Vaticano II, si è andata acutizzando per due ragioni. Se fino al concilio il tipo ideale di presbitero era il religioso alla cui spiritualità il presbitero secolare doveva attingere, dopo il concilio, invece, “il tipo di presbitero che meglio incarna il significato del ministero presbiterale è il pastore, cioè il presbitero in cura d’anime, vale a dire il presbitero diocesano che opera nella parrocchia”. Ma proprio per questo Zas Friz si chiedeva appunto se anche nel futuro la parrocchia avrebbe continuato a essere il centro dell’azione pastorale di una chiesa particolare.

La conseguenza di una simile tensione, ha osservato Montan, “è un vero e proprio capovolgimento teologico del tipo ideale di presbitero. Ormai l’identità presbiterale è espressa in maniera compiuta più dalla figura diocesana di presbitero che non da quella religiosa”. Anche da questo deriva la “scarsa considerazione da parte delle chiese locali dei religiosi chierici, usati per lo più per supplenze occasionali”.

Montan aveva sollecitato dai relatori una messa a punto del concetto di “diocesanità”. Anche per mancanza di tempo la richiesta è rimasta, di fatto, senza risposta. A suo avviso, comunque, la “diocesanità” “non può diventare principio escludente nei confronti dei presbiteri non diocesani”. Il problema aperto e tutt’ora senza soluzione è uno solo: come può un istituto religioso clericale dare un suo contributo specifico al prebistero diocesano. Anzitutto con la pratica dei consigli evangelici, ricordando, però, che, in quanto tali, “non sono esclusivi della vita consacrata”. Poi con la vita comunitaria, questa sì più specifica della vita consacrata. Inoltre, offrendo spazi di natura carismatica e profetica, come ad esempio l’accompagnamento spirituale, l’iniziazione e la pratica della lectio divina, la creazione di centri specializzati di spiritualità.

Ma soprattutto il religioso presbitero dovrebbe saper “offrire nelle parrocchie una specificità che viene dal carisma dell’istituto”. La vita consacrata “segna profondamente la vita e l’impegno del religioso prete”. È proprio “al cuore e al centro della vita religiosa che il ministero sacerdotale è distinto da quello del clero diocesano”. Non si tratta tanto di una differenza di sacerdozio, ma piuttosto di una “differenza di carisma ministeriale all’interno di un unico sacerdozio ministeriale”.

Sacerdozio religioso e sacerdote secolare, ha concluso Montan, “non sono differenti nella loro essenza, ma nelle loro modalità, nelle loro finalità, nei loro modi concreti di realizzarsi. Tra loro sono complementari e concorrono alla ministerialità globale della Chiesa”.

 

Angelo Arrighini