IL CONGRESSO DELLA VC DA UN’ALTRA PROSPETTIVA
EVANGELIZZATI DAI POVERI
Dalle sintesi dei
gruppi di studio si ottiene una visione più completa dei lavori congressuali.
Spiritualità, comunità, formazione permanente,
strutture di
governo, rapporti con la Chiesa locale e i laici, inculturazione del carisma e
solidarietà con i poveri: questi i temi più significativi.
I segni di vitalità
e la profezia avranno la meglio sui tanti ostacoli?
Tutto lo lascia
sperare. Le premesse non mancano.
Uno dei momenti più partecipati e significativi del
congresso internazionale sulla vita consacrata lo si è vissuto sicuramente
nella penultima giornata interamente dedicata ai gruppi di studio su una
quindicina di temi proposti dalla presidenza.1
Se già nei gruppi continentali (Testimoni, n. 3) era
stata offerta la possibilità ai congressisti di farsi portavoce delle urgenze
più assillanti del proprio continente, in questa seconda serie di gruppi è
stato chiesto ai congressisti di evidenziare i segni di vitalità, gli ostacoli,
le proposte di cambiamento su alcuni dei temi oggi maggiormente dibattuti. Può
forse sorprendere positivamente il fatto che, nella libera scelta dei
congressisti, i tre gruppi più numerosi, con circa 150 iscritti ciascuno, siano
stati quelli aventi come tema la spiritualità, la comunità, la formazione
permanente.
SETE DI DIO
E DELLA SUA PAROLA
«La sete di Dio e la ricerca di significato nella nostra
vita, si manifesta oggi nell’esperienza affascinante del Dio vivente. È la
parola di Dio che dobbiamo porre al centro della nostra vita. Solo questa
Parola ha il potere di trasformarci».
Quanto più ci si incammina consapevolmente verso “la
sorgente”, tanto più ci si rende conto allora degli ostacoli che derivano
spesso non solo da un’immagine sbagliata di Dio, ma anche da tanti discutibili
atteggiamenti che contraddistinguono la vita consacrata. Ci sono blocchi
interni alla singola persona, come nel caso di chi vorrebbe un Dio fatto a
propria immagine e somiglianza.
Ma ci sono blocchi anche all’interno sia della Chiesa che
delle comunità religiose, troppo appiattite, spesso, su un dialogo debole e
superficiale. «Nelle nostre comunità possiamo a volte notare mediocrità, un
certo accomodamento, una fuga nell’attivismo, nel professionalismo e una
ricerca di sé, un attaccamento alle devozioni e alle strutture del passato, una
vita comunitaria dove l’attenzione è posta più sulle strutture e sulla
burocrazia che sulle relazioni personali».
Le sempre più diffuse e frequenti relazioni “virtuali”
(internet) rendono i rapporti con Dio e con gli altri molto più difficili. Si
ha paura del silenzio e non si è più disponibili all’ascolto. Ci si deve
convincere che al fondamento di tutto c’è il Cristo. Su questa “roccia” si
dovrebbero coerentemente costruire tutti i percorsi di formazione iniziale e
permanente e ristrutturare la vita consacrata comunitaria in vista della sua
missione nella Chiesa e nel mondo. Attraverso la lectio divina, si dovrebbe
pervenire a guardare il mondo e la vita in una profonda dimensione di fede.
Ma non basta dare una formazione spirituale, bisogna
anche formare alla capacità di parlare della propria fede e di condividere con
gli altri le ragioni della propria esperienza di Dio.
Partendo dalla ferma convinzione che il Figlio di Dio
incarnato nella storia dell’uomo, Gesù Cristo, è il centro e il fondamento di
ogni esperienza di vita cristiana, non si potrà non fare dell’amore
preferenziale per Cristo l’unico elemento qualitativo della vita spirituale dei
consacrati. La convinzione che Gesù è presente nella storia dell’uomo fino alla
fine dei tempi, infonde gioia, speranza e audacia, libera da tutte le strutture
obsolete e dai tanti “falsi mariti” (di cui aveva parlato la relatrice
spagnola, Dolores Aleixandre, commentando l’icona della samaritana), invita a
spalancare e a trasformare le comunità in scuole di preghiera e in segni
visibili di Dio.
«Abbiamo la convinzione che la nostra apertura a Dio come
religiosi e religiose si raggiunge attraverso una preghiera meditata e
contemplata, una preghiera attraverso la quale saranno possibili il dialogo, la
riconciliazione e l’unità». Nessuna sorpresa allora se «i poveri ci
trasformeranno e ci evangelizzeranno, anzi ci permetteranno di trasformare noi
stessi e la nostra povertà proprio partendo dalla parola di Dio… quel Dio che si
servirà della nostra povertà per continuare a realizzare grandi cose».
IN COMUNITÀ
COME IN HOTEL?
Sollecitati da questa convinzione sarà allora più facile
vedere la vita comunitaria «come un luogo teologico del nostro incontro con Dio
e con gli altri» e quindi come luogo essenziale della missione dei consacrati.
È un fatto confortante che i giovani oggi sempre più spesso non ricerchino
nella comunità solo sicurezza ma anche «profonde e autentiche relazioni», nella
condivisione della fede, delle proprie esperienze, del pane materiale insieme a
quello della parola di Dio. Anche le sempre più frequenti comunità
internazionali diventano una valida testimonianza del regno di Dio, della
riconciliazione e della pace in paesi tormentati da conflitti etnici, religiosi,
o da disparità economiche.
Questo però non avviene sempre e ovunque. Sono ancora
troppi gli ostacoli che rendono problematica, molto spesso, la vita
comunitaria. Ai progetti comunitari si antepongono, e spesso si impongono, i
propri progetti personali. Il voler reagire a tutti i costi ad una certa
uniformità di comportamenti ereditata dal passato, fa sì che il vivere da soli
venga considerato un valore, trasformando spesso lo spazio comunitario in un
hotel vero e proprio.
L’uso esagerato e incontrollato delle nuove tecnologie
informatiche rischia di portare all’isolamento e ad una forma di indipendenza
personale, a tutto scapito della vita comunitaria.
C’è ancora troppa immaturità psicologica, a cui si
accompagna inevitabilmente una mancata corresponsabilità nella conduzione e
nella animazione della vita comunitaria. Si ha ancora troppa paura
nell’affrontare, anche a livello comunitario, le nuove sfide, non escluse
quelle sempre più frequenti derivanti dalle differenze culturali e
generazionali.
Tanti ostacoli cadrebbero sicuramente se solo ci si
sforzasse di usare un vocabolario e un linguaggio comuni tutte le volte che si
parla di dialogo, di comprensione dell’altro, di discernimento, di obbedienza e
di corresponsabilità. Troppe strutture «sono sempre più pesanti e non
corrispondono più alle esigenze della realtà presente».
Troppo spesso vengono bloccate sul nascere tante
iniziative comunitarie capaci di dare risposte concrete a bisogni reali. Sia
dentro che fuori le comunità c’è ancora poca trasparenza nel fornire adeguate e
puntuali informazioni sulle cose più importanti della vita di un istituto,
comprese le situazioni finanziarie.
Ogni comunità dovrebbe avere il coraggio e il
discernimento necessari per dichiarare “morte” certe opere, certi servizi non
più richiesti o rispondenti alle esigenze attuali. Non si conoscerà mai a
sufficienza il contesto in cui si opera, in modo di adeguarvi sempre più
fedelmente il proprio progetto apostolico comunitario.
Ogni istituto dovrebbe incoraggiare piuttosto che
guardare con sospetto nuove forme di vita comunitaria intercongregazionale,
ecumenica e anche tra religioni diverse, ben sapendo che anche questa, nella
vita di una comunità, può essere oggi un’autentica forma di testimonianza e di
evangelizzazione. Le conferenze nazionali e internazionali dei religiosi e
delle religiose, oltre a una sempre più ampia condivisione di persone e di
risorse finanziarie, dovrebbero favorire la conoscenza di esperienze e modelli
positivi in tal senso.
Nel momento in cui una comunità si apre al proprio
ambiente, lo deve fare anche in una prospettiva chiaramente vocazionale, non
solo per sé ma per tutta la Chiesa, valorizzando a questo scopo soprattutto la
preghiera e la testimonianza della propria vita. La preghiera personale dev’essere
integrata da quella comunitaria.
Alcune comunità, specialmente in oriente, sentono il
bisogno di esprimere il loro impegno nella preghiera anche in forme rituali più
rispondenti al contesto in cui vivono. Dovunque, la riconciliazione, la correzione
fraterna, insieme alla preghiera, non possono non essere “pietre miliari” nella
vita delle comunità religiose.
Gli artisti, è stato detto nel gruppo su arte e bellezza,
potrebbero sicuramente aiutare le comunità nel rendere sempre più belli i
propri spazi, soprattutto liturgici, con la ricchezza dei simboli della
tradizione cristiana.
Grazie alla loro opera la vita consacrata, nel suo
vissuto quotidiano, potrebbe più facilmente testimoniare la “terra nuova”
attraverso la musica, la pittura, il vetro, la pietra e le parole, convinti che
«questa comunicazione della bellezza farà nascere la gioia e la vita in mezzo
alla violenza e alla morte».
Parlare di comunità significa parlare anche di formazione
permanente, intesa sempre più oggi come «disponibilità attiva e intelligente a
lasciarsi formare dalla vita per tutta la vita». In questa definizione c’è
tutto Amedeo Cencini, coordinatore del gruppo e relatore della sintesi
presentata poi in aula, l’unico relatore italiano insieme a Gianfranca
Zancanaro, relatrice del gruppo sui mezzi di comunicazione di massa.
FORMAZIONE
O FRUSTRAZIONE PERMANENTE?
La formazione permanente è un atteggiamento interiore che
consente di crescere imparando dalla vita, soprattutto da Dio, dalla sua Parola
e dal suo mistero, dalla ricchezza del proprio carisma, ma anche «dagli altri,
da ogni fratello, santo o meno, dalla gente, dai poveri, da ogni cultura, in
ogni momento della vita e in qualsiasi ruolo, nel successo e nell’insuccesso,
da giovane o da anziano, da sano o da malato, lasciandosi toccare dalla vita e
cogliendo ovunque il minimo frammento di verità e bellezza».
La formazione permanente più profonda non può non essere,
allora, se non quella gestita direttamente dal singolo nel vissuto quotidiano e
portata avanti nella propria comunità. Per importanti che possano essere certe
forme straordinarie di formazione, come quelle fatte in corsi e incontri
particolari, tuttavia «va decisamente abbandonata l’idea antidiluviana che la
formazione permanente sia qualcosa di straordinario, fatto in alcuni momenti,
per alcune persone e che riguarda solo alcune aree di personalità».
Se la spiritualità è per sua natura l’elemento che fa da
sintesi tra i diversi ambiti della formazione, non va dimenticato che questa
«possiede anche una grande forza d’impatto sulla comunità stessa e sul gruppo,
incide sulla qualità della vita e della testimonianza, è l’anima del
rinnovamento e dell’animazione vocazionale».
Un istituto che investe sulla formazione, «investe sul
futuro». Questo, però, sta a significare che «la nostra vita o è formazione
permanente o è frustrazione permanente». E forse, è proprio questo «il vero e
unico problema della vita consacrata oggi».
A livello dei singoli, nel campo della formazione
permanente, uno dei maggiori ostacoli «è la rigidità mentale, con conseguente
senso di autosufficienza, paura, chiusura, fenomeni regressivi, ripetitività,
delega all’istituzione d’ogni progetto. C’è un certo narcisismo nei giovani, un
calo di passione nella fascia di mid-life, una rigidità e poca comprensione
negli anziani».
A livello di comunità troppo frequentemente sussistono un
certo disimpegno comunitario, con scarso senso di responsabilità fraterna e di
effettiva vita e crescita comune, una eccessiva mole di lavoro che compromette
seriamente i rapporti personali, soprattutto quando ci si trova di fronte a
differenze generazionali. A livello di istituzione, infine, c’è una scarsa
sensibilità nella proposta di percorsi formativi possibilmente più
personalizzati e correlati alle situazioni delle persone a cui ci si rivolge.
Mancano spesso superiori che sappiano essere anche animatori di formazione
permanente, così come manca frequentemente continuità fra formazione iniziale e
formazione permanente.
Proprio per tutte queste difficoltà va ripensata «la
stessa formazione iniziale, perché spesso non sembra creare nella persona la
convinzione di dover continuare la propria formazione né la disponibilità a
imparare dalla vita, da ogni realtà esistenziale, da ogni persona, dai piccoli,
i semplici e i poveri». Ma insieme va anche rivalutata la vita fraterna in modo
che «ognuno si senta responsabile dell’altro e tutti insieme s’impari a usare
gli strumenti d’integrazione del bene (progetto comunitario, discernimento
comunitario) come pure del male (correzione fraterna, revisione di vita). È il
passaggio dall’ideale della santità individuale a quello della santità
comunitaria».
Si tratta, in altre parole, di restituire o forse anche
di scoprire «la valenza intrinsecamente formativa, ad esempio della preghiera,
dell’obbedienza fraterna, del “lasciarsi toccare” dal limite altrui». Si tratta
ancora di pensare ad una vita comune «più semplice, più aperta a tutti, più
segnata dall’accoglienza cordiale reciproca, più luogo di condivisione della
stessa passione». Tutto questo non potrà non essere favorito dall’integrazione
della propria vita e della propria personalità attorno a Cristo e al mistero
pasquale «per fare di lui il cuore della propria storia, secondo il disegno del
Padre».
ANIMATORI,
NON AMMINISTRATORI
Se i temi dei gruppi sulla spiritualità, la comunità, la
formazione permanente sono stati tra i più “gettonati” dai congressisti, non
meno importanti comunque si sono rivelati anche i temi di tutti gli altri
gruppi. In quello, ad esempio, sulla cultura congregazionale si è provato a
interrogarsi a fondo su un problema sempre più attuale: i rapporti non solo tra
le varie entità di un singolo istituto, ma anche tra istituti diversi, sparsi
sempre più frequentemente in tutte le parti del mondo.
I cambiamenti in corso «portano a una maggiore
interdipendenza e promuovono la vitalità del nostro carisma in diverse culture,
come risposta più appropriata alle realtà dei paesi in cui siamo presenti». Di
fronte a questa realtà, non è facile ma è sempre più urgente saper interagire
tenendo conto delle tante diversità culturali, generazionali e anche di
mentalità. «Siamo testimoni di un crescente pluralismo e sappiamo e accettiamo
che questo è un processo ormai irreversibile».
Ma è anche un percorso compromesso da tanti ostacoli,
causati spesso dalla «sopravvivenza di tante forme di nazionalismo, di
tribalismo e di razzismo». Troppe strutture «svuotano le energie e soffocano il
dinamismo». La presenza di una cultura dominante o anche solo gli effetti di
una “gloriosa” storia passata rischiano di generare in continuazione conflitti
di potere e una sempre più scarsa visibilità della propria identità.
Le strutture dovrebbero allora promuovere valori quali la
partecipazione, la corresponsabilità, la solidarietà dentro e fuori la
congregazione, la disponibilità per la missione. Non si dovrebbe mai trascurare
lo sforzo di re-interpretare il proprio carisma e la propria spiritualità nella
diversità dei contesti ambientali e nella concretezza del tempo di oggi. Non è
più possibile «rimanere immobili».
Una grande responsabilità in questo non può non ricadere
soprattutto sulle strutture di governo, su quanti esercitano un’autorità. È
allora il caso di ricordare che superiori e non superiori «siamo tutti in
cammino», attenti sia alla sussidiarietà che alla corresponsabilità.
Consapevoli del fatto che la sete di potere gioca spesso
brutti scherzi, sia in chi lo detiene che in chi non ne ha, il buon rapporto da
una parte e dall’altra va costruito giorno per giorno. Arrivare ad una decisione
di gruppo e con il consenso unanime «è un’arte molto difficile». Far coincidere
un progetto comune con i progetti personali «diventa spesso un’avventura».
Lavorare per trasformare le strutture significa unirsi in
un processo continuo che richiede, sia ai superiori che a tutti gli altri
consacrati, pazienza e apertura alle diverse culture sempre più presenti non
solo negli istituti religiosi ma anche all’interno di una singola comunità. Più
le strutture sono agili, più è facile essere creativi, disponibili al
cambiamento dei propri schemi mentali. Spesso i piccoli progetti o le piccole
utopie non sono solo più fattibili ma anche più facilmente verificabili nei
loro concreti effetti.
I superiori devono avere fiducia nei propri confratelli e
consorelle, senza mai considerarli una minaccia per la propria autorità. È
nell’interesse di tutti incoraggiare il dialogo e far uso di processi che
favoriscono la partecipazione e una certa familiarità nei reciproci rapporti.
Prima che degli amministratori, i superiori si devono sentire degli animatori,
capaci di sviluppare tutte le potenzialità e di individuare e rispettare le
esigenze dei propri confratelli.
CANALI
SENZ’ACQUA
Solo in questo modo li sapranno aiutare a vivere in
profondità la castità consacrata come amore con un cuore indiviso per Dio,
segnato da una passione per Gesù Cristo e il suo vangelo. Il celibato è una
scelta libera. Solo in tal modo può diventare la via migliore per vivere la
propria sessualità in una forma pienamente equilibrata. È allora necessario
«fare tutto il possibile per abbattere i muri che abbiamo costruito tra Dio e
noi, e tra noi ed il prossimo, come il muro del silenzio e del sospetto, della
paura e della frustrazione, dei pregiudizi e dell’intolleranza».
Nel contempo si è sempre più consapevoli della necessità
di rinnovare ogni giorno il proprio impegno con il celibato, non rinnegando ma
anzi riconoscendo la specificità anche sessuale dell’uomo e della donna e senza
mai barricarsi dietro “falsi dei” come un disordinato attivismo che può portare
facilmente a considerare come propria un’opera che invece è prima di tutto di
Dio. Fortunatamente non mancano persone sempre più preparate capaci di
accompagnare e di assistere i propri confratelli e consorelle in questo
cammino.
Chiesa locale e laici sono stati altri due temi
importanti sui quali si sono confrontati, in appositi gruppi di studio, i
congressisti. Uno dei gruppi meno numerosi era quello relativo proprio ai
rapporti della vita consacrata con la Chiesa locale, indice eloquente dello
scarso interesse che, da questo punto di vista, ha connotato un po’ tutti i
lavori del congresso. Un diffuso atteggiamento, spesso molto critico nei
confronti della gerarchia, ha forse impedito di cogliere l’importanza invece di
un doveroso e corretto rapporto tra Chiesa locale e vita consacrata.
Nell’apposito gruppo, in cui erano presenti anche due
vescovi ex-religiosi, è stato ricordato che i religiosi, grazie soprattutto
alla teologia della santità e della comunione proposta dal Vaticano II, si vengono
a situare nel cuore stesso della Chiesa. È innegabile il loro contributo,
passato e presente, nell’allargamento degli orizzonti della Chiesa nei suoi
rapporti con le altre culture e nel dialogo sia ecumenico che interreligioso.
Altri evidenti segni di vitalità è facile trovarli nella
fioritura di tante nuove forme di vita consacrata insieme a quella dei
movimenti laicali nella Chiesa, nella formazione teologicamente più completa
anche nel mondo religioso femminile, in una sempre più accentuata e concreta
partecipazione dei consacrati alla vita della Chiesa locale.
Persiste, tuttavia, un diffuso atteggiamento di reciproca
e persistente sfiducia tra vita consacrata e Chiesa locale, causata spesso da
una insufficiente reciproca conoscenza. Se è vero che le “Mutuae relationes”
hanno aperto dei canali che scorrono da una parte all’altra, c’è da chiedersi
però fino a che punto vi scorra al loro interno «l’acqua del Vangelo».
Sono ancora diffuse le tensioni non solo tra diritto
proprio, inteso impropriamente a volte come pura autonomia, e inserimento dei
religiosi nella Chiesa locale, ma anche tra il carisma di un istituto religioso
e il piano pastorale di una diocesi. I vescovi, in particolare, dovrebbero
evitare il rischio di rapporti esclusivamente occasionali e funzionali con i
religiosi, solo per ottemperare alla carenza di clero nelle proprie parrocchie.
Va, invece, salvaguardata la realtà della comunione missionaria e profetica con
cui i consacrati intendono rapportarsi alla propria Chiesa locale. Aperti ad
una continua conversione personale e comunitaria, nessuno come loro, per certi
versi, ha saputo storicamente manifestare una costante fedeltà a Dio, alla
Chiesa, al loro carisma e all’umanità.
Questa comunione, però, non va mai data per scontata. E
pertanto non si dovrà lasciare nulla di intentato anche a livello di strutture
e di commissioni miste diocesane, nazionali, continentali. Non saranno mai
troppe le vie della reciproca informazione, della presenza comune, della
partecipazione e della corresponsabilità. È nell’interesse di tutti armonizzare
il più possibile i programmi dei singoli istituti con i piani pastorali
diocesani. Sono queste le occasioni in cui si intensificano le esperienze più
concrete e più profonde di comunione.
PAURA
DEI LAICI?
Parlare di Chiesa particolare e vita consacrata, in una
prospettiva di pastorale integrata su cui si sta molto insistendo oggi, ad
esempio, nella Chiesa italiana, significa anche riaprire il discorso del
rapporto con i laici. Dal Vaticano in poi si parlato molto di promozione dei
laici nella vita della Chiesa. In riferimento alla vita consacrata se ne è,
forse, parlato di meno, ma, in molti istituti, si sta facendo qualcosa di più.
Se non mancano casi frequenti di istituti che chiedono
l’aiuto indispensabile dei laici per sopperire in qualche modo alla carenza di
personale religioso, è altrettanto vero però che sempre più spesso dalla
semplice collaborazione si sta passando ad una condivisione vera e propria del
carisma di fondazione. Da tempo, un numero sempre più ampio di laici desidera
«camminare con noi, vivere la loro vocazione battesimale alla luce
dell’intuizione evangelica dei nostri fondatori e fondatrici, dissetandosi al
pozzo dei nostri carismi».
Si tratta di persone che «vogliono approfondire le nostre
spiritualità per meglio vivere i loro impegni di cristiani, di cittadini. Ci
fanno scoprire che i nostri carismi sono un dono per tutti i cristiani, per la
Chiesa, per il mondo». È una provocazione salutare che aiuta e che stimola i
consacrati a prendere più facilmente consapevolezza da una parte della
fecondità inesauribile dello Spirito, ma dall’altra anche delle debolezze e
forse anche di tanti inarrestabili processi di invecchiamento nella storia
della vita consacrata.
Troppo spesso i consacrati si comportano come gli unici
“proprietari” del proprio carisma. «Facciamo fatica a condividere la nostra
spiritualità, la nostra fede, la nostra vita con tutti i cristiani… La nostra
mentalità “clericale” ci fa dimenticare la specificità della vocazione dei
laici nella Chiesa e nella società».
Perché negare il fatto che troppo spesso «si ha paura che
i laici prendano il nostro posto in seno alla Chiesa?». Si ha paura «di essere
disturbati, di venire interpellati». Bisogna decidersi a passare decisamente dall’essere
per i laici all’essere con i laici. Non bastano più semplici rapporti di
amicizia. Questi rapporti vanno fondati su basi teologiche ed ecclesiologiche,
ponendo sempre al primo posto, al centro, il Cristo, non il proprio istituto,
non il proprio carisma, non il proprio fondatore. Solo in questo modo è
possibile vivere la ricchezza del proprio battesimo, la chiamata universale
alla santità.
«Assieme, nella reciprocità, vogliamo annunciare il
vangelo, costruire il regno di Dio nelle nostre società». Insieme «vogliamo
“fare Chiesa”, nel pieno rispetto di tutte le vocazioni e di tutti i carismi».
Solo allora si potranno più facilmente individuare anche possibili nuove
incarnazioni delle intuizioni carismatiche dei vari fondatori e fondatrici, in
una missione sempre più condivisa in stretto rapporto con la propria Chiesa
locale.
INCULTURAZIONE
E MASS MEDIA
Una serie di argomenti in qualche modo a sé è quella
riguardante l’inculturazione, la solidarietà con i poveri, la giustizia e la
pace, il dialogo interreligioso. Per ognuno di questi temi era stato previsto
un apposito gruppo di studio. Molti di questi temi erano già stati affrontati
anche nei gruppi di studio continentali, soprattutto in quello asiatico,
sfidato continuamente, in positivo e in negativo, dal triplice dialogo con i
poveri, con le culture, con le religioni.
La presenza, anche nelle singole comunità e non solo
negli istituti, di persone appartenenti a culture diverse obbliga
necessariamente non solo a superare le barriere linguistiche ma anche a trovare
faticosamente un modo per salvaguardarne le specificità e le diversità anche
semplicemente nella preghiera comunitaria e in una celebrazione liturgica.
Capire, però, i processi di inculturazione non è semplice. E, forse, in
congresso se ne è parlato spesso con eccessiva disinvoltura, dando per scontati
certi presupposti che, invece, avrebbero più utilmente richiesto una
precisazione non solo terminologica ma anche concettuale.
Non è possibile rinunciare impunemente ad alcuni valori e
ad alcune tradizioni, soprattutto religiose, fortemente radicate nella propria
cultura. Non è possibile incarnare un certo carisma in una cultura africana od
asiatica, senza prima rimuovere, come è stato detto in congresso, «il mito
della superiorità dell’occidente».
La rimozione, ad esempio, di ogni dimensione di
affettività nelle celebrazioni liturgiche, in tanti paesi del sud del mondo è
inconcepibile. Troppo spesso i gruppi fondamentalisti si impongono proprio
«grazie al fatto che nelle loro celebrazioni occupano un posto centrale i canti
vivaci, le prediche da parte dei membri e le promesse di guarigione». Molti
simboli della liturgia cattolica sono andati perduti nelle nuove generazioni.
La Chiesa stessa è spesso vista come un ostacolo
all’inculturazione. Se è vero che la Chiesa cattolica in questo campo ha una
lunga tradizione, tuttavia ci si stupisce come oggi, a volte, sia troppo «lenta
a riconoscere il bisogno di un cambiamento culturale più profondo». Può
succedere che i vescovi stessi, a volte, non conoscano adeguatamente la cultura
delle regioni ecclesiastiche loro affidate.
Anche lo stile di vita di tanti religiosi è spesso visto
come una “barriera” all’inculturazione. Il secolarismo, il consumismo,
l’individualismo, l’uso incontrollato dei mass media, insieme ad una frequente
dipendenza finanziaria da parte delle province occidentali, nei paesi del sud
diventano seri ostacoli al processo di inculturazione.
La stessa formazione dei canditati alla vita consacrata
corre fortemente questo rischio ogniqualvolta i formatori, spesso di origine
occidentale, «non hanno ricevuto un’adeguata preparazione per un ambiente
interculturale». È allora inevitabile l’imposizione di schemi formativi
estranei a una determinata cultura, limitandosi piuttosto ad una “istruzione”
che non ad una «iniziazione ad uno stile di vita culturalmente diverso».
Ciononostante, molte congregazioni religiose «vivono
positivamente oggi un ricco pluralismo culturale». Da qui l’urgenza di alcune
linee di condotta, di alcune trasformazioni strutturali perché «la vita
consacrata diventi un sacramento più visibile di fraternità in un mondo di
culture spesso tra loro in conflitto».
Fino a che punto, però, certe strutture, certe opere,
certi servizi validi e significativi in alcuni contesti, possono esprimere fino
in fondo il proprio carisma anche in realtà culturali totalmente diverse? Il
vangelo di Cristo può e dev’essere nuovamente incarnato in tutte le culture
oggi conosciute. E forse i religiosi, soprattutto, aggiungiamo noi, quelli appartenenti
a istituti missionari, potrebbero e dovrebbero avere una vocazione speciale per
favorire questo processo.
In un mondo che genera sempre nuove esclusioni, i
consacrati impegnati in prima persona nel campo dell’evangelizzazione, della
solidarietà, della giustizia e della pace, del dialogo e dell’incontro tra
persone appartenenti a religioni diverse, hanno spesso una maggior
disponibilità mentale a mettersi nelle condizioni dell’altro, superando
barriere di ogni tipo.
Non per nulla, è stato detto in congresso, «quando gli
altri se ne vanno, loro rimangono rischiando la vita, in molti casi arrivando
fino al martirio, dando così un segno di solidarietà radicale con gli esclusi».
La riscoperta continua delle proprie radici carismatiche ha sicuramente risvegliato
in molte congregazioni un maggior impegno profetico, una posizione di
autocritica evangelica soprattutto nei confronti di tutto un sistema economico
neo-liberale che esclude sempre di più i poveri.
A questo scopo è indispensabile un nuovo e più sapiente
rapporto anche dei consacrati con i mass media. L’ostacolo più preoccupante in
questo campo è la “demonizzazione dell’altro”. Sia i mass media sia i gruppi
ecclesiali, troppo spesso, temono e diffidano l’uno dell’altro. La frequente
incapacità dei consacrati e delle persone di Chiesa a interagire e dialogare
autorevolmente con questi strumenti fa perdere ogni credibilità alla loro
testimonianza.
Nelle comunità religiose è ancora molto diffusa una certa
paura nei confronti, ad esempio, di tutte le tecnologie informatiche. Insieme,
però, manca un’avveduta consapevolezza non solo nell’uso di queste tecnologie,
ma anche dell’unilateralità, della faziosità e della manipolazione nella gran
parte delle informazioni veicolate dai mass media. La formazione di specialisti
anche in questo ambito è urgente. Saper interagire con i mass-media in maniera
intelligente non è facile. Oltre alle persone professionalmente preparate,
servono anche tempo e denaro. Non è meno importante, poi, soprattutto quando
dei religiosi gestiscono in proprio questi mass media, «avere anche il coraggio
di mostrarci così come siamo realmente, con i nostri valori e le nostre
debolezze. La nostra più grande sfida è saperlo dire in un linguaggio
comprensibile alla gente a cui ci rivolgiamo».
OPZIONE
DEI POVERI
Purtroppo tante strutture attuali di vita consacrata
«appartengono ad un’altra epoca». È ancora troppo diffusa «la difesa incoerente
di un comportamento del tutto incompatibile con la dimensione profetica della
nostra vocazione», con il rischio frequente di “annientare” la solidarietà
effettiva con gli esclusi della società.
Sono ancora tante le paure che paralizzano spesso una
vita consacrata: paura del rischio, delle novità, delle differenze, paura di
perdere il potere, paura dell’insicurezza inevitabile quando si ha a che fare
con gli esclusi, paura, infine, di entrare in conflitto con una gerarchia che,
a volte, frena la creatività.
E invece bisogna avere il coraggio di andare verso nuovi
luoghi di missione, verso i nuovi “areopaghi”, molti dei quali, come ad esempio
i mezzi di comunicazione sociale, si trovano soprattutto nei paesi occidentali.
La vita consacrata deve avere, inoltre, il coraggio di trovare nella Chiesa un
suo posto, un posto che le garantisca la sua missione profetica e una forma di
governo che faciliti la decentralizzazione e la sussidiarietà in funzione di
una sempre più reale incarnazione della missione. «Bisogna insistere sul nostro
spazio di libertà come istituti religiosi – tanto a livello di istituto che di
conferenze nazionali e internazionali – in modo che venga garantita
l’espressione propria di ogni carisma e la vita consacrata possa essere un
elemento significativo della vita della Chiesa».
Proprio partendo dalle tante forme di esclusione vissute
spesso in prima persona dai religiosi, è più facile comprendere quanto sia
importante non escludere mai nessuno all’interno sia della Chiesa che della
società. «Abbiamo bisogno di manifestare il nostro fermo rifiuto per ogni abuso
di potere all’interno e fuori della Chiesa».
Ma insieme bisogna avere il coraggio di rivedere il
proprio stile di vita, il proprio lavoro, le proprie strutture finanziarie e
quelle pastorali, in vista di una fondamentale “opzione per i poveri”, i soli
capaci di aiutare i religiosi «a vivere una vita provvisoria e a totale
disposizione per la missione». Solo in questo modo potrà essere evitato il
rischio di fare dei consacrati «una classe sociale distanziata dalla vita della
gente».
I religiosi non possono non essere presenti là dove la
dignità umana è più minacciata. Non possono non dar vita a strutture anche
intercongregazionali per consentire alla vita consacrata «di dare delle
risposte effettive alle situazioni più drammatiche presenti nel mondo».
Malgrado le violenze, le guerre e tutti i
fondamentalismi, sono sempre più numerosi gli spazi e i luoghi di convivialità,
di incontro, di celebrazioni, di amicizia, di progetti comuni, di risposte alle
sfide odierne del mondo nei campi della promozione umana, della giustizia e
della pace, della risoluzione dei conflitti, della lotta alle malattie come
l’Aids.
Purtroppo però «la fragilità della nostra fede, le
incomprensioni reciproche, l’ignoranza, la paura, i pregiudizi, le ferite della
storia e le ferite personali, il desiderio di dominare e di imporsi rendono
difficile un vero dialogo alla pari». Sono ancora troppo diffusi atteggiamenti
decisamente contrari al dialogo interreligioso come la politicizzazione delle
religioni, il fondamentalismo crescente, la discriminazione in base al credo religioso,
la creazione di stati teocratici, etnici, la proliferazione delle sette, la
frammentazione e la disintegrazione delle appartenenze.
Il Vaticano II, è vero, ha incoraggiato il dialogo
interreligioso. Ma il problema di fondo, ancora insoluto, e sul quale si è
forse sorvolato troppo in fretta durante i lavori del congresso, è quello di
riconoscere i valori delle tradizioni religiose e spirituali diverse da quella
cristiana da una parte, e di riaffermare l’universalità della “buona notizia”
di Gesù Cristo, unico Salvatore dell’uomo dall’altra.
«Il dialogo, però, deve cominciare innanzitutto tra noi,
nelle nostre comunità di vita, trasformandole in luoghi di accoglienza delle
differenze, di perdono e di riconciliazione».
È impensabile il dialogo al di fuori di un reale processo
di inculturazione della propria fede in tutti i suoi fondamentali aspetti
formativi, liturgici e caritativi. Il dialogo porta inevitabilmente alla
conversione ed alla trasformazione delle mentalità. Solo in questo modo, nella
più assoluta gratuità e in uno spirito di profonda accoglienza, è possibile
scoprire l’opera di Dio nell’altro.
Angelo Arrighini
1 Le sintesi complete dei 15 gruppi di studio sono
reperibili nell’edizione spagnola degli Atti, “Pasión por Cristo, pasión por la
humanidad”, Publicaciones Claretianas, Madrid, 2005.