IMPLICAZIONI ETICHE DEL CASO TERRI SCHIAVO

UNA SCONFITTAPER LA VITA UMANA

 

La Corte Suprema USA, che si era rifiutata per cinque volte di essere coinvolta nella vicenda, si è pronunciata con una sola frase senza spiegare i motivi del rifiuto. È stata l’ennesima sconfitta giudiziaria che ha significato per Terri la condanna a morte. Dietro a questa scelta, tre grandi bugie.

 

La decisione di respingere l’estremo ricorso dei genitori di Terri Schiavo, da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti, di ripristinare l’alimentazione della loro figlia, in coma dal 1990, ha significato per Terri una vera e propria condanna a morte; è stata lasciata morire per denutrizione e disidratazione.

Si è trattato di una vicenda che ha suscitato grande emozione in tutto il mondo e che, per le implicazioni morali ed etiche che ne derivano va ben al di là del semplice fatto di cronaca. È importante non lasciarla cadere presto nel dimenticatoio e rendersi conto di che cosa è stato messo in gioco, ossia ancora una volta la vita umana. Ben presto l’onda lunga di questo drammatico episodio potrebbe riversarsi con la tutta la sua forza devastante anche su altre sponde al di qua dell’oceano, tra cui le nostre, dove non mancano già spinte sempre più consistenti tese ad abbattere barriere morali ed etiche considerate finora invalicabili.

In un articolo quanto mai serio e appropriato, apparso sull’Osservatore Romano dell’1 aprile – che merita di essere fatto conoscere – Gian Luigi Gigli, presidente della Federazione internazionale delle associazioni dei medici cattolici ha scritto infatti che «le avvisaglie di questo tsunami culturale si sono già viste nel mare di idiozie pubblicate nei giorni scorsi da autorevoli opinion leaders e affermate con disarmante disinvoltura nei talk show televisivi».

 

QUANDO PREVALE

IL SENSAZIONALISMO

 

«È stato detto, scrive Gian Luigi Gigli, che la povera Terri era in “coma vegetativo”, che non aveva più cervello, che bisognava staccare la spina, che era tenuta in vita grazie alle macchine, che bisognava fermare l’accanimento terapeutico portato su un malato ormai terminale e comunque irrecuperabile. Vi è stato chi ha paragonato la vita di Terri a quella di un vegetale, incapace di avvertire alcuna sensazione e alcun dolore. Addirittura vi sono stati filosofi televisivi che hanno affermato non trattarsi più di vita umana, mentre ex-ministri hanno parlato di condizione intermedia tra la vita e la morte. Anche qualche autorevole rivista scientifica è caduta nella trappola del sensazionalismo, affermando che avevamo di fronte una paziente con elettroencefalogramma piatto, la condizione che si osserva nella morte cerebrale. Per tale paziente sono stati molti i maîtres à penser che si sono scandalizzati per le sonde disumane e invasive con cui la paziente sarebbe stata tenuta artificialmente in vita e che hanno invocato per lei la morte pietosa “senza sofferenze” derivante dalla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione».

Molto opportunamente Gian Luigi Gigli osserva che in tutta questa «triste vicenda» e a causa della confusione che si è sollevata attorno a essa, occorre incominciare a precisare i confini delle cose, chiamandole con il loro nome.

La prima cosa da precisare si pone sul piano scientifico: «Il paziente in stato vegetativo non è in morte cerebrale, perché il suo cervello, in maniera più o meno imperfetta, non ha mai smesso di funzionare. Non è neanche in coma, tant’è che resta sveglio, ad occhi aperti. Il suo elettroencefalogramma non è piatto, potendo addirittura alternare fasi di veglia e fasi di sonno. Non vi è nessuna spina da staccare, per il semplice motivo che il paziente non è connesso ad alcuna macchina. Non è un malato terminale, visto che con la sola assistenza di base (l’idratazione e la nutrizione anzitutto), può vivere per numerosi anni. Non è un malato necessariamente irrecuperabile, se si considera che la definizione di stato vegetativo permanente non ha valore diagnostico, ma esclusivamente prognostico, indicando solo che le possibilità di recupero si riducono con il passare del tempo. Non è un paziente privo di sensazioni, visto che i potenziali evocati possono mostrare l’arrivo dello stimolo alla corteccia. Pur mancando spesso indicazioni su ulteriori elaborazioni corticali di tali segnali, sono stati anche ben documentati scientificamente casi in cui un rudimentale processo di discriminazione e di riconoscimento era tuttavia possibile. Il paziente in stato vegetativo non ci dice se avverte dolore, ma lo stimolo doloroso perviene al suo cervello e le nostre conoscenze sulla fisiologia del dolore sono ancora insufficienti per essere certi che l’assenza di evidenze costituisca una evidenza dell’assenza di ogni dolore».

É necessario, inoltre osservare, che «i pazienti in stato vegetativo non sono tutti uguali tra loro. Le immagini che esplorano l’anatomia (come la RMN) o la funzionalità del loro cervello (come la PET e la RMN funzionale) mostrano un’ampia variabilità delle risposte da caso a caso. Anche per tali motivi la diagnosi di stato vegetativo non è facile e importanti studi indicano margini di errore superiori al 30% anche in centri qualificati».

«Un altro mito da sfatare è quello delle sonde con cui viene portata l’alimentazione al paziente. Esse sono state dipinte come congegni infernali, poco rispettosi della dignità del paziente. In realtà, il sondino naso-gastrico è una procedura assistenziale largamente utilizzata, praticata di solito solo nelle fasi iniziali dello stato vegetativo, mentre, per quanto riguarda la PEG, si tratta di una procedura molto ben tollerata, maneggevole, gestibile a domicilio anche da personale non sanitario, invisibile al pubblico al di sotto degli abiti del paziente. Vi sono pazienti con malattie non cerebrali che debbono essere nutriti con la sonda PEG per anni, senza che ciò impedisca loro una vita di lavoro e di relazioni».

«Infine, una considerazione sulla bella morte inflitta alla povera Terri, una morte definita serena, pacifica e senza sofferenze, realizzata facendo morire di fame e di sete un organismo definito aprioristicamente come incapace di sentire ogni dolore. In realtà, la morte per fame e per sete è una lenta agonia che devasta lentamente tutto l’organismo. Il paziente in stato vegetativo può soffrirne, in modi che non sappiamo, a tal punto che gli stessi promotori della procedura praticano in parallelo la totale sedazione del paziente con morfina, in modo da evitare il rischio che il suo organismo manifesti i segni fisici di una ribellione al dolore eventualmente avvertito. Si tratta di una morte così disumana che, se qualcuno di noi l’infliggesse a un cane, si vedrebbe condannato per sevizie e maltrattamenti».

«Ciò detto in generale per vedere sotto una luce più realistica lo stato vegetativo e prima di passare a esaminare le conseguenze di questa disgraziata vicenda, occorre chiarire che il deliberato e barbaro omicidio di Terri Schindler Schiavo viene effettuato su una povera paziente che non era nemmeno in stato vegetativo. Dall’esame dei filmati e secondo l’opinione di illustri colleghi americani, la paziente poteva al massimo essere definita come una condizione di coscienza minima (MCS) o come uno stato neurologico di basso livello (LLNS), capace di alcuni elementari movimenti, di una mimica rudimentale, di una parziale capacità di deglutire. A tale paziente sono stati negati approfondimenti diagnostici (come PET e f-RMN) ed interventi riabilitativi negli ultimi 10 anni, fino al punto da negarle di ricevere la comunione durante i giorni della fame e della sete, affinché nessun occhio indiscreto potesse valutare la sofferenza causata dalla sospensione della nutrizione e dell’idratazione».

 

TRE GRAVI

FALSITÀ

 

Terri Schiavo, osserva senza mezzi termini Gian Luigi Gigli, è stata messa a morte sulla base di tre falsità.

«La prima è che la nutrizione e l’idratazione assistite costituiscano una forma di «trattamento medico» e non un elemento fondamentale dell’assistenza di base al paziente (insieme alla mobilizzazione e all’igiene).

La seconda bugia è che Terri Schiavo abbia dovuto essere messa a morte per rispettare la sua volontà di non ricevere il «trattamento medico» della nutrizione e idratazione assistita. Si tratterebbe quindi del rispetto del principio di autonomia del paziente. Una discussione sui limiti delle direttive anticipate va oltre le intenzioni di questo breve scritto. Non si può tuttavia evitare di sottolineare come, nel caso specifico, la rilevazione della volontà presunta della paziente si basi solo sulle dichiarazioni generiche di una conversazione informale, risalente a molti anni prima, rivelata da un marito quanto meno sospettabile di conflitto di interessi e contrastante con la volontà presunta di Terri indicata dai suoi genitori e fratelli. Come poter affidare le decisioni sulla vita umana a una conversazione generica di qualche anno prima circa la nutrizione per sondino? Sarebbe giudicata una prova insufficiente anche in un processo penale, tanto più quando si tratta di mettere a morte una donna sicuramente innocente!

Quando una simile concezione dell’autonomia del paziente viene sottoposta a critica, coloro che hanno stabilito che Terri deve, in ogni caso, morire invocano infine l’ultima falsità di questa tristissima vicenda: la sospensione dell’assistenza di base (idratazione e nutrizione) sarebbe non solo giustificata, ma doverosa sulla base dei principi di futilità, straordinarietà (sproporzionalità) ed eccessiva onerosità che fondano ogni giudizio etico sulle cure. Peccato che un trattamento che raggiunge efficacemente per anni il suo scopo di nutrire, che costa poco e non richiede macchine e che viene ben tollerato da milioni di pazienti per le più diverse patologie non possa certo essere definito futile, sproporzionato o eccessivamente oneroso, se non a prezzo di falsificare la verità».

Sappiamo purtroppo che una larga fetta della società americana si è dichiarata d’accordo con la decisione di far morire Terri. Ora, osserva Gian Luigi Gigli, dietro a questa vicenda si nascondono inquietanti verità, che vanno al di là del caso specifico e assumono valore universale, sui cui occorre bene riflettere prima che sia troppo tardi per la nostra società.

«Non sono l’idratazione e la nutrizione a essere futili, ma è la vita dei pazienti come Terri a essere considerata futile, priva di significato. Non è la PEG a essere sproporzionata, ma il dover assistere pazienti a cui non è dato tornare ad essere «sani e belli». Non è il «trattamento» a essere eccessivamente oneroso per il paziente, ma è la vita stessa di tanti soggetti con gravi disabilità croniche, che la nostra società considera un fardello di cui fare volentieri a meno.

Per mascherare l’intrinseca immoralità di tali conclusioni, si ricorre allora a divagazioni molto pericolose sulla insufficiente qualità di vita che qualificherebbe i pazienti in stato vegetativo e quelli che, come Terri, assomigliano loro.

Sulla base di un giudizio inappellabile calato dall’esterno, la qualità della vita viene giudicata insufficiente a tutelare la vita stessa quando il paziente non è in grado di mantenere una sufficiente capacità di relazione, quando non dimostra una sufficiente consapevolezza, quando non ha alcuna speranza di accettabile recupero, quando non è in grado di esprimere una autonoma volontà, quando non è in grado di comunicare le proprie decisioni. In tali condizioni, si tratterebbe appunto di vita non più umana o, con più sottile sofisma, avremmo di fronte esseri umani privi ormai dei requisiti ritenuti minimi per qualificare una persona umana».

 

INQUIETANTI

PROSPETTIVE

 

È facile a questo punto, scrive ancora Gian Luigi Gigli, tirare le conclusioni e rendersi conto del perché il caso Schiavo apre inquietanti prospettive.

«Innanzitutto, a partire dal giorno successivo alla morte di Terri, gli stessi gruppi di opinione che hanno richiesto la sospensione della idratazione e della nutrizione chiederanno che si possa arrivare alla morte in modo più rapido e meno doloroso (senza dover imbottire di morfina il paziente). Sarà un argomento decisivo per la legalizzazione dell’eutanasia negli USA e, dopo gli USA, nel mondo intero.

Inoltre, se una società opulenta come quella americana ritiene ormai uno sperpero finanziario l’assistenza ai malati senza speranza, è il livello complessivo di attenzione alla fragilità a essere messo in discussione, con danno irreversibile per il principio di solidarietà nell’assistenza.

Infine, se i pazienti in stato vegetativo sono da considerarsi esseri umani la cui vita è ormai indegna di essere vissuta, ai quali non vengono più riconosciuti lo statuto e i diritti di persona umana, allora tale principio discriminativo può estendersi a molte altre categorie di pazienti, ugualmente privi di autonomia, di vita di relazione, di consapevolezza, di capacità di comunicare le proprie decisioni.

Si tratta dei dementi, dei ritardati mentali, dei coma prolungati, dei neonati gravemente malformati. In nome di un superiore tribunale della dignità umana verrà instaurato un regime discriminativo che è in netta contrapposizione con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e che è foriero di ulteriori pericolose derive democratiche. Lasciata Atene e l’umanesimo, torneremo a Sparta e alla selezione dei migliori».