PER VIVERE IN COMUNIONE

QUALE VITA FRATERNA?

 

Sei indicazioni concrete per costruire nella fatica di tutti i giorni la comunione fraterna. Se ai superiori spetta il compito dell’animazione, è impegno di tutti favorire e assumere quegli atteggiamenti su cui si fonda la vera vita fraterna.

 

Quale cammino concreto per vivere la spiritualità della comunione?

Seguo alcune indicazioni dell’esortazione lettera apostolica Novo millennio ineunte, del papa, riprese dall’Istruzione Ripartire da Cristo, della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, pensando soprattutto al compito animatore dei superiori e delle superiore.1

 

Avere il coraggio di ridirciperché siamo insieme

 

Innanzitutto occorre che il superiore aiuti tutti a dichiararsi esplicitamente, l’un l’altro, la volontà di camminare insieme alla sequela di Cristo.

Occorre aiutare a dirsi e ridirsi il comune progetto, così da approfondire insieme il motivo per cui siamo insieme.

Si può approfittare soprattutto di momenti particolari quali i ritiri, gli incontri comunitari, i tempi di preghiera, ma forse anche determinati momenti di distensione vissuti in fraternità possono essere l’occasione per parlare dei nostri ideali.

 

Vederci nuovi ogni giorno

 

La costruzione della comunità richiede inoltre un particolare atteggiamento di fede, ossia

la capacità di vedere l’altro sempre con occhi nuovi. Si tratta di un autentico atteggiamento di fede, perché nelle persone che Dio ci pone accanto nel cammino della sequela occorre riconoscere la presenza stessa di Cristo.

«Spiritualità della comunione – leggiamo nella Novo millennio ineunte – significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto. (…) Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un “dono per me”, oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto».

È questa fede che fa andare al di là di una valutazione puramente umana dei membri della comunità, che li vede negli aspetti negativi che inevitabilmente emergono.

Il superiore deve avere lui e deve aiutare ad avere un atteggiamento di fede, che sa guardare sempre con occhi nuovi, che sa credere sempre nell’altro, che dà costantemente fiducia all’altro. Più che sentirsi giudicata ogni persona ha bisogno di sentirsi accolta così com’è e amata. Ed è questo calore da cui è circondata che addolcirà una particolare angolosità, che darà luce per capire quanto c’è da cambiare nella propria vita, e così via.

Si rivela qui indispensabile il perdono reciproco. Occorre mettere in preventivo gli sbagli dell’altro e quindi essere pronti, secondo la norma data da Gesù alla sua comunità, a perdonare settanta volte sette (cf. Mt 10,21). Il perdono implica anche la rinuncia a imbrigliare l’altro in propri schemi rigidi. L’amore dà fiducia e crede nella possibilità di rinnovarsi dell’altro, spera nella sua risurrezione, perché l’amore «tutto copre, tutto crede, tutto spera» (1Cor 13,7).

 

Servirci nella concretezza della carità

 

La concretezza dell’amore si esprime innanzitutto nel servizio. È questo il primo insegnamento sul modo di amare che Gesù stesso ha impartito. Lui è «venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20, 28), consumando sulla croce l’estremo suo amore. Poco prima di morire aveva espresso plasticamente la concretezza del modo di amare lavando i piedi ai discepoli e invitandoli a fare altrettanto: «Anche voi dovete lavare i piedi gli uni degli altri» (Gv 13, 14). Il superiore è colui che serve, lo si sa, ma questo deve tradursi in atteggiamenti concreti.

L’atteggiamento di umiltà e di concreto servizio è il modo evangelico di porsi davanti all’altro. Una comunità può crescere nell’amore a condizione che ognuno lavi i piedi all’altro, nel duro della vita quotidiana, nei piccoli gesti, nel silenzio nascosto che non aspetta riconoscimenti: “Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra” (Mt 6,3).

 

Sapere accoglierci nella reciprocità dell’amore

 

Un ulteriore aspetto dell’amore che costruisce la comunità è quello dell’accoglienza che porta a immedesimarsi con l’altro, fino a far proprie le sue ansietà, i suoi dolori, le sue gioie, le sue preoccupazioni, i suoi successi.

L’amore è dimentico di sé e tutto proteso verso l’altro. L’altro va accolto e amato così come è, non come vorremmo che fosse. È questo che ogni membro della comunità si aspetta, come prima cosa, dal suo superiore. Occorre rinunciare alla tentazione di volere l’altro a propria immagine e somiglianza o secondo i propri gusti. Si tratta piuttosto di saper gioire della diversità, della ricchezza della complementarità dei doni, così come ci hanno insegnato i fondatori delle comunità richiamandosi all’immagine paolina dell’unico corpo e delle differenti membra.

«Spiritualità della comunione – leggiamo in Novo millennio ineunte – significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell’unità profonda del Corpo mistico, dunque, come “uno che mi appartiene”, per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia. (…) Spiritualità della comunione è saper “fare spazio” al fratello, portando “i pesi gli uni degli altri” (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie».

Per capire l’altro e accoglierlo nella propria individualità, come un dono, occorre entrare nel suo stesso mondo interiore e vedere con i suoi occhi, sentire con i suoi sentimenti, condividere la sua stessa vita, condividere tutto di lui. È l’invito di Paolo a farsi greco con i greci, giudeo con i giudei, debole con i deboli, l’invito a farsi tutto a tutti (cf. 1Cor 9, 19-23).

È gioire con chi gioisce e piangere con chi piange e avere i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri (cf. Rm 12, 5). Si tratta, anche in questo, di una dimensione tipicamente pasquale. Sulla croce Gesù ha portato all’estremo il «farsi tutto a tutti», condividendo tutto di noi: Lui che non conosceva peccato si è fatto peccato per noi (cf. 2Cor 5, 21), ha provato la nostra separazione dal Padre (cf. Mc 15, 34), si è sottoposto alla nostra stessa morte (cf. Fil 2, 6-8). La nostra condivisione, sul modello di quella di Cristo, non è data da un semplice sentire-con, ma da un reale «portare i pesi gli uni degli altri» (cf. Gal 6, 2).

Accogliere significa anche saper amare col cuore. Ogni membro della comunità vuol sentirsi considerato come unico dal suo superiore, non uno dei tanti. L’amore per il fratello non è infatti un amore platonico. Pietro invita ad amarci gli uni gli altri «sinceramente come fratelli», «intensamente, di vero cuore» (1Pt 1,22). Un amore intero, capace di rendere «partecipi delle gioie e dei dolori degli altri» e di essere animato «da affetto fraterno» (1Pt 3,8-9).

Accogliere implica ancora capacità di ascolto, perché l’altro possa sentirsi capito fino in fondo. L’amore sa farsi silenzio e ascolto. In genere i superiori hanno tanto da fare e dedicano poco tempo a un ascolto paziente dei membri della loro comunità. In una comunità occorre saper perdere tempo per ascoltare.

Accogliere vuol dire anche lasciarsi accogliere, poiché amare significa saper lasciarsi amare.

 

Amare per primi

 

Altro atteggiamento tipico dell’amore che edifica la comunità è quello della gratuità. Siamo infatti figli di un Padre che ha amato per primo (cf. 1Gv 4,19). «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. (...) Quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo» (Rm 5, 8-10).

Sta sempre al superiore fare il primo passo, senza aspettare che siano i membri della comunità ad andare verso di lui.

L’amore prende sempre per primo l’iniziativa d’amare, sull’esempio dell’agape divina.

La tentazione, nella vita comunitaria, è quella di esigere di essere amati, di aspettare che sia l’altro a risolvere le situazioni, di pretendere che sia l’altro a muovere il primo passo per ricostruire i rapporti quando fossero stati compromessi. L’amore invece ama gratuitamente, ama per primo, senza pretesa alcuna. Trova nell’amore stesso la motivazione del suo amare.

 

Condividere il vissuto

 

In questa comunione fraterna possiamo giungere a donare quanto Dio va operando dentro e attorno a noi: i passi in avanti compiuti, i frutti dell’apostolato, come pure i dubbi, le difficoltà. Niente è nostro e tutto va comunicato perché tutto circoli.

Siamo invitati dalla parola di Dio a mettere a servizio degli altri i nostri doni, con generosità (cf. 1Pt 4, 9), in vista dell’aiuto e dell’edificazione reciproca. Paolo, rivolgendosi ai suoi fedeli, così li esorta: «Tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti» (2Cor 13, 11); «ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza» (Col 3,16). La Lettera agli Ebrei non è meno esplicita: «Cerchiamo di stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone (...) esortandoci a vicenda» (Eb 10, 24-25).

Il superiore è capace non solo di condivisione, ma anche di aiutare alla condivisione. In effetti non c’è vera fraternità se non si accetta di entrare nella vita del nostro fratello e se non si consente a lui di entrare nella nostra. Senza questa comunione di vita, la fraternità rimarrà soltanto una comunanza fisica, priva di significato.

Abbiamo davanti l’esempio di Maria, che canta il Magnificat e narra le grandi cose fatte in lei dall’Onnipotente. Paolo si apre costantemente con i destinatari delle sue lettere, comunicando tutto di sé: la conversione, il cammino di apostolo, perfino le esperienze più profonde, come il rapimento al terzo cielo, il rapporto mistico con Cristo, ma anche le angosce che lo attanagliano al pensiero del suo popolo che non accetta la rivelazione di Cristo, oppure le proprie debolezze, le prove, la spina nella carne.

La sincera e costante comunione favorisce il raggiungimento di quell’unità d’anima e di pensiero a cui Paolo invita le sue comunità. Dai suoi fedeli egli esige un solo pensiero, i medesimi sentimenti, l’accordo, la concordia, la comunanza di spirito (cf. Fil 1,27; 2,2; 4,2; 2Cor 13,11; Rm 12,16; 15,5). Pensare la stessa cosa non significa che i cristiani debbono avere tutti le stesse idee, le stesse opinioni. Sarà comunque importante riuscire a capire l’altro fino in fondo, rendendosi conto della sua logica interiore, delle motivazioni che lo spingono ad agire in un determinato modo. A ciò si può pervenire solo in una profonda reciproca apertura.

Quando questo avviene, si può constatare un reciproco arricchimento tra tutti i membri della comunità, che godono della ricchezza della complementarità dei modi di vedere, come anche delle differenti sensibilità. La complementarità dei doni che ognuno apporta al vivere comune fa scomparire gelosie e invidie, perché ognuno gode del bene dell’altro, nella convinzione che, proprio in forza della comunione, gli appartiene come proprio. L’altro, quando partecipa il suo dono, non è più visto come antagonista. Ci si libera così dai piccoli complessi che ogni uomo porta con sé, verso una apertura serena all’altro, fino alla piena libertà interiore.

La comunione elimina il sospetto e il giudizio negativo. Nello stesso tempo il non sentirsi giudicati e valutati in base agli eventuali sbagli favorisce la comunione. Ciò è possibile solo nella misura in cui nella comunità si vive un clima di semplicità e sincerità, e dove regna la reciproca fiducia.

 

Fabio Ciardi

 

1 Questo articolo è ricavato dalla terza parte dell’intervento che l’autore, Fabio Ciardi, omi, ha tenuto sul tema Quale vita fraterna? al Corso di formazione per Consigli generali e provinciali, impostato sull’interrogativo: Quale spiritualità per i nostri istituti oggi?. Il corso ha avuto luogo dal 7 al 12 febbraio scorso ed è stato organizzato a Roma dalla comunità di Preghiera “Mater Ecclesiae” delle Suore Dorotee di Cemmo.