UN AMORE ESAGERATO

 

Nessuna ragione potrà mai andare a cogliere il senso di una donazione come quella delle suore Poverelle di Bergamo (e di tante altre).

“Avvolte tra i poveri” (come raccomanda il beato Luigi Maria Palazzolo, loro fondatore), abituate a combattere sul fronte sempre minacciato dell’umanità, le sei missionarie non hanno abbandonato la trincea della carità né prima dentro la paura della guerra e dei saccheggi, né poi sotto l’incubo di quella terribile epidemia di Ebola (dal nome di un fiume congolese) che nel maggio 1995 ha spiazzato i sistemi difensivi di mezzo mondo. A seminare il terrore sono l’alto tasso di mortalità (quasi il 90 per cento per il ceppo Ebola-Zaire, il 50 per cento per l’Ebola-Sudan), la rapidità del decorso (5-10 giorni), gli orripilanti sintomi (diarrea, vomito, dolori, insufficienza respiratoria, emorragia degli organi interni e sanguinamento da tutti gli orifizi, compresi occhi e orecchie). Ma soprattutto l’assoluta mancanza di indizi sul possibile ospite naturale del virus, probabilmente un animale.

Una vicenda che è diventata quasi un simbolo dell’ambivalenza della nostra società, smascherando la sua presunta sicurezza. In un momento infatti in cui tutti vorrebbero difendersi da un virus micidiale qualcuno ha gridato l’importanza di non abbandonare chi è già schiacciato dalla vita: perché in Africa non si muore solo per Ebola, ma anche per Aids, malnutrizione e dissenteria, malaria e tifo, tubercolosi e indifferenza.

 

CON CRISTO

IGNUDO SULLA CROCE

 

Sei suore normali, rivestite di debolezza, morte una dopo l’altra in poco più di un mese in Zaire (ex Congo belga): prese da un “amore esagerato” hanno scelto semplicemente di restare e condividere tutto con i poveri. Ci interpellano ancor oggi sull’alfabeto dei valori e ci spingono a verificare se i nostri parametri siano dettati solo dal calcolo.

Una catena di generosità e insieme di morte che continua a far parlare di sé.1 Infatti da suor Floralba il virus passò a suor Danielangela; suor Dinarosa e suor Clarangela sono state contagiate all’ospedale di Kikwit, stando tra gli ammalati; suor Annelvira e suor Vitarosa sono state probabilmente infettate proprio durante una inarrestabile emorragia di suor Clarangela.

Tocca a suor Annamaria Arcaro, superiora di Mosango, la superstite, esprimere tutta la profondità del legame che ha segnato il drammatico destino di queste donne: «Abbiamo vissuto assieme giorni di lotta tremenda, tra fede e tutto ciò che è umano, affetto e tanto amore di sorelle… Ci siamo aiutate, incoraggiate, sgridate, perché ci sembrava che ognuna esagerava nel lavoro, nel donarsi. In ogni caso, suor Anna e suor Rosa hanno proprio esagerato nell’amore…. Suor Daniela, mentre continuava a vomitare diceva: “Quanta pena mi fa suor Clara a sentirla respirare così”. E suor Clara, a sua volta. “Povera suor Daniela! Mi si spezza il cuore a sentirla vomitare così”. E noi, con le lacrime che cadevano a terra scendendo dalla maschera, ci preoccupavamo di aiutare e rassicurare sia l’una che l’altra… Dall’ospedale ci giungevano in continuazione grida, pianti di morte, e noi avremmo voluto essere là ad aiutare quella gente, soprattutto nelle prime settimane, allorché quei poveretti morivano uno dopo l’altro e restavano insepolti per giorni e giorni. Invece il Signore voleva facessimo esperienza di essere povere, infette, malate, isolate, sfuggite noi stesse. Era la prima volta che capivo qualcosa del nostro carisma: “Essere configurate a Cristo morto, ignudo sulla croce”».

 

AVVOLTE

TRA I POVERI

 

Il loro fondatore in una lettera dice: “Amiamo la santa povertà di Gesù, ma con quell’amore non di sola ammirazione (questa costa poco), ma con amore di abbracciamento…”. Così, abbracciate ai poveri, ne ricordiamo brevemente i volti.

Suor Fioralba, quella che da ragazzina aveva dichiarato con stupefacente ingenuità: “Quando mi faccio suora, attraverso il mare, salvo un’anima e poi muoio”, e che chiamata dagli zairesi con l’appellativo di “mamma anziana”così riassume la sua pedagogia a una novizia: «Nel povero c’è il Cristo che tu servi; che esso sia un ladro, un bandito, un mendicante… se ti chiede qualcosa, daglielo. Se ti avvicina, accoglilo. È la carità quella che tu fai: se quello mente o ti ruba, è lui che compie il peccato, ma tu vivi la carità».

Suor Clarangela, quella che arrivava fischiettando e che scrive al Signore in un quadernetto, a conclusione di un corso di esercizi: «Carità senza misura, solo per il puro tuo amore. In primo luogo in comunità, tra le mie consorelle, considerandomi l’ultima di esse e vivendo la vera comunione. E poi carità verso i miei fratelli. Essere accogliente, disponibile con tutti, specialmente con gli ammalati, i poveri, gli abbandonati, e con quelli in cui a volte è difficile riconoscerti».

Suor Danielangela, col ciuffo e lo spirito ribelle, chiamata “trappistina” dalle consorelle per il fatto di coltivare il sogno della clausura, manifesta così il suo cuore agli amici: «Nella mia piccola esperienza ho potuto constatare che quando si è poveri di mezzi, o bloccati da una politica dittatoriale, quando umanamente parlando la mia presenza sembra inutile, il mio donarmi uno sciupio, il mio servizio sfruttamento di una certa classe benpensante, e qualche volta anche il povero sembra non recepire il tuo messaggio, ebbene, proprio in questa linea di povertà e di fallimento si ritrova il senso della missione».

Suor Dinarosa, quella che da ragazzina pedalava in salita per risparmiare i soldi dell’autobus, convinta che la fraternità si consolida con l’allegria contagiosa, affida i suoi pensieri sulla disgraziata Africa ai compaesani della parrocchia: «I meno fortunati si recano nella savana a caccia di topi, di grilli, di formiche, oppure cuociono dei bruchi simili alle processionarie, ricchi di proteine. Quando li vedo nutrirsi in tal modo, mi prende una grande compassione e non posso trattenermi dal confrontare la situazione dello Zaire con le nostre cosiddette crisi economiche d’Italia, dove i magazzini sono pieni di ogni ben di Dio…».

Suor Annelvira, definita dagli indigeni “donna della vita” per il suo servizio di ostetrica, manifesta tutta se stessa scrivendo una relazione inzuppata di lacrime alla superiora generale: «È solo nella fede che si trova il senso di tanto dolore! Noi siamo impietrite! L’abbiamo ricomposta (suor Danielangela): sembrava un angelo! Distesa nella pace dello Sposo, il quale in questi giorni ultimava, con la loro offerta serena e totale, la loro corona con le gemme più preziose, da portare sul loro capo al loro arrivo nella casa del Padre».

Suor Vitarosa, una donna che dopo un periodo di discernimento in mezzo agli ammalati psichici decide di consacrarsi per condividere la situazione dei fratelli “non raggiunti”, è capace di lanciare appelli di questo tipo: «Auguro a questi giovani di aprire il cuore a Cristo, di ascoltare il suo invito, di non aver paura a scegliere al vita religiosa come proprio stato di vita: chi perde la propria vita per me la ritrova, dice Gesù. E io posso garantire che vale la pena vivere insieme con Gesù la meravigliosa esperienza dell’amore che si rende visibile nel servizio agli ultimi!».

Sei suore, una famiglia che ha realizzato l’inculturazione nel corpo grazie al virus Ebola: la inevitabile distanza coi poveri l’ha colmata lui, facendo scoprire che se risultava impossibile vivere come loro, restava pur sempre la possibilità di morire come loro. Non si sono sentite eroine per questo. Si erano specializzate (così come voleva il Palazzolo) nel “niente e tutto”. Una morte così infatti non si improvvisa: è la conseguenza dell’abitudine quotidiana a dire “Eccomi”. Nessuna di loro si atteggiava come una fuoriclasse isolata, non agivano infatti a titolo personale. Una morte comunitaria: perciò quella morte è di tutti, anche degli indifferenti.

Estremiste nell’amore, piene di autentica femminilità, animate da un amore “serio” alla bergamasca, suore che si volevano troppo bene tra di loro. Il loro ritratto migliore è nel telegramma del presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, in occasione del conferimento all’istituto delle Poverelle della medaglia al valor civile: «Di fronte all’eroismo umile, semplice, nascosto, fedelissimo alle sofferenze umane, delle vostre ammirevoli suore, il massimo riconoscimento dello stato pare poca cosa. Ma voi credete in un premio che trascende ogni premio umano e non perde valore con il passare del tempo. Grazie a nome dell’Italia».

 

M. C.

 

1 Vedi il volume di PRONZATO A., Un’esagerazione d’amore. La vicenda delle sei suore colpite dal virus Ebola, Gribaudi, Milano 2004 (3ª ed.), pp. 255, Ä 15,50.