LETTERA DI DOM BERNARDO OLIVERA, OCSO

QUANDO PREGATE DITE: “PADRE NOSTRO”

 

La preghiera del “Padre Nostro” rimane sempre il modello di ogni altra forma di preghiera. Non solo per le parole e le intenzioni che contiene, ma anche per le condizioni che la devono sempre accompagnare, quelle che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli, soprattutto con il suo esempio.

 

Il “Padre Nostro” è una preghiera su cui bisognerà di continuo tornare a riflettere. Ne sentono il bisogno anche coloro che sono molto avanti nello spirito di orazione, come possono essere i monaci. Non bisogna infatti dare mai per scontato di essere uomini di preghiera e di saper pregare. Per questa ragione, l’abate generale dei cistercensi di stretta osservanza, Bernardo Olivera, nella sua consueta lettera annuale all’ordine, ha voluto offrirne un breve commento pieno di ispirazione che ognuno, anche il semplice cristiano può leggere con grande profitto.

Il commento che propone è collocato in un contesto più ampio da cui qui ricaviamo la parte più specifica riguardante le varie domande di cui è composta la preghiera stessa.

«La preghiera inizia con una invocazione solenne: Padre Nostro. Gesù lascia da parte altre denominazioni e titoli divini tipici della cultura religiosa del suo popolo. Il nostro Maestro, quando ci insegna a pregare, mette tutti e ciascuno di noi, senza eccezioni, in posizione di uguaglianza davanti a Dio. Notiamo, inoltre, che si tratta del Padre stesso di Gesù. Si tratta del Padre suo, mio, tuo e di tutti. Padre suo, consustanzialmente; Padre nostro, per adozione, in lui.

Il nostro Dio non è qualcuno di distante e sconosciuto. È qualcuno che è intimo, gioiosamente  incontrato e affettuosamente conosciuto. Chi lo conosce così, sa che è anche madre per l’azione materna del suo Spirito. Sempre, egli ci precede e prende l’iniziativa. La fede innamorata ci permette di vederlo agire in ogni cosa, ci fa sapere per esperienza che le nostre vite sono sostenute e vivificate da un Padre onnipotente e Madre misericordiosa. Per questo, noi sappiamo che le nostre preghiere saranno accolte ed esaudite.

Questa invocazione, che supera ogni capacità umana, è possibile grazie all’assistenza del Spirito Santo e alla nostra incorporazione in Cristo. È la realtà più intima e santa del Vangelo, in essa si uniscono visceralmente le esperienze di paternità, filiazione, fraternità universale. La filiazione ci divinizza,  la fraternità ci umanizza.  Entrambe le esperienze ci permettono di vivere in modo divinamente umano.   

Alcune culture contemporanee soffrono per l’assenza della figura paterna; altre, per il soppiantarsi distorto in forme di prepotente “maschilismo”. Senza cercare sublimazioni inconsistenti, miracoli irreali, né vuote compensazioni, l’esperienza insegna che la grazia della preghiera del Padre Nostro porta solitamente con sé tre doni preziosi: la capacità di una azione creativa, l’apertura al rischio audace e la visione della realtà che si apre al futuro. Paradossalmente, quando gli uomini incarnano e vivono questi doni, tipicamente virili, le donne possono essere autenticamente femminili. D’altro lato, l’esperienza filiale è la più radicale delle terapie: essa permette di gustare il senso della vita, in ciò che ha di fiducia, affermazione, superamento e trascendenza.

 

LE TRE

PETIZIONI “TU”

 

Vediamo ora le tre petizioni-tu. Teniamo presente che nell’originale greco i verbi di ogni petizione sono alla voce passiva. Questo ha un significato speciale: il soggetto dell’azione è innanzi tutto Dio stesso. Senza diminuire l’importanza dell’azione di chi prega, è il Padre che ha l’iniziativa, è lui che santifica il suo proprio nome, che rende possibile la venuta del suo Regno e instaura la sua volontà.

La prima petizione dice così: Sia santificato il tuo Nome. La santità di Dio consiste nella sua gloriosa identità comunionale e paterna. Noi gli chiediamo di rivelarla a noi, il che vuol dire: che riunisca i figli e le figlie di Dio dispersi. Noi sappiamo anche che santifichiamo il nome di Dio quando lo lodiamo e lo adoriamo come unico Padre. Più concretamente ancora, quando noi cooperiamo con la sua opera di santificazione nei nostri cuori.

I tre misteri principali della rivelazione e della fede cristiana sono questi: La santissima Trinità, l’incarnazione pasquale redentrice e la nostra santificazione divinizzante. Molte volte è più facile per noi credere in ciò non ci tocca direttamente, la  constatazione della nostra miseria ci impedisce di credere nell’opera divinizzante di Dio nei nostri cuori. Ma, appunto, il riconoscimento e l’accettazione della nostra miseria sono una condizione per la nostra divinizzazione. La fede in questa verità è fonte di pace e di gioia.

La seconda petizione, Venga il tuo Regno!, è come una esclamazione potente di speranza. Un grido di fede viva, ora, aperto all’abisso del futuro: Rivelati, vinci e salvaci definitivamente! Questo Regno oggetto di desiderio e di anelito è Dio stesso che sta regnando; è la presenza di un sovrano che offre una infinita misericordia e invita con urgenza alla conversione. Noi sappiamo che se Dio non stabilisce il suo Regno, se lui stesso non regna, le nostre vite e la nostra missione sono vane.

Il regno di Dio è stata la ragione del vivere e del morire di Gesù. Il suo progetto era un mondo nuovo in cui noi tutti potessimo essere fratelli e sorelle, figli e figlie di uno stesso Padre divino. La nostra vita monastica cenobitica si pone in continuità con questo progetto. L’esperienza della comunione in comunità di amore è garanzia del Regno futuro. Senza filiazione, senza fraternità noi non siamo nulla.

Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra, diciamo nella terza petizione riferita a Dio. In altre parole: venga finalmente e definitivamente il tuo Regno! Sia accettato il tuo disegno di salvezza! Che noi possiamo compiere la tua volontà, manifestata nel comandamento dell’amore senza esclusioni, con un cuore libero e filiale !

La volontà di Dio consiste nella nostra salvezza e felicità in Cristo. Ci viene chiesto soltanto  di avere gli stessi sentimenti di colui che disse nell’agonia: sia fatta non la mia volontà ma la tua (Lc 22,41). L’unione con Gesù Cristo è comunione di amore, cioè: accordo di volontà, in un solo volere e in un solo non volere. Consentire con Lui nell’amore è un bacio che unisce due respiri, due spiriti: chi aderisce in questo modo a Dio forma con lui un singolo spirito (1 Cor 6,17). Questa perfetta armonia di volontà, questa adesione in un solo spirito è un vero matrimonio spirituale, indissolubile e eterno.

L’autorità cristiana è una mediazione della volontà divina; e anche l’obbedienza monastica è chiamata a manifestarla. Ma, purtroppo, non sempre è così. Ci sono autorità che a volte non sono al servizio della vita e/o moltiplicano grossolanamente gli ordini. D’altro lato, non mancano monaci e monache che si sono rinchiusi nella propria vita e /o hanno confuso l’obbedienza con la richiesta di permessi. Quando questo accade, come siamo lontani dal Cristo sposo e dell’amore sponsale!

 

LE QUATTRO

PETIZIONI “NOI”

 

Nel cielo, l’ambito di chi già partecipa della vita divina, il nome di Dio è santificato, il suo Regno è pienamente giunto, la sua volontà si è compiuta. Noi desideriamo e chiediamo che, allo stesso modo, questo succeda nella terra che noi abitiamo e che ancora geme per i dolori del parto nella speranza della manifestazione gloriosa dei figli e delle figlie di Dio.

Nelle prime tre petizioni ci siamo occupati della causa di Dio, nelle quattro rimanenti imploriamo Dio perché si dia pensiero della nostra causa e in nostro favore.  Per  questo possiamo parlare di “petizioni-noi”. In queste petizioni il Padre è il protagonista principale e noi siamo i suoi collaboratori: il progetto divino è frustrato senza la collaborazione umana. La realizzazione di ciò che chiediamo comincia oggi, ma si realizzerà pienamente nel futuro. Le petizioni integrano il presente e il futuro: nessun immanentismo né escatologismo!

Giungiamo alla petizione centrale, la quarta: Dona a noi oggi il nostro pane, di cui abbiamo bisogno. È l’unica petizione di qualcosa di materiale a nostro beneficio. Emerge la domanda: che cosa significa il pane nel Padre Nostro?

Il pane è una realtà materiale e simbolica: essendo ciò che è, rimanda a qualcosa d’altro. Il pane, allo stesso modo di altri alimenti fondamentali in altre culture, congiunge in se stesso natura (cereali e acqua) e cultura (cottura al forno, mensa, famiglia, commensali). Il pane che noi chiediamo a Dio ha la peculiarità di essere il nostro pane, il che vuol dire: il pane che Dio Padre ci dà e che noi facciamo.

Risaliamo alle origini. Dio benedisse i nostri primi progenitori con una benedizione di fecondità e donò loro quasi ogni genere di alimenti. Ma, dopo il peccato originale, il suolo è stato maledetto e deve essere lavorato con sforzo e sudore, soltanto così l’essere umano riesce ad ottenere il suo pane per nutrirsi (Gn 1,28-30; 3,17-19).

È evidente che i nostri corpi si alimentano di pane materiale. Non è così evidente, che anche il nostro spirito ha bisogno di nutrimento. Ricordiamo le parole di Gesù al tentatore, che gli proponeva di trasformare le pietre in pane: non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (Mt 4,3-4).

Il primo cibo spirituale che il Dio Padre ci offre è la sua Parola, ma non è l’unico.  Il pane che Gesù vuole che noi chiediamo è il suo corpo dato (Lc 22,19) ... per la remissione dei peccati (Mt 26,28). Il discepolo Giovanni, colui che durante la cena di addio posava il capo sul petto di Gesù, lo aveva capito bene: il pane  disceso dal cielo, che ci dà la vita eterna, è Gesù stesso (cf. Gv 6,33-35).

Il pane materiale è dono di Dio e frutto di mani umane: noi lo riceviamo come figli e lo doniamo come padri e madri. Anche lo spirito ha bisogno del pane che è la parola di Dio e il Corpo di Cristo dati per la nostra salvezza. In due occasioni Gesù ha moltiplicato i pani per nutrire la folla e, quando donò se stesso, si consegnò fino alla consumazione totale. Seguaci di tale Maestro, noi siamo invitati a fare altrettanto: fare in modo che a nessuno manchi pane e Pane. Le nostre comunità monastiche vivono in comunione di amore grazie al Pane della vita; e, a causa di questo stesso pane, sono invitate a una solidarietà generosa, così che a nessuno manchi il pane. Quando questo accadrà, molti saranno i beati, perché possono mangiare il pane nel regno di Dio (Lc 14,15; cf. 13,29).

La quinta petizione dice: Perdona le nostre offese, così come noi perdoniamo a  coloro che ci offendono. Dio, in Cristo, ci ha amati per primo; e ci ha amati perdonandoci. Gesù, lacerato sulla croce, chiede al Padre che ci perdoni perché noi non sappiamo, siamo degli ignoranti. Un miserabile ladro, tormentato e moribondo, è il primo ad essere salvato da questo perdono. Chiedere perdono a Dio è la stessa cosa che riconoscersi peccatore.

Per potere chiedere perdono senza ipocrisia, anche noi dobbiamo perdonare coloro che ci offendono. È così che si rompe la spirale della violenza e dell’odio. Il nostro perdono è testimonianza della nostra fede e del nostro amore, grazie ad esso potremo presentarci con fiducia davanti al Padre, nell’ultimo giorno...

Nella sesta petizione, imploriamo: Non lasciarci cadere in tentazione. Altrimenti, se non sentiamo l’aiuto del Padre, benché non ci manchi mai questo aiuto, noi cadremmo nella prova e saremmo facilmente tentati. Le tentazioni più infernali sono: l’incredulità, l’indifferenza e la disperazione. Ed anche, qualsiasi tipo di arroganza e ricchezza che si opponga al Regno. Per noi, monaci e monache: la mormorazione, la proprietà privata e ciò che ferisce la comunione. E, soprattutto e per tutti, l’apostasia alla fine dei tempi.

Nella settima e ultima petizione chiediamo: Ma liberaci dal Male. Non si tratta che il Padre ci tolga dal mondo, ma che ci renda estranei al comportamento mondano. E, principalmente, che ci liberi dal Maligno, ora, domani e sempre.

Se vogliamo parafrasare e sintetizzare la preghiera del Signore, possiamo farlo così: “Abbà, venga il tuo Regno e riuniscici in esso! Perché sei Abbà, ti amiamo e ti proclamiamo re. Quando tu regnerai, ci sarà pane, perdono e liberazione definitiva per tutti”».

 

UNA PREGHIERA

UTOPISTICA?

 

Il Padre Nostro è una preghiera utopistica? – si chiede l’abate Olivera. Ma, risponde, «il radicalismo evangelico è qualcosa di utopistico e il Padre Nostro lo esprime alla perfezione Noi cristiani già da due millenni ripetiamo questa preghiera, eppure: la volontà del Padre non si è compiuta, il suo Regno non viene e il regno del male sembra prevalere ovunque!

Che cosa c’è di più utopistico che lavorare e provvedere pane abbondante per tutti, quando la realtà è che viviamo in un mondo dove un terzo della popolazione muore da fame e un altro terzo non ha il necessario? Che cosa c’è di più utopistico che scommettere sul perdono e perdonare per instaurare il regno di Dio, quando noi viviamo in un mondo dove la giustizia non tiene conto del perdono e molte volte è a servizio della violenza?

Ricordiamo che utopia non è l’equivalente di ciò che non esiste o è irrealizzabile. Il senso profondo dell’utopia consiste nella critica a ciò che esiste e nella proclamazione di un progetto di ciò che potrebbe esistere per la gioia di tutti.

Una utopia genuina ispira la capacità inventiva in dimensione prospettica per percepire nell’oggi qualche cosa ancora ignoto, che sta iscritto nel presente, e per orientare verso un futuro migliore. L’utopia autentica sostiene inoltre la speranza per la fiducia che infonde alle forze inventive dello spirito e del cuore umano. Se noi tutti esseri umani credessimo in Dio e ci comportassimo come figlie e figli suoi, ci sarebbe una fraternità universale, a nessuno mancherebbe il pane materiale e tutti ci rallegreremmo condividendo il pane spirituale.

Se noi cristiani pregassimo e vivessimo come il Signore ci ha insegnato, saremmo più uniti, ci sarebbe più comunione fra le Chiese, la religione non sarebbe mai l’oppio del popolo, il mondo intero sarebbe un cenobio e noi saremmo già da oggi i semi di questo mondo nuovo. Chi è capace di sognare, sogni».