INQUIETUDINI
D’OGGI
DAVANTI
ALLE RAGIONI DELLA COLLERA
Ondate di indignazione ci assalgono
dinanzi alla scena mondiale dove popoli interi sono colpiti dalla violenza di
guerre, massacri, violazioni infinite della dignità umana. Che cosa c’è alla
radice di tutto? E se la violenza fosse anche tra noi?
La
rivista Spiritus, fondata nel 1959 dai Sacerdoti dello Spirito Santo noti come
Spiritani, offre nel numero 178/marzo 2005 un’ampia riflessione sulle cause dei
sentimenti di collera e di ribellione che ci afferrano davanti agli scenari che
i mezzi di comunicazione aprono tutti i giorni alla nostra vista: prime fra
tutte le tante forme di ingiustizia le quali, specialmente quando essa è in
vario modo istituzionalizzata, fanno scattare la violenza sulle persone,
provocano la controviolenza delle vittime e avviano la spirale perversa della
repressione.
L’orizzonte
missionario sul quale si muove il servizio culturale di Spiritus – rivista di
esperienze e ricerche missionarie, gestita attualmente dagli spiritani in
comune con altri 11 istituti missionari – caratterizza la ricerca del numero
178 in modo speciale nella prima parte, Actualité missionnaire, e nel dossier
dedicato a Les raisons de la colère. Vi troviamo una ricca trattazione del
tema, mediante contributi nei quali col tono sostenuto dell’esposizione si
riflette il portato dell’esperienza sul campo.
Argomento
di indiscussa attualità, quello della violenza e della ribellione che suscita
tocca in primo luogo le comunità missionarie operanti dove più gravi si
manifestano ingiustizie, soprusi, guerre. Tali comunità, infatti, possono
sperimentare un certo tasso di violenza anche al proprio interno, oltre che
ricevere dall’esterno contraccolpi inquietanti e non solo in senso fisico.
«Quale istituto religioso – leggiamo nell’editoriale – non piange morti o
dispersi nelle sommosse presenti in Africa, in America Latina o altrove? Le
guerre, le violazioni della dignità umana, i saccheggi, gli assassinii, i
rapimenti, gli abusi sui bambini sono parte rilevante delle notizie quotidiane.
Ed ecco da più di duemila anni i cristiani pretendono di annunciare una buona
novella che dovrebbe ribaltare ogni forma di violenza!».
LE
GUERRE
MA NON
SOLO
È,
questo, un primo aspetto della riflessione alla quale – dicono i redattori di
Spiritus – ci si sente chiamati e che deve non fermarsi alla superficie dei
fenomeni che ci sconvolgono ma scavare fino a raggiungerne le radici profonde.
Tanto più che un secondo e più sottile aspetto dell’intreccio tra collera e
violenza riguarda anche la vita delle comunità religiose in genere: sia per la
loro sensibilità verso ciò che di più doloroso accade oggi nel mondo, sia
soprattutto per il fatto che – come fa vedere nel dossier anche John Prior,
missionario della Società del Verbo divino, nella lettura che dà del libro
biblico di Giosuè – violenza e collera sono sempre presenti nella storia umana
e la loro scaturigine si trova anzitutto nell’uomo. Il che ci deve rendere
attenti e, tra l’altro, «ci proibisce di caricare troppo presto dei loro
effetti nocivi eventuali capri espiatori».
Interrogativi
pesanti suscitano le più complesse situazioni africane, scrive nella prima
parte lo spiritano Henry Fouda, il quale non parla anzitutto delle guerre che
funestano quel continente ma osserva che la violenza in Africa guadagna sempre
più terreno nei rapporti tra persone, è dappertutto nelle parole e negli atti,
nei discorsi politici a disprezzo del povero che ne è la principale vittima,
nel poliziotto che usa la sua arma contro una folla disarmata, e anche sulle
strade, dove tutti gli utenti vogliono occupare tutto lo spazio, ciascuno per
sé. Ed è «presente nella ricerca sfrenata del guadagno, una ricerca che avviene
nel disprezzo di tutte le leggi morali, sociali e culturali».
È questo
il tipo di violenza che sorge direttamente dal cuore delle persone e sul quale
invita a riflettere, sempre nel dossier di Spiritus, il Missionario d’Africa p.
Guy Theunis nel suo articolo Le missionnaire et les situations de violence.
Padre Guy, dopo una lunga esperienza nelle missioni africane, è ora
responsabile a Roma della formazione permanente nel suo istituto. Un respiro di
ottimismo pervade la sua pur realistica riflessione fin dall’approccio al tema.
A
PARTIRE
DAL
PERDONO
«A 22
anni, Teresa ha provato l’enorme dolore di perdere l’unico figlio di tre anni.
Una notte, su una strada buia del suo villaggio, uno sconosciuto ha sparato un
colpo di revolver su suo figlio e l’ha ucciso. Dopo un anno di disperazione,
ella ha voluto con degli amici incontrare in prigione, ma in incognito, colui
che aveva ucciso suo figlio. Voleva sapere chi fosse quell’essere senza cuore
che aveva assassinato il suo bimbo, causando a lei tanto strazio. Quel giorno,
Antonio raccontò agli amici la terribile storia della propria vita: la sua
infanzia infelice in cui venne abusato da suo padre e dopo abbandonato da sua
madre, affidato ai nonni e finito poi come bambino di strada. La sua storia sconvolse
tanto Teresa, la quale piena di compassione è andata a visitarlo regolarmente
in carcere. Ora sono sposati e hanno tre figli».
Questa
storia vera – raccontata, informa p. Guy, a Roma durante un seminario da Lionel
Narvaez Gomez, responsabile delle Scuole di perdono e riconciliazione in
America latina – è «un miracolo di perdono che mostra come le situazioni di
violenza non siano sempre disperate, e quanto sia necessario per i missionari
che ci vivono dentro riflettere, scoprirne le fonti, smontarne i meccanismi per
poter in seguito agire adeguatamente. Infatti noi possiamo avere una reazione
molto positiva come possiamo contribuire senza volerlo alla violenza. Ci è
pertanto necessario comprenderne anzitutto le forme e le cause».
Egli
passa così a chiarire il significato dei termini: da quello di forza – che può
essere negativo quando essa è orientata contro il bene della persona umana o
positivo se le forze sono costruttive come quelle dell’amore, della verità o
della giustizia – a quello di aggressività quale forza istintiva che tende a
proteggere la vita, ma che con la nostra intelligenza possiamo stravolgere
orientandola alla distruzione: per cui già da tale distinzione emerge il fatto
che dobbiamo «non tanto sopprimere l’aggressività quanto incanalarla al bene,
orientandola in modo che diventi costruttiva e liberante». E arriva al termine
violenza, che è senza eccezione una forza distruttiva, ossia che diminuisce,
ferisce, distrugge se stessi e/o l’altro.
LA
VIOLENZA
E LE SUE
CAUSE
Si distingue
– prosegue p. Guy – la violenza personale e interpersonale dalla violenza
strutturale, la quale ingloba tutte le violenze presenti nei concetti e nelle
strutture delle nostre istituzioni: comunitarie, economiche, politiche e
sociali, nelle chiese, nelle scuole e così via.
E si
distingue tra violenza fisica e violenza psicologica, tra le violenze visibili
e quelle potenziali e nascoste ma pronte a esplodere perché preparate, ad
esempio, da un lungo subire ingiustizie.
Nel
cercare le cause della violenza, ci si imbatte in primo luogo in fattori
psicologici: nella paura (di perdere il benessere o il potere; di se stessi
percepiti con sensi di inferiorità; di morire...); nel cosiddetto desiderio
mimetico, ossia nel desiderare ciò che desidera l’altro; e ancora nella
mancanza di relazioni affettive che possono condurre a comportamenti regressivi
(alcoolismo, tossicodipendenza) che sono fonte di violenze individuali o
sociali.
Le cause
possono essere sociali e culturali, e tra queste la prima si trova nel tipo di
educazione affettiva nella prima età del bambino, il cui comportamento segnato
di aggressività si sviluppa in risposta a modi in cui i genitori talora gli si
rivolgono, con gesti, parole brusche, tempi insufficienti di attenzione.
Vi sono
anche realtà oggettive che favoriscono la violenza, quali le condizioni di
lavoro o di habitat, e le ingiustizie subite da parte delle strutture sociali;
senza dimenticare la causa più grave e devastante che è l’ideologia in quanto
sistema di pensiero chiuso su se stesso e per conseguenza intollerante; che per
giungere ai propri fini utilizza spesso la menzogna e manipola le masse, per
cui «le ideologie pure e dure generano sempre una “cultura di morte” (Giovanni
Paolo II)».
Infine,
la violenza come mito, ossia intesa quale forza riversata sull’uomo senza che
egli se ne senta responsabile; la violenza quale destino cieco, ciclico,
fatalità imposta all’uomo come si vede nelle tragedie greche.
IL
CONFLITTO
È
UN’ALTRA COSA
Padre
Guy non esita a trarre a questo punto una prima conclusione: «Le nostre società
sono state costruite sulla violenza. Siamo nati dentro culture di violenza. Non
è facile uscirne, ma è possibile»: anche cominciando a riflettere meglio sul
conflitto, che è diverso dalla violenza.
Non di
rado abbiamo paura del conflitto, che peraltro viene indicato secondo la regola
cosiddetta delle tre enne: naturale, normale, neutro.
È
naturale perché Dio ci ha creati nella diversità di sesso, cui si aggiungono le
differenze di età, di carattere, di gusti, di adesione a valori e altre, che
possono armonizzarsi, ma che prima di farsi complementari sono divergenze. Il
conflitto, pertanto è normale, è anzi un segno di vita e di vitalità, una
componente delle relazioni sociali, un mezzo di espressione di ciò che siamo.
Ed è neutro, non è buono né cattivo: buono o cattivo è il modo in cui lo
gestiamo in quanto sintomo di una divergenza che può essere composta.
A
gestire un conflitto, infatti, si impara come si impara una lingua che ha la
sua grammatica e le sue regole di sintassi: anzitutto – ogni singolo gruppo,
dalla coppia alla nazione – lavorandoci attorno insieme, naturalmente
«disponendo di una cultura di comunicazione comune», che permetta di guardare
in faccia il conflitto, riconoscerne le cause e giungere a risolverlo nella
pace.
Conflitto,
infatti, in se stesso non è guerra, la quale del resto non è a sua volta
ineluttabile. Una lunga parentesi aperta nell’articolo mostra infatti come il
Manifesto di Siviglia, redatto dai maggiori scienziati del mondo e pubblicato
dall’UNESCO il 16 maggio 1986, abbia sfatato il pregiudizio «secondo cui la
guerra sarebbe una fatalità biologica; e che abbia invece asserito che è
possibile mettere fine alle guerre e alle sofferenze che essa comporta. Il che
suppone che tutti si mettano all’opera per eliminare violenze e guerre; e che
il lavoro debba cominciare e proseguire nello spirito di persone fiduciose
nella possibilità della pace».
LA
VIOLENZA
E NOI
Una
sottolineatura importante introduce p. Guy sui tre tipi di violenza evidenziati
da dom Helder Câmara nel loro succedersi e formare quella spirale, spesso
mortifera e sempre difficile da interrompere, alla quale abbiamo accennato
all’inizio: la violenza-madre, che è l’ingiustizia in tutte le sue forme; la
controviolenza delle vittime, che cercano di liberarsene con i mezzi che
conoscono; la violenza della repressione che cerca di giustificare e
legittimare la violenza-madre accusando la reazione a sua volta violenta delle
vittime.
Ma «tra
noi non sia così» diremmo secondo il Vangelo in cui crediamo. Anche tra noi e
nelle nostre comunità può allignare la violenza, se non si svolge – leggiamo
ancora in p. Guy Theunis – un’azione di coscientizzazione e di formazione
teorica e pratica alla nonviolenza, il cui primo punto riguarda le modalità di
comunicazione, con la questione fondamentale del linguaggio, oggetto di studio
dello psicologo americano Marshall B. Rosenberg.
«Nel
modo di esprimerci che abbiamo appreso, secondo il linguaggio umano universale,
c’è un linguaggio che giudica, interpreta, stabilisce una diagnostica,
classifica le persone, le etichetta, le ferisce, le condanna... È quello che
Rosenberg chiama linguaggio sciacallo. Ma noi possiamo parlare, sempre secondo
questo autore, anche il linguaggio giraffa (la giraffa è fra tutti gli animali
terrestri quello che ha il cuore più grosso): un linguaggio che non giudica,
che evoca comprensione, esprime ciò che ci portiamo in cuore, dice ciò che
avvertiamo e talora rivela un bisogno profondo». Ma «al linguaggio giraffa corrisponde
anche un ascolto giraffa: comprendere l’altro, cercare di metterci al suo posto
è tanto importante quanto dire ciò che viviamo profondamente».
Un’educazione
alla nonviolenza prevede che quando la violenza è presente se ne prenda
consapevolezza e si cerchi di dominarla. Essa non è un’eccezione, poiché «viene
dalla nostra storia personale, dalla nostra educazione, dalle ferite che
abbiamo subito e forse da traumi profondi. Si tratta, come per la comunicazione
nonviolenta, di spezzare la spirale che se ne può formare, ossia non
rispondendo alla violenza con la violenza». E privilegiando il dialogo, senza
paura dell’alterità, «per chiarire posizioni personali e mettere in luce
l’azione altrui secondo verità, facendo seguito a un ascolto empatico».
La proposta
pedagogica esclude così, assolutamente, sia l’atteggiamento vile della
passività, contraria alla dignità delle persone, che la controviolenza. E
invita a educarsi a una nonviolenza attiva, che è fondata sul Vangelo e,
scoperta lentamente lungo i secoli, conta oggi su testimoni che hanno reagito
alla violenza in modo evangelicamente mite, contribuendo a far camminare una
reale cultura della pace.
Zelia Pani