UN
INTERROGATIVO SU CUI RIFLETTERE
QUALE
PENTIMENTO?
Se si vuole che il mettersi in uno stato
di accusa sia autentico deve esserci coerenza tra quanto si dice e quanto si sente
interiormente. Il pentimento deve essere vissuto come un sentimento che scuote.
Ciò non avviene quando ci si adagia in una vita a ritmo lento, dove sembra che
nulla avvenga.
Durante
il tempo della quaresima è risuonato di continuo nella liturgia l’invito a
pentirsi dei propri peccati quale condizione per un sincero e umile ritorno a
Dio, al Dio della misericordia. Il pentimento è anche una condizione per poter
celebrare “degnamente” l’Eucaristia, come ci viene proposto quotidianamente
nell’atto penitenziale e nel momento di accostarsi a ricevere la comunione in
cui diciamo “Signore non sono degno...”.
Ma è
soprattutto quando desideriamo ricevere il sacramento del perdono, o della
riconciliazione, che l’attenzione al pentimento assume una modalità ancor più
accentuata. A volte, come l’esperienza insegna, c’è un pentimento fatto solo di
parole, che non parte dalle profondità del proprio essere.
Mario Bizzotto, in un articolo dedicato a questo argomento,
apparso sull’ultimo numero di Vita nostra, bollettino dei camilliani
della provincia lombardo-veneta (ottobre-dicembre
2004, n. 248), osserva che il pentimento non può essere sbrigato affidandosi a
preghiere prefissate prendendo in prestito formule consunte dall’uso, divenute
cortecce aride e morte. Queste potrebbero facilitare l’indolenza e non portare
modifiche all’anima. Più ancora: l’abbondante materiale messo a disposizione di
chi intende presentarsi come penitente potrebbe fare di quest’ultimo
una specie di maschera che si presta a una recita. Si prega, si ripetono
formule, giaculatorie, implorazioni senza coinvolgere il cuore. Si tratta cioè
di un “pentimento sospetto” a cui si può applicare il rimprovero di Gesù:
«Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Mc 7,6).
Se si vuole
che il porsi in uno stato di accusa sia autentico, osserva M. Bizzotto, è necessaria una certa coerenza tra quanto vien detto e quanto è sentito dall’interno. Bisogna cioè
restituire alle parole il loro senso, «evitando bugie nel dire una cosa e nel sentirne
un’altra».
Non
basta l’“atto di dolore” previsto dal rito. Infatti, se si parla di atto di
dolore, cui poi viene a mancare proprio il dolore, si ha un atto insignificante
e anche il rito diventa anemico, perde il suo senso. È qui che s’insinua il sospetto
che molte pratiche scivolino in superficie, lontane dal cuore: Il pericolo
annunciato è il pentimento finto e insincero, recitato ma non sentito, fissato
per appuntamento, ma non sofferto. Il suo punto di appoggio allora non sarebbe
più la vita, ma l’istituzione convenzionale. Ci si pente perché così è
stabilito.
Per
pentirsi è necessario avere la percezione della propria colpa: «Il guaio che
essa c’è ed è anche frequente. Accompagna l’intero percorso della giornata.
Basta riflettere sui pensieri e progetti maliziosi, sui sospetti e i
risentimenti che si sedimentano nel fondo oscuro del cuore per capire il gioco
del male e come questo non venga dal di fuori ma prenda le mosse dal proprio
essere».
Osserva
M. Bizzotto: «L’equivoco a cui si soggiace non è
tanto la colpa in sé, quanto la sua frequenza. È proprio il continuo riproporsi
degli stessi difetti a creare patteggiamenti e da questi passare a convivenze
pacifiche con ogni tipo di comportamento. Ma i gradini che portano in basso non
si fermano qui. C’è anche l’insensibilità e l’ottundimento che lascia cadere
fuori controllo molto materiale equivoco». Tutto questo ha una ricaduta sul
pentimento che finisce nel vuoto formalismo. In altre parole, «non ha né dolore
né accusa né emendamenti, ha solo i passaggi prescritti del rito».
NON
BASTA
ESSERE
OSSERVANTI
Non
basta nemmeno la scrupolosa osservanza della regola per sentirsi a posto. Ci
vuole qualcosa di più. Dietro ad essa infatti incombe sempre il pericolo del
fariseismo, ossia di un mondo che non conosce né colpe né pentimenti, né
bisogno di perdono, che conosce il regno della legge ma non quello della
misericordia e della grazia. Si presentano allora altri interrogativi,
sottolinea M. Bizzotto: è cristiano fare di una
costituzione, sia pure molto impegnativa, uno scudo dietro cui trovare riparo e
assicurarsi la salvezza? Sentirsi a posto per il suo adempimento e perciò
trasferire la salvezza dalle mani di Dio alle proprie? Quali sono i sentimenti
che derivano da un bilancio positivo sulla propria condotta, valutata secondo
la misura della regola? Se si tenta di enumerarli balzeranno subito agli occhi:
sicurezza, autocompiacenza, presunzione e una buona
dose di giuridismo farisaico: «Se così fosse, si
chiuderebbe l’occhio all’aridità del cuore e alla mancanza di creatività con
tutto lo strascico di sentimenti deteriori che seguono, quali meschinità,
piccinerie, freddezza, grettezza. Si deve concludere che la colpa esiste
perfino nell’osservanza delle norme più rigorose dell’ascetica. La regola nella
vita religiosa ha un valore che è fuori di discussione, tuttavia davanti alla
pratica cristiana va vista nella sua funzione strumentale. Una cosa va sempre
perseguita: l’umiltà e la coscienza che la salvezza è legata alla speranza e
alla bontà divina. Non si è innestati nello spirito cristiano senza porsi in
uno stato di pentimento».
E il
pentimento deve essere vissuto come un sentimento che scuote. Di Pietro è detto
che dopo il rinnegamento del maestro è scoppiato in lacrime. Non c’è nulla
quanto il pianto che riveli il turbamento e lo sconquasso interiore. Chi è
pentito, spiega sempre M. Bizzotto, tira una linea di
demarcazione tra passato e presente. Si rompe con l’atteggiamento precedente,
non si permette che esso continui ancora e si prolunghi nel presente. Una nuova
forza insorge. È creativa, inventa e scopre l’azione generosa. Il tempo prende
un altro corso, diventa il tempo dell’anima, aperto alle sorprese,
irripetibile. E se da una parte si nota una rottura con il passato, dall’altra
se ne costata la continuità con il momento presente. Proprio per questo cresce
la serietà e l’impegno. Il passato con le sue pecche e negligenze morde e
stimola ad assumere un comportamento diverso, segno chiaro che esso non è
concluso definitivamente. Il suo senso si prolunga, arriva al presente e si
estende all’avvenire. Quello che è successo in disordine e male resta ma non in
modo immutabile. Lascia il posto a emendamenti e a correzioni. Si può sempre
ricorrere a riparazioni. Alla colpa posso dare un nuovo senso. Non è vero che è
irrimediabile perché è passata. Sì, è passata ma non è passata la sua efficacia
in quanto è capace di aumentare lo zelo e il fervore.
IL
RISCHIO DI UNA VITA
A RITMO
LENTO
Bizzotto cita Scheler
il quale parla di una rinascita. La colpa porta il segno di una morte, il
pentimento a sua volta il segno del rientro in vita. Esso fa sì che la
trasgressione non rimanga immutata. In forza del pentimento cade in nostro
potere il passato, che inserito nel quadro complessivo della vita diventa una
tappa di un percorso non ancora concluso. Il convertito fa ripartire la vita,
la libera dalla morsa nella quale si era impigliata. Del male commesso cambia
le conseguenze negative che ne derivano trasformandole in positive, lo
distrugge alla radice.
Si può
avere tuttavia l’impressione che nella vita religiosa, dove il tempo scorre via
sostanzialmente tranquillo e monotono non esista la possibilità di sbandamenti.
Si vive dentro un quadro con una vita a basso livello di intensità dove sembra
non esserci posto per gesti trasgressivi e non dar luogo quindi all’esperienza
del pentimento. Eppure, se non ci sono violazioni aperte, esperienze di mali
espressi in modo puntuale, resta sempre la colpa e la situazione di peccato.
In
effetti non c’è soltanto la colpa consumata, c’è anche quella del torpore, che
mortifica l’intera gamma dei sentimenti, una condizione di vita a ritmo lento,
lentissimo come sotto l’effetto di un narcotico. La colpa non manca, manca però
l’esperienza della medesima. Vengono in mente al proposito, osserva M. Bizzotto, alcuni scritti di Kierkegaard,
dove parla del peccato che a suo dire non è riducibile ad atti singoli, ma a un
modus vivendi, alla vita trascinata placidamente nell’incuria, alla distanza
che si interpone tra Dio e l’uomo, tra l’innocenza e il peccato insito nella
stessa condizione creaturale dell’uomo. Il pentimento
è commisurato all’esperienza della colpa. Se essa è avvertita e punge, può
seguire anche il ravvedimento e il desiderio di cancellarla. Uno stato di vita
che cede alla tentazione di un comodo torpore e impoltrisce
in un tempo monotono senza spinte, né slanci né sorprese, difficilmente si apre
al pentimento e al correlativo bisogno di perdono.
L’invito
alla vigilanza, a uscire dalla sonnolenza è la ricetta più adatta per salvare
l’esperienza religiosa dalla piattezza e da un conformismo tiepido. Il primo
passo da compiere è di riconoscere che c’è un male che bisogna bandire dalla
vita e di cui è necessario avvertire la presenza. Il giudizio di Cristo non
verte tanto sulle colpe quanto sul grado di pentimento. Quando questo spunta
nel cuore, non cambia solo la condotta di vita apportando di continuo nuove
modifiche, cambia anche il giudizio di Dio.
Il
pubblicano che sale al tempio portando con sé il dolore e il peso delle sue
inadempienze e invoca pietà, Davide che sbocca in una preghiera di
implorazione, Pietro che detesta la propria colpa e ne sente profondo
dispiacere, insegnano il vero pentimento. Esso compie sempre degli strappi
nell’anima e la sommuove.
TUTTO
COME
“IL
SOLITO”
Uno dei
pericoli a cui è esposta la vita religiosa con il suo andamento, sottolinea M. Bizzotto, è dato dalla ripetitività dei gesti, delle
preghiere, dei compiti da svolgere, dei riti abituali. Tutto come previsto,
tutto come il solito. In questo modo, quante cose minacciano di finire sepolte
nel “solito”, quanti sentimenti soffocati prima di nascere. È ciò può
riguardare anche il pentimento: il relegarlo nell’artificio della vita ne segna
la fine.
Questo
rischio esiste soprattutto quando ci si accosta alla confessione, regolata
secondo scadenze fisse. Capita che nel formulare l’accusa si ricorra a un
cliché, adattabile a ogni situazione. Si perde allora l’adeguazione alle
circostanze contingenti. La vita procede come al solito senza le novità che
essa presenta giorno per giorno. Se si riflette, ci si accorge di ripetere
sempre le stesse formule.
Meraviglia,
per esempio, incontrare persone che si presentano alla confessione dichiarando
di non aver niente da dire: «Non ho fatto niente, non ho alcun rimprovero da
farmi». Ma spesso non si ha niente da dire perché è mancata la vigilanza e un
esame che faccia passare attraverso i filtri l’operato. Non riuscendo a far
parlare la vita con i suoi rovesci e i suoi piccoli fallimenti, si fanno
parlare dei prontuari, si prendono in prestito da loro delle formule
precostituite. In questo modo ci si fa sostituire anche nell’esperienza più
strettamente personale: nel pentimento. L’animo pentito non ha difficoltà né a
umiliarsi né di trovare il modo di esprimersi. Non ha bisogno di sussidi, sa
già esporre la sua situazione. L’apparato istituzionale dei riti, dei sussidi,
delle liste di domande da porsi diventa superfluo.
Indubbiamente,
conclude M. Bizzotto, nessuno nega l’utilità di una
preparazione alla confessione fatta su schemi appositamente ideati. Ma decisivo
è il coinvolgimento interiore che nessun surrogato può rimpiazzare. Capita
abitualmente che si vorrebbe essere pentiti, rendendosi c100onto di non esserlo
a sufficienza. Si capisce allora come il pentimento non è qualcosa che sta
interamente nelle nostre mani, è anche dono e in quanto tale va invocato.