IL BINOMIO MISSIONE E CARITÀ

RAPPORTO DA RIPENSARE

 

Il rapporto tra la missione e la carità, intesi come se fossero sinonimi, è uno dei grossi equivoci di una certa missiologia. Facendone un tutt’uno, il tema centrale dell’annuncio cristiano della salvezza e del ripristino della dignità umana in Cristo sono relegati in secondo piano e la missione stessa diventa ambigua.

 

Il continente africano in questi ultimi tempi ha occupato un posto centrale nell’attenzione del papa. Ne ha parlato nel messaggio per la giornata mondiale della pace ed è nuovamente ritornato più diffusamente sull’argomento in quello per la giornata mondiale del malato, che quest’anno si è celebrata in Camerun, a Yaoundé. Nello scorso mese di novembre, inoltre ricevendo in udienza i partecipanti al simposio su Comunione e solidarietà tra l’Africa e l’Europa, organizzato dal Consiglio conferenze episcopali d’Europa(CCEE) e dal simposio delle conferenze episcopali dell’Africa e Madagascar (SCEAM), ha espresso anche l’intenzione di convocare una seconda assemblea speciale per l’Africa del sinodo dei vescovi.

Tutto questa attenzione per l’Africa giustifica anche il costante l’interesse che anche noi attribuiamo a questo continente e alla riflessione sulla sua evoluzione. Al di là della semplice informazione ci sembra interessante anche riprendere alcuni spunti quali per esempio i seguenti, anche se un po’ provocatori, di Francis Anekwe Oborji, professore di missiologia presso l’università urbaniana di Roma (Sedos Bulletin n. 7/8, 2004), dove è affrontato un argomento alquanto inconsueto, ma importante: il rapporto tra la missione e la carità, intesi a volte come se fossero sinonimi, perdendo così il loro significato e la loro forza tradizionale. Secondo Oborji è uno dei grossi limiti dell’attuale missiologia, che a sua volta è ulteriormente aggravato da un genere di informazione molto diffusa nei mezzi moderni di comunicazione.

In questo modo, il tema centrale della proclamazione cristiana della salvezza e del ripristino della dignità umana in Cristo sono relegati in secondo piano e la missione stessa diventa ambigua.

Inoltre, anziché riflettere realisticamente sulle cause che stanno alla radice della situazione africana, certi media continuano a diffondere nel mondo una falsa immagine dell’Africa, di tipo coloniale, che alcuni autori africani considerano come una guerra psicologica dichiarata all’Africa e alla sua gente.

 

DIETRO C’È SPESSO

UNA STRATEGIA POLITICA

 

La tendenza a fare un tutt’uno tra missione-carità comporta una quantità di preoccupanti conseguenze per la missione.

Per esempio, essa ha provocato un’insana alleanza tra la stampa, le organizzazioni non governative e le agenzie di informazione. Queste organizzazioni si impegnano in una propaganda che è dannosa all’immagine dell’Africa, con la scusa di cercare delle offerte per aiutare la povera gente del continente nero. Peter Sarpong sostiene che il modo con cui i media stranieri ritraggono le condizioni povere dell’Africa lascia chiaramente intendere che il termine “povertà” è una strategia politica e ideologia intesa a dimostrare e scoraggiare gli africani dal credere di essere partner alla pari con il resto del mondo. Per i media e gran parte delle organizzazioni caritative, l’Africa è sinonimo di “povertà”, di Aids, promiscuità sessuale, guerre tribali, rifugiati, fame, disordini, malattie, ignoranza, ecc. Infatti, in molti casi i media sono impiegati per intossicare gli animi degli africani e diffondere il crimine, la violenza, la falsità e l’immoralità.

Più ancora, solo raramente nei media dell’Europa e nord America appaiono argomenti che non siano sprezzanti nei riguardi dell’Africa. Sarpong insiste nel dire che se vogliamo promuovere la dignità della persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio, i media devono equilibrare il loro modo di presentare l’Africa così che le persone di buona volontà abbiano un’immagine precisa del continente.

Questa tendenza ha fatto sì anche che i missionari a volte siano guardati con diffidenza. Se il popolino ha criticato il passato missionario per la sua implicazione nel commercio degli schiavi, il colonialismo, e il degrado dell’africano e della sua cultura, oggi i missionari sono visti, a torto o a ragione, come dei collaboratori delle compagnie multinazionali, della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale, delle ONG, ecc. I missionari sono stati sospettati persino di essere degli agenti attraverso cui le loro nazioni di origine esportano armi per aiutare i signori della guerra, i sistemi monopartitici e i regimi militari dell’Africa. In alcuni casi sono visti persino come persone coinvolte con gruppi che aiutano le organizzazioni straniere che distribuiscono farmaci alle giovani donne africane in nome della cosiddetta pianificazione familiare, ma che in realtà sono destinati a diffondere malattie e a ridurre la fertilità di coloro che li ricevono.

 

UNA MENTALITÀ

DA MATRIGNA

 

Un altro preoccupante aspetto dell’aver unito insieme missione e carità è la tendenza a trattare la gente delle terre di missione, in questo caso l’Africa, con la mentalità della matrigna. Questa tendenza è un’altra espressione del fenomeno già descritto. La teologia sottostante è basata sull’idea che gli africani sono ancora dei minori, devono ancora imparare oppure sono come bambini indifesi o membri minorenni della razza umana e quindi bisognosi di un’attenzione benevola.

Questo genere di teologia non considera l’Africa un continente come gli altri del pianeta. Non considera l’Africa come un continente di persone, realmente tali, ma come esseri strani bisognosi di un trattamento speciale. Questa teologia non avverte che gli africani sono capaci della visione beatifica e della realtà ontologica. Non riconosce che diventare un buon cristiano non dipende dal colore o luogo di nascita, ma dalla propria risposta alla fede in Cristo. Uno può essere nato in Africa e rispondere alla fede in Cristo in una maniera più autentica che non uno nato nelle cosiddette nazioni cristiane.

Inoltre questa teologia lascia capire la ragione per cui certa gente si adonta se vede un africano vivere in un’abitazione decorosa, se guida una buona macchina o compie gli studi superiori. Nella psiche di certuni, gli africani non sono nati per questo lusso avanzato né per gli studi.

Questa è anche la ragione per cui alcuni ordini religiosi del nord preferirebbero chiudere le loro comunità e conventi piuttosto che invitare la loro controparte africana a collaborare all’opera della nuova evangelizzazione dell’Europa. Per la stessa ragione, i missionari che provengono dall’Africa non sono accolti in Europa e in America sulla base dell’uguaglianza e nello spirito dell’enciclica Fidei donum di Pio XII. In effetti si ha l’impressione che in Europa ci sia preoccupazione per la crescita del cristianesimo in Africa. C’è una paura infondata che gli africani molto presto prendano in mano le redini della Chiesa se non si sta attenti.

Tutto ciò è dovuto a pregiudizi culturali. Il malsano rapporto storico che è esistito tra gli africani e i popoli del nord, osserva Oborji, ha la sua origine nel mito che ha pervaso la teologia della maledizione e ciò spiega il modo strano e peculiare con cui il continente è ancora percepito, disprezzato ed marginato.

I tragici eventi del passato e del presente trovano la loro giustificazione in queste ragioni. In effetti, l’attuale divario economico e il sistema economico che hanno continuato a impoverire gli africani e altri paesi del terzo mondo sono la continuazione della stessa vecchia mentalità e del medesimo pregiudizio.

 

LA POVERTÀ

NON È IL VERO PROBLEMA

 

Occorre un nuovo approccio. La povertà, affermava Julius Nyerere, non è il vero problema del mondo moderno poiché abbiamo le conoscenze e i mezzi che ci mettono in grado di superarla. Il vero problema, la cosa che crea miseria, guerre e odio è la divisione dell’umanità in ricchi e poveri. Il significato di questa divisione non consiste semplicemente nel fatto che uno ha più cibo di quanto è necessario, più vestiti di quanti ne abbia bisogno Non è semplicemente il fatto che una nazione ha i mezzi per offrire il comfort a tutti i suoi cittadini, mentre altre non possono provvedere nemmeno ai servizi di base. La realtà e la profondità del problema sorge dal fatto che colui che è ricco ha il potere sulla vita di coloro che sono poveri, e la nazione ricca ha il potere sulle politiche di quelle che non sono ricche. Più ancora, il nostro sistema sociale ed economico, dal punto di vista nazionale e internazionale, sostiene queste divisioni e le accresce di continuo, in modo che i ricchi diventano sempre più ricchi e potenti, mentre i poveri diventano relativamente più poveri e meno capaci di controllare il proprio futuro.

Questa è la forma di povertà dominante nel mondo d’oggi. È una povertà dovuta all’uomo. Il papa Giovanni Paolo II afferma che è necessaria una interdipendenza tra le nazioni e gli stati su una base di uguaglianza per correggere l’attuale squilibrio nell’esistenza globale, e conferire un volto umano al sistema economico.

L’interdipendenza si estende a tutti gli ambiti della vita: politica, economia, ecologia, cultura, religione, ecc. L’interdipendenza può funzionare solo se tutte e parti in relazione tra loro sono uguali, con pari voce, uguale potere, e via dicendo.

 

OCCORRE

UN NUOVO LINGUAGGIO

 

Altrettanto necessario è il bisogno di un nuovo linguaggio della missiologia nei riguardi dei popoli delle nazioni in via di sviluppo, in modo particolare di quelli del contesto africano. Il linguaggio dominante nella missiologia ci ha impedito di riconoscere il potenziale delle chiese e dei popoli africani nella missione della Chiesa.

Bisogna rompere questo tipo di linguaggio missiologico che vede ancora gli africani come membri minori del genere umano; che vede solo il lato negativo dei popoli; che promuove il paternalismo, che emargina e mente riguardo al quadro generale della mentalità dei popoli e del loro patrimonio culturale. È necessario sviluppare un linguaggio missiologico incentrato sulla identità dei popoli in terra di missione, basato sui loro valori culturali, la tradizione e il messaggio evangelico. Un nuovo linguaggio che presenti gli aspetti positivi dei popoli, rispetti le loro culture, tradizioni e favorisca la stima di sé, li tratti come membri normali e a pieno titolo della famiglia umana.

Alla luce della teologia della missione del concilio Vaticano II, il nuovo linguaggio dovrà basarsi sul fatto che i poveri rispondono meglio alla stima che non alla simpatia. Essi si comporteranno meglio se sarà loro offerta la speranza e non la demoralizzazione.

Come dice la Bibbia, il più grande nemico è colui che uccide l’anima dell’uomo. In senso lato, oggi, il linguaggio della missiologia in molti territori di missione può essere descritto come qualcosa che uccide l’anima dei poveri. Infatti, ciò di cui hanno bisogno le nazioni povere non è necessariamente l’aiuto straniero (che spesso giunge con attaccate le etichette), ma un cambiamento di atteggiamenti e di mentalità da parte di coloro che parlano, studiano e trattano con loro. Ciò che, per esempio, un continente come l’Africa chiede è la purificazione della memoria e l’evangelizzazione delle credenze superstiziose che finora hanno caratterizzato l’atteggiamento del mondo esterno e il rapporto verso di essa.

È sempre stata una tattica dei ricchi e potenti sfruttare la povertà dei poveri, tenerli all’oscuro e nell’ignoranza. Tuttavia nel NT (in particolare come riferisce Matteo) sappiamo che il cristianesimo trova le sue origini e la sua crescita nei poveri e nelle classi più umili che hanno abbandonato tutto per seguire Gesù. Il cristianesimo ha conquistato la società non dall’alto ma dal basso: in Gesù Cristo, i poveri e piccoli che la società aveva escluso e oppresso poterono trovare vita e forza per smantellare le strutture e i meccanismi di impoverimento e di discriminazione. L’esempio e l’insegnamento di Gesù che infondeva coraggio agli “svantaggiati della società” sono stati tali che la Chiesa dei primi secoli facilmente ha compreso se stessa come chiesa dei poveri.

Questi non erano solo i poveri privi del necessario per vivere ma anche coloro che rinunciavano a tutto per seguire il Signore e il salvatore Gesù Cristo. Allo stesso modo, l’evangelizzazione nel nostro tempo deve consistere nel proclamare Gesù Cristo che solleva il povero, eleva la sua coscienza e la sua dignità umana in modo da partecipare attivamente alla realizzazione del regno di Dio nel proprio ambiente. È facendo così che i poveri, come i primi cristiani, potranno offrire dinamismo al cristianesimo e rinnovare la faccia del nostro mondo contemporaneo così profondamente bisognoso di Cristo e della salvezza che egli ci ha portato.

 

A. D.