NUOVI SCENARI IN MEDIO ORIENTE

PASQUA DI SPERANZA?

 

In Medio Oriente qualcosa si sta movendo, sia pure tra tante difficoltà. Dopo anni di immobilismo si sono aperti spiragli di pace che potrebbero influire in tutta l’area mediorientale. Anche per i cristiani la situazione potrebbe migliorare.

 

 

Tre Pasque stanno per avvicendarsi, e come sempre esse avranno un particolare rilievo a Gerusalemme: il 27 marzo quella della Chiesa latina e delle altre Chiese occidentali; il 15 aprile quella ebraica di Pesach; il primo maggio quella delle Chiese ortodosse.

Nella diversità di calendario, nelle loro somiglianze, e nelle loro irriducibili differenze teologiche, queste feste, per chi le celebra, sono comunque momenti alti di spiritualità e, insieme, segni di speranza. Una speranza che, nella Città santa, quest’anno attende che fioriscano, senza avvizzire anzitempo, i germogli di pace che si intravvedono tra lo stato d’Israele e l’Autorità nazionale palestinese, naturalmente nel contesto del più ampio e travagliato quadro mediorientale.

 

NOVITÀ POLITICHE

OLTRE LO STATUS QUO

 

Il 26 ottobre 2004 la Knesset (parlamento israeliano) approvava la proposta del premier Ariel Sharon di abbandonare tutti gli insediamenti della Striscia di Gaza, più quattro piccolissimi della Cisgiordania. Una parte del Likud, il partito del premier, votava contro il progetto, che era invece approvato dai laburisti, il maggior partito di opposizione.

Nella Striscia – 378 kmq di superficie, 1.4 milioni di abitanti – vivono ottomila coloni, disseminati in ventun insediamenti che sono stati via via creati dopo che, con la Guerra dei sei giorni del 1967, Israele aveva occupato l’intera area di Gaza (allora amministrata dall’Egitto), oltre che il Sinai egiziano, Gerusalemme-est e la Cisgiordania (in mano giordana), e le alture del Golan siriano. Gli insediamenti, a Gaza, occupano un terzo dell’intera Striscia. Fino ad un anno fa Sharon era stato uno dei massimi sostenitori degli insediamenti nei Territori. Perciò la sua ultima scelta fu considerata «tradimento» dai coloni – da quelli della Striscia, prima di tutto, ma anche da quelli, numericamente più imponenti, della Cisgiordania (West bank; ma gli israeliani la chiamano con i nomi biblici di Samaria e Giudea), che sono 230mila, sparsi in circa 160 insediamenti.

Per un singolare destino, l’indomani dello storico voto della Knesset si aggravavano le condizioni di salute del presidente palestinese Yasser Arafat che, trasportato a Parigi, ivi moriva l’11 novembre. Nei Territori – il rais è eletto a suffragio universale – il 9 gennaio, con circa il 70% dei voti, viene eletto Abu Mazen (Mahmud Abbas). Questi era stato uno degli architetti degli accordi Israele-Olp preparati ad Oslo e firmati a Washington il 13 settembre 1993 (accordi poi falliti). Era dunque un uomo di fiducia di Arafat ma, con questi, aveva avuto anche aspri contrasti, proprio sul modo con cui intendere ed attuare la resistenza all’occupazione israeliana dei Territori: tollerare i kamikaze (parola ormai in uso, anche se dobbiamo ricordare che i palestinesi chiamano martiri gli attentatori suicidi-omicidi contro bersagli israeliani), o contrastarla radicalmente? Il neoeletto presidente ha subito messo in chiaro la sua discontinuità da Arafat, ribadendo un netto rifiuto della «politica» del kamikazismo (sostenuta soprattutto da Hamas, il Movimento palestinese di resistenza islamica).

In tale contesto, nel vertice di Sharm el Sheikh (Egitto), presenti anche il presidente egiziano Hosni Mubarak e il re giordano Abdallah, l’8 febbraio Sharon e Abu Mazen hanno dichiarato il cessate-il-fuoco (dal settembre 2000 al marzo 2005 le violenze tra israeliani e palestinesi hanno provocato 1.100 morti israeliani e sei mila feriti; 3.500 vittime palestinesi e 50mila feriti. Molti i bambini uccisi, dall’una e dall’altra parte). Il premier ha ritenuto credibile il rais nella dichiarata lotta al «terrorismo»; Abu Mazen ha ritenuto un grande passo verso la pace l’annunciato ritiro israeliano da Gaza.

Il 20 febbraio il governo israeliano (di unità nazionale, con l’entrata dei laburisti) ha confermato che entro l’anno tutti gli insediamenti della Striscia, più quattro piccolissimi della Samaria con 400 abitanti, saranno abbandonati; i coloni potranno farlo spontaneamente entro il 20 luglio, e dopo tale data vi saranno costretti.

Ancora, il governo ha deciso di «spostare» più verso Israele il muro di separazione tra lo Stato ebraico e la West bank, in costruzione dal 2002. Attualmente (ne sono stati costruiti circa 150 chilometri, sui 650 previsti) questo spesso si addentra per oltre venti chilometri in territorio cisgiordano, e cioè al di là della linea di confine armistiziale del 1949 tra Israele e la Cisgiordania, «rubando» così terra ai palestinesi. I quali non contestano a Israele il diritto di costruire il muro, ma esigono che, in caso, esso segua esattamente la linea armistiziale. D’altra parte, il 9 luglio 2004 il Tribunale internazionale dell’Aia aveva stabilito: «La costruzione del muro che Israele, la potenza occupante, sta facendo nei Territori palestinesi occupati, inclusi quelli in e attorno a Gerusalemme-Est, è contraria al diritto internazionale»; e dunque Israele deve cessare la costruzione del muro, smantellare la parte già costruita, e riparare i danni arrecati ai palestinesi.

 

IL COSTO

DI UNA PACE GIUSTA

 

La decisione di Sharon su Gaza rappresenta una cesura storica: nessun governo israeliano aveva mai osato tanto. Viene rotto un tabù, e si dichiara possibile, in linea di principio, un ritiro dai Territori occupati. Ipotesi, questa, impensabile per quegli ebrei israeliani che giudicano gli «insediamenti» la punta avanzata per garantire la sicurezza d’Israele, e «blasfema» per quelli che ritengono «comando divino» l’insediarsi comunque in Territori legati alla «Terra promessa». Dunque, se e quando si verificherà, il ritiro da Gaza non sarà indolore.

La domanda cruciale è però un’altra: all’annunciato ritiro da Gaza seguirà, o no, il ritiro dalla West bank? Quello che Sharon si accinge a fare è solo un «anticipo» dell’intero prezzo da pagare per raggiungere la pace, oppure è già il prezzo finale? È ben evidente che se, con il ritiro da Gaza (e da pochissimi insediamenti della Samaria), Sharon ritenesse di aver «concesso il massimo», anche il pur moderato Abu Mazen sarebbe costretto a respingere la proposta, politicamente inaccettabile e contrastante con le risoluzioni delle Nazioni Unite.

Una soluzione che inveri il principio «due popoli, due stati», egualmente garantiti, può essere raggiunta solo se, insieme, saranno attuate queste condizioni: la piena accettazione reciproca tra lo stato d’Israele e lo stato di Palestina, con la fine di ogni tipo di violenza e di terrorismo; il ritiro sostanziale di Israele nei confini del 1967; l’abbandono di tutti gli insediamenti in territorio palestinese; Gerusalemme città condivisa, capitale d’Israele e della Palestina; una soluzione equa per i profughi; una giusta spartizione delle acque.

A questa meta dovrebbe portare la Road map lanciata nel 2002 da Stati Uniti, Onu, Russia, Unione europea. Ma tale piano ha il limite di lasciare nel vago la soluzione concreta dei problemi sul tappeto – mentre invece a tale approdo si avvicina l’Accordo di Ginevra del primo dicembre 2003, firmato però non da delegazioni ufficiali delle due parti, ma da personalità israeliane e palestinesi indipendenti che intendevano, con questo «grido», dimostrare che un accettabile compromesso era possibile.

Naturalmente, se l’insieme d’Israele dovrà fare molti passi, altrettanti ne dovranno fare i palestinesi. Deve, e dovrà essere inammissibile che gruppi armati decidano per proprio conto se e come reagire all’occupazione israeliana. Abu Mazen ha tentato di convincere Hamas ad accettare almeno una tregua di fatto con Israele; il Movimento non ha respinto in linea di principio l’idea, però legando il suo assenso al fatto che anche Israele rispetti integralmente la tregua. E, tuttavia, il 26 febbraio un kamikaze si è fatto saltare in aria a Tel Aviv, provocando quattro vittime e decine di feriti. Abu Mazen ha accusato «terzi» come mandanti del delitto; e il governo israeliano ha indicato nella Siria il vero mandante. Come che sia, se l’Autorità palestinese non riuscirà a stroncare i gruppi che praticano il kamikazismo, l’esito sarà quasi sicuro: forse, Sharon smantellerà gli insediamenti di Gaza, ma poi chiuderà per sempre la partita.

Ovviamente, la questione israelo-palestinese s’inserisce nel più ampio quadro del Medio Oriente. Qui, in proposito, basti un cenno a Libano e Siria. Il 14 febbraio a Beirut è stato assassinato l’ex premier libanese Rafiq Hariri. La Casa Bianca, ma anche i sauditi, hanno colto l’occasione per sollecitare energicamente il leader siriano Bashar al-Assad ad attuare la risoluzione 1559 con cui il Consiglio di Sicurezza dell’Onu il 2 settembre 2004 aveva chiesto alla Siria di ritirare totalmente dal Libano le sue truppe (14.000 soldati, oggi). Il rais di Damasco si è detto disponibile a ritirare i suoi soldati dal litorale, per concentrarli nella valle della Bekaa, a est del paese.

In Libano grandi folle (con l’appoggio, anche, della Chiesa maronita) hanno protestato contro le interferenze siriane nel paese; ma l’8 marzo gli Hezbollah – gli sciiti guidati da Hassan Nasrallah – sono riusciti a portare in piazza, a Beirut, un milione di persone per gridare il loro «no» agli Usa, e per invitare la Siria a ignorare la risoluzione 1559, visto che da decenni Israele non ottempera alle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza, che gli impongono di ritirarsi dal Golan conquistato nel 1967.

 

PROBLEMI E PROSPETTIVE

PER I CRISTIANI

 

È in tale movimentata situazione geopolitica che si trovano a vivere anche i cristiani – delle varie Chiese tra loro separate – della Terra santa, circa il 3% dell’intera popolazione d’Israele e dei Territori. Essendo una piccola minoranza, in qualche modo subiscono ancor più degli altri i contraccolpi dell’irrisolto conflitto. Incerti sul loro futuro, molti emigrano in altri paesi del Medio Oriente, in Europa e nelle due Americhe. I capi delle Chiese sono assai preoccupati di una emorragia che continua inesorabile e che fa prospettare, tra pochi decenni, una «Terra santa» ricca di «Luoghi santi» ma quasi vuota di «pietre sante», cioè dei cristiani autoctoni. Sul versante cattolico, più volte papa Wojtyla è intervenuto per invitare i cattolici del mondo alla solidarietà con i loro fratelli che vivono nella terra di Gesù.

Santa Sede e Israele hanno firmato, nel 1993, un Accordo fondamentale che avviava poi piene relazioni diplomatiche tra le due parti. Erano rimasti tuttavia in sospeso problemi concreti, come la concessione dei visti o dei permessi di soggiorno per il personale ecclesiastico, o l’esenzione delle istituzioni religiose dalle imposizioni fiscali. Dopo anni di lavoro, e di tensioni, pare che ora una commissione mista abbia abbozzato un accordo soddisfacente che dovrebbe presto essere firmato.

Intanto, però, è scoppiato l’incidente di Maghar. È, questa, una cittadina dell’Alta Galilea, con una popolazione di circa 17.000 abitanti: il 15% cristiani, in maggioranza melkiti (cattolici arabi di rito bizantino), che vivono nella parte bassa del paese; il 35% musulmani; il 50% drusi, situati nella parte alta del paese. Finora, pur con alcune spiacevoli eccezioni, nella cittadina vi era stata una buona convivenza tra i seguaci delle varie religioni. Ma l’11 e 12 febbraio scorso gruppi di drusi hanno assaltato la parte cristiana di Maghar, ferendo sette persone, distruggendo una settantina di negozi e case, bruciando 150 automobili, e rompendo a sassate i vetri della chiesa. Il patriarca latino di Gerusalemme, mons. Michel Sabbah, e il nunzio apostolico in Israele, mons. Pietro Sambi, hanno vibratamente protestato contro le autorità israeliane, sostenendo che la polizia ha atteso inerte due giorni prima di intervenire per fermare le violenze dei drusi.

È in tale clima di luci e di ombre, di timori e di speranze che a Gerusalemme ci si prepara alla Pasqua. Anzi, alle imminenti Pasque. Che siano di benedizione per tutti!

 

Luigi Sandri

Corrispondenza da Gerusalemme