UNA REALTÀ DAL VOLTO BIFRONTE
LA SOLITUDINE NELLA VITA CONSACRATA
Ci sono esperienze di solitudine nelle persone consacrate? Quando la
solitudine è sofferenza e quando è felicità? Come superare le esperienze
negative e come sperimentare una solitudine felice? Una serena solitudine è un
segno di maturità psichica e condizione per coltivare la vita dello spirito.
La solitudine è, per la persona
consacrata, un’esperienza da favorire o da evitare? Deve essere ricercata e
coltivata come condizione importante per la crescita spirituale o, al
contrario, è un possibile pericolo e una sofferenza da cui premunirsi?
Non è difficile immaginare che la
risposta sia: le due cose insieme. Come accade nella vita di qualsiasi persona,
così anche per le persone consacrate la solitudine può essere vissuta sia come
uno stato doloroso, qualcosa che è fonte di malessere e di infelicità e
sinonimo di isolamento, di incomprensione, di abbandono, di paura (a tutto ciò
pensava probabilmente Qoelet 4,10 quando ammonisce: “Guai a chi è solo”), sia
come fonte di benessere, condizione fondamentale per incontrare se stessi e
avere la possibilità di essere creativi (e allora viene alla mente il motto
della tradizione monastica: Beata solitudo, sola beatitudo). È il volto
bifronte della solitudine: può essere deserto o rifugio, condizione di
isolamento o luogo di incontro
autentico.
La persona consacrata può vivere
situazioni di solitudine che la fanno soffrire. Qualche esempio.
– La solitudine in comunità. Può
capitare che la vita in comunità si accompagni, per qualcuno, a un profondo
senso di solitudine, di estraneità reciproca, di povertà di rapporti
interpersonali (come, del resto, qualcosa di analogo può avvenire all’interno
di una coppia sposata). Le cause sono diverse: forme di comunicazione superficiali
o inadeguate; stile di vita dei vari membri caratterizzato da accentuato
individualismo; stile di guida che non presta attenzione ai bisogni delle
persone, le quali si sentono trattate come semplici forze-lavoro da utilizzare
a seconda delle necessità; caratteristiche di personalità dei singoli membri, i
quali possono avere difficoltà di incontro con gli altri e presentare tratti di
personalità che favoriscono l’isolamento (ad esempio: forme accentuate di
timidezza, immagine negativa di sé, atteggiamenti di invidia e gelosia, attese
di tipo infantile nei confronti della comunità). Il risultato di tutto ciò, nei
casi più gravi, è la sensazione diffusa che a nessuno importi nulla del proprio
vicino: uniti a tanti e vicini a nessuno, ognuno cerca di “sopravvivere” come
può.
Vi possono essere anche particolari
esperienze di solitudine legate alle età della vita: ad esempio, la solitudine
della persona anziana che si sente «non più consultata» e tagliata fuori da
tutto; la solitudine della persona consacrata giovane la quale si sente lontana
dagli altri membri della comunità per età, mentalità, esperienze e si ritrova
quindi a fare un cammino “in solitudine”.
– La solitudine affettiva. La persona
consacrata sa che la sua scelta di vita comporta uno stato di frustrazione
affettiva profonda, in quanto non vive l’esperienza normale dell’amore
coniugale, e non è certamente rifiutando di prendere atto di questa situazione
che diventa più facile viverla serenamente. Ora, se è vero che si deve
affermare con sicurezza che questa rinuncia, realizzata nelle dovute
condizioni, non implica affatto un ostacolo per la piena maturazione delle
persone, è anche vero che, senza minimamente voler indulgere a toni da racconti
rosa, se si vuole essere realisti si deve affermare che mancherà sempre
qualcosa al cuore della persona consacrata. È dunque possibile che questa possa
sperimentare, almeno in qualche momento particolare, la solitudine affettiva:
tale sensazione potrà essere anche molto acuta e perdurare nel tempo nella
misura in cui la persona ha alle spalle una scelta di vita non del tutto
autentica o trascura i mezzi necessari per vivere positivamente la rinuncia
affettiva (la preghiera, l’impegno comunitario e apostolico, la dovuta prudenza
nei rapporti con le persone...).
– La solitudine come isolamento. La
sensazione di solitudine può essere causata a volte da situazioni di obiettivo
isolamento in cui la persona consacrata viene a trovarsi per motivi di
obbedienza. Può essere il caso, ad esempio, di chi si trova assegnato a una
piccola comunità isolata, con scarse possibilità di contatti o di spostamento,
impegnato in un lavoro apostolico anonimo e ‘dimenticato’ o scarsamente
valorizzato dall’istituzione, senza la possibilità di poter contare su un
confronto con una guida spirituale, a
contatto con persone molto diverse per cultura e sensibilità e con le quali
diventa assai difficile comunicare in profondità.
– La solitudine patologica. Per una
rassegna delle possibili esperienze di solitudine negative a cui può andare
incontro la persona consacrata non è da escludere neppure la possibilità che
esse siano collegate, a volte, a qualche disturbo di personalità.
Esiste, ad esempio, la solitudine del
depresso: si sente solo e abbandonato, ha la radicata convinzione che niente e nessuno
possano fare qualcosa per lui, è preso da sensi di colpa, vive di rimpianti, si
sente ai margini della vita.
C’è la solitudine del narcisista: egli
è centrato in prevalenza su se stesso, sulla propria importanza, è insensibile
al mondo esterno. È sotto la spinta di un bisogno sproporzionato di conferma e
approvazione, sperimenta sensi di insicurezza e inferiorità e un sottofondo di
vuoto e di noia. È, in definitiva, anche lui un grande isolato.
Si potrebbero incontrare infine, anche
tra i consacrati, casi di persone che sperimentano la solitudine legata a
tendenze psicotiche o schizofreniche (che si presentano in gradi diversi e
magari in certe particolari situazioni): la realtà esterna è vissuta da loro
come minacciosa, per cui si chiudono ermeticamente in se stesse e vivono in una
realtà tutta propria (rimangono chiuse per lungo tempo nella propria stanza, si
attengono rigidamente a determinati schemi di comportamento...).
Da queste varie forme di solitudine,
sinonimo di sofferenza a volte anche profonda, è naturale che si cerchi di
fuggire: le strade per “uscire dal deserto” sono diverse. Si possono mettere in
atto modalità di carattere positivo, basate sull’analisi delle cause e la
scelta intelligente dei mezzi più idonei per superare il proprio isolamento –
oppure si ricorre a diverse modalità di fuga. Qualche esempio: il bisogno
compulsivo di adeguarsi in modo acritico e conformista al gruppo; la relazione
fusionale con la comunità; l’attivismo; l’altruismo compulsivo, che porta a
cercare in continuazione qualcuno da “aiutare”; l’uso prolungato di
internet e la frequentazione del mondo
virtuale; l’incapacità di tenere per sé le proprie esperienze interiori
(sentimenti, disagi...) e il conseguente insopprimibile bisogno di trovare
comunque qualcuno con cui sfogarsi, raccontare, parlare...
LA SOLITUDINE
CHE FA CRESCERE
Nessuno può dubitare che la solitudine
– intesa non come intimismo o ritiro dalla realtà né come fuga dalle
responsabilità – sia una condizione importante, o necessaria, per assicurare
serenità e profondità alla vita interiore. In una società quale la nostra,
caratterizzata da “un eccesso di stimoli e un eccesso di scelte” (A. Toffler),
essa protegge dall’invadenza del mondo esterno e dal conformismo, soddisfa il
bisogno di intimità e autoriflessione, aiuta a riprendersi dall’attività
frenetica e dispersiva, facilita la creatività, dà profondità alla
comunicazione, favorisce la lucidità e la sicurezza necessarie per le decisioni
importanti della vita.
Il cristiano, e in modo particolare la
persona consacrata, sa che nella tradizione della Chiesa ci sono sempre state
persone che hanno raccomandato, con le parole e con l’esempio, la solitudine,
anche radicale a volte, come condizione particolarmente favorevole per
incontrarsi con Dio, per la preghiera autentica, per la meditazione.
Non va dimenticato, inoltre, il legame
tra solitudine e vita intellettuale. «La vita solitaria è il laboratorio dello
spirito; la solitudine interiore e il silenzio sono le sue ali. Tutte le grandi
opere, compresa la redenzione del mondo, sono state preparate nel deserto».1
Nel nostro tempo ciarliero, quando è facile confondere il pensiero con le
chiacchiere, il servizio con la frenesia faccendiera, l’informazione con la
comprensione, la solitudine e il silenzio tengono al riparo dalla
superficialità e permettono di coltivare la vita dello spirito.
Le condizioni di vita della persona
consacrata portano a pensare che la solitudine, come esperienza positiva per la
crescita personale, debba essere per lei abbastanza facilmente possibile - e
anche in misura maggiore rispetto ad altre categorie di persone: libera da
impegni famigliari, può trovare più facilmente l’occasione di starsene da sola.
È, comunque, facile immaginare che avere la possibilità di essere fisicamente
soli non significa che una persona sia senz’altro capace di “stare sola con se
stessa”:2 di norma, ciò rappresenta una condizione necessaria, ma non
sufficiente, anche se bisogna essere realisti e dire che l’isolamento fisico
costituisce generalmente una premessa molto importante per vivere una
solitudine felice.
C’è da chiedersi quanto tra le persone
consacrate si dia attenzione e importanza all’esperienza di una vera solitudine
e quanto si verifichi la disponibilità e la capacità che i candidati alla vita
religiosa mostrano nei suoi confronti. È pure opportuno, inoltre, che coloro
che svolgono il ruolo di guida nelle comunità religiose creino le condizioni,
nell’assegnare ai vari membri ruoli e responsabilità, che la rendano
concretamente possibile.
CONDIZIONI
PER LA SOLITUDINE FELICE
La possibilità di vivere positivamente
la solitudine non è sempre scontata per chiunque. Annota opportunamente
Montaigne: «Ritiratevi in voi, ma prima preparatevi a ricevervi. Sarebbe una
pazzia affidarvi a voi stessi, se non vi sapete governare. C’è modo di fallire
nella solitudine come nella compagnia».3 Essere soli significa stare a più
diretto contatto con se stessi, con i propri sentimenti, con i propri progetti,
con le proprie paure e speranze: una “compagnia” che potrebbe essere anche
fonte di disagio in certe condizioni.
«Vivere una solitudine felice è, tra
l’altro, un chiaro sintomo di maturità psichica, una maturità che nasce
dall’esperienza di essersi sentiti, all’inizio della vita, talmente amati da
scoprirsi capaci di amarsi, indipendentemente dalla presenza o dall’assenza
degli altri, del loro appoggio o del loro biasimo».4 Ecco una prima
fondamentale condizione per essere felici quando si è soli. Quando le cose
stanno così, la persona vive la solitudine senza sperimentare il bisogno
compulsivo di cercare qualcuno che colmi il suo vuoto o di buttarsi in
un’attività continua e frenetica che l’aiuti a superare l’angoscia.
La solitudine è una condizione, uno
spazio per coltivare la vita dello spirito, per affinare i nostri gusti, per
contemplare la verità, per sperimentare emozioni positive profonde
(ammirazione, gratitudine, gioia per la scoperta...), per mettersi in ascolto
dei grandi maestri e... di Dio, in particolare. Affinché tutto ciò sia
possibile, è necessario che la vita interiore della persona sia continuamente
nutrita: sta qui un’altra condizione importante per vivere positivamente la
solitudine. Se ciò non avviene, quando si è soli si sperimenta il vuoto. «La
vita interiore è nutrita dalla disponibilità alla contemplazione. Le persone
che “emanano interiorità” devono il loro tesoro interiore alle impressioni
ricevute dall’esterno. Per una, sarà un sentimento d’estasi provato davanti a
un quadro; per un’altra, l’ammirazione sentita davanti a un paesaggio, una
gioia condivisa con un bambino, una conversazione con un essere amato, un
momento di raccoglimento nel corso di una cerimonia religiosa. L’io profondo
non è ricco per chissà quale proprietà di natura, ma per le emozioni che in
esso si sono depositate, per gli atti di fervente contemplazione che lo hanno
arricchito. La vita interiore si forma mediante l’accumulazione dei ricordi
d’istanti in cui si è data accoglienza al mondo».5 Occorre quindi liberarsi
dall’erronea visione sottesa a certe pratiche di meditazione, basate sulla
contemplazione di sé e sul puro ascolto delle proprie sensazioni: la vita
interiore richiede la disponibilità e l’attenzione al mondo, ha bisogno di
essere rifornita dall’esterno e per “esterno” si può intendere: gli incontri
umani, la lettura di buoni libri (soprattutto quelli dei grandi maestri), la
conversazione con persone sagge e ricche di esperienza, la contemplazione della
bellezza in tutte le sue manifestazioni, l’ascolto della musica, la
partecipazione a momenti di riflessione e di confronto, il contatto con la
natura, le prove della vita. «L’anima non estrae niente dal proprio fondo: si
costruisce grazie alle bellezze che vengono da fuori. Lungi dall’essere
autosufficiente, non è che l’ombra formata dal mondo. Essa è una lanterna
magica dove si proiettano le immagini esterne accompagnate dalle loro
vibrazioni emozionali... Nella vita interiore, niente è sostanziale; tutto è
relazionale... L’io non è ricco per se stesso, ma per ciò che la sua fervente
disponibilità prende al mondo, per la raccolta di emozioni che in esso
compie».6
Infine, la persona consacrata godrà
della solitudine se sente che la sua vita ha un senso, che ha davanti a sé uno
scopo per cui vale la pena di lottare e di soffrire. Nei momenti in cui si è più
soli con se stessi, avvertiamo salire dal fondo del cuore gli eterni
interrogativi dell’animo umano: di dove veniamo? Dove andiamo? Cosa siamo
venuti a fare su questa terra? L’assurdo e il mistero sono le due possibili
soluzioni dell’enigma che l’esperienza della vita ci propone. Afferma Guitton:
«Assurdo e mistero sono i due poli opposti tra i quali oscilla il pensiero.
Quando esamino me stesso nel profondo, ascolto questa doppia voce. Ma nel
perpetuo moto pendolare dell’oscillazione, l’assurdità dell’assurdo mi conduce
in direzione del mistero».7 E con atteggiamento adorante, la persona consacrata
si affida a Colui che ha detto: “Ti farò saggio, t’indicherò la via da seguire;
con gli occhi su di te, ti darò consiglio” (Sal 31, 8).
A conclusione di queste brevi
riflessioni, si possono ora apprezzare ancora di più le parole di Rainer M.
Rilke: «Una sola cosa è necessaria: la solitudine. Andare in se stessi e non
incontrarvi, per ore, nessuno: a questo bisogna arrivare. Essere soli come è
solo il bambino».
Aldo Basso
1 Sertillanges A. D., La vita
intellettuale, Studium, Roma 1969, p. 56.
2 Di s. Benedetto il biografo scrive:
“secum vivebat” (viveva solo con se stesso).
3 Montaigne, Saggi, Mondadori, Milano
1970, Libro I, cap. XXXI, p. 325.
4 Castellazzi V. L., Dentro la
solitudine, Città Nuova, Roma 1998, p. 122.
5 Lacroix M., Il culto dell’emozione,
Vita e Pensiero, Milano 2002, p. 113.
6 op. cit., p. 141.
7 Guitton J., L’assurdo e il mistero,
Rusconi, Milano 1968, pp. 10-11.