CONTRIBUTO DELLA VITA CONSACRATA

GLOBALIZZAZIONE UN SEGNO DEI TEMPI

 

Il fenomeno della globalizzazione interpella i religiosi/e in ciò che hanno di più specifico. Essi possono indicare al mondo le vie da percorrere per costruire un’unità non solo economica e finanziaria e con i voti religiosi fare da contrappeso alle derive negative che il fenomeno può assumere.

 

Anche la vita consacrata deve oggi prendere coscienza che viviamo in un mondo sempre più globalizzato. Si tratta di una realtà da cui bisogna lasciarsi interpellare per cercare di dare a essa una risposta a partire dal Vangelo, se non si vuole correre il rischio di rimanere tagliati fuori dalla storia, semplici reperti archeologici, destinati a finire in un museo.

Non ha perso perciò di attualità ciò che scrive la costituzione conciliare Gaudium et spes: «È dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico» (4).

La globalizzazione è certamente uno di questi segni dei tempi. Che cosa dice alla vita consacrata?

Per rispondere a questa domanda, è interessante sentire come una persona, che non è membro di un istituto religioso, ma una laica, legge per noi religiosi questo segno dei tempi. Si tratta della dott.ssa Ingeborg Gabriel, dell’istituto di etica sociale dell’università di Vienna, con esperienze anche nel Nepal e nella Mongolia come membro del programma di sviluppo delle Nazioni Unite. Ha parlato di questo argomento in una relazione all’unione dei superiori/e maggiori della Germania, nell’assemblea plenaria che si è tenuta a Freising dal 2 al 4 giugno del 2004.

 

TRE GRANDI

PROSPETTIVE

 

Nell’ultima parte del suo lungo intervento, dove ha affrontato più concretamente il problema in relazione alla vita religiosa, la relatrice ha affermato che la globalizzazione chiede ai religiosi di tenere presenti tre grandi prospettive che la caratterizzano, se vogliono che la loro vita e testimonianza sia in grado di intercettare i grandi bisogni del mondo d’oggi.

La prima di queste è l’intreccio di relazioni e di interdipendenza che questo fenomeno produce: la complessità dei problemi  e l’ampiezza delle strutture, ha sottolineato, richiedono un supplemento di comunicazione e di unione di collegamento. Ciò significa che se oggi uno vuole agire, non può più farlo da solo. È necessario pertanto riflettere su come poter unire le forze e promuovere la collaborazione tra i vari istituti e inoltre vedere come giungere  a uno scambio di esperienze o ad azioni concertate in un contesto ecumenico e interreligioso o anche con persone che hanno una visione umanistica del mondo.

La seconda prospettiva è il cambiamento radicale. È un fenomeno che richiede una ridefinizione del posto in cui collocarsi. Una rigidità acritica, un ritorno all’indietro, significherebbero una perdita di energie, un condannarsi all’irrilevanza, un rispondere più alla dinamica del Vangelo. Come afferma Joan Chittister: «Non possiamo proporre alcuna spiritualità adatta ai tempi e nessuno stile di vita umano o offrire servizi effettivi se non sappiamo perché lo facciamo e che cosa facciamo». In questione è la propria significatività. Per stabilire questo perché e questo come  bisogna chiedersi: in definitiva, che cosa vogliamo? Come possiamo realizzarlo qui e oggi? Con quali mezzi? Chi potrebbe aiutarci? Ogni cambiamento, sottolinea la Ingeborg, richiede coraggio e disponibilità all’innovazione, cosa che a suo parere nella Chiesa oggi è molto debole. E ciò per molte ragioni: in particolare per il persistere di una cultura basata più sulla fedeltà alla legge che non sulla fedeltà al Vangelo.

Questa capacità di innovazione richiede un forte radicamento nella fede e nella tradizione dei propri istituti per giungere a vederle e interpretarle in una nuova luce nuova. Ma ci vuole anche la capacità di interpretare i tempi, i loro bisogni e le loro tendenze, per fare della Chiesa quell’avanguardia quale dovrebbe essere e che è stata nel corso della storia. Un modello in questo senso è stato Giovanni XXIII. Le diverse tappe della sua vita, in particolare il tempo non  facile trascorso come nunzio in Bulgaria e in Turchia, hanno influito sul suo modo di pensare che poi ha attraversato il concilio per sfociare in tutta la Chiesa. Nel discorso inaugurale del concilio egli disse: «Noi non siamo qui per custodire un museo, ma per coltivare un giardino che è vivo». Sono parole che hanno anche oggi la loro validità e corrispondono alle attese di molti nostri contemporanei sensibili nei riguardi della Chiesa.

La terza prospettiva è la frammentazione di un mondo bisognoso di unità e di riconciliazione. La globalizzazione tecnica ed economica ha bisogno di un’unità dei “cuori e dei sentimenti”. Ciò vale per la Chiesa e per il mondo esterno. Un ruolo tutto particolare spetta a questo riguardo alla collaborazione ecumenica con i cristiani di altre confessioni. Si tratta di un presupposto fondamentale per la credibilità stessa dell’impegno dei cristiani nell’ambito pubblico. C’è una grande consapevolezza a questo riguardo, come risulta dalla Charta Oecumenica approvata dai rappresentanti della COMECE e del KEK, dove si dice: «Ci impegniamo a intenderci tra noi sui contenuti e gli obbiettivi della nostra responsabilità sociale ed a sostenere il più possibile insieme le istanze e la concezione delle Chiese di fronte alle istituzioni civili europee; a difendere i valori fondamentali contro tutti gli attacchi» (n. 7). E il papa, nell’esortazione postsinodale Ecclesia in Europa del giugno 2003: «Vivendo l’esperienza sinodale con discernimento evangelico, è andata sempre più maturando la consapevolezza dell’unità che, senza rinnegare le differenze derivanti dalle vicende storiche, collega le varie parti dell’Europa. È un’unità che, affondando le sue radici nella comune ispirazione cristiana, sa comporre le diverse tradizioni culturali e che chiede, a livello sociale come a livello ecclesiale, un continuo cammino di conoscenza reciproca aperta ad una maggiore condivisione dei valori di ciascuno» (4). Solo così si può impedire «la perdita della memoria cristiana e del suo patrimonio» e fare delle Chiese un segno di speranza «un luogo di autentica umanizzazione e solidarietà» (15). Queste citazioni dimostrano l’esistenza di una consapevolezza. Ma per tradurle in pratica è necessaria una molteplicità di iniziative. E questo vale anche, benché in modo diverso, per la collaborazione con gli aderenti delle altre religioni.

 

DIMENSIONE

ESCATOLOGICA

 

Essere cristiani, ha affermato la Ingeborg, significa avere una visione  del mondo a partire dalla sua fine. Ciò significa tenere presente come esso dovrebbe essere secondo la volontà di Dio e come sarà in base alla sua promessa. In forza di questa visione, una vita secondo il Vangelo si troverà sempre in profonda tensione tra il mondo così com’è, con tutte le sue ingiustizie e conflittualità, e come dovrebbe essere, ossia un mondo dove regnino la giustizia e la pace. Come scrive J.B. Metz, fa parte dell’essere cristiani tener viva questa tensione tra la realtà e la «visione di una grande giustizia di Dio».

La visione a partire dalla fine è nello stesso tempo misura dell’esercizio della critica e fonte di energia del proprio agire. Essa trova la sua espressone in alcuni passi centrali del Nuovo Testamento, come il Magnificat e le Beatitudini. Ambedue questi testi indicano un mondo che è in contrasto radicale con quello in cui viviamo. La sequela di Cristo dovrebbe, anche se in maniera sempre imperfetta, incarnare  questa visione a partire dalla fine, e dare ad essa la sua carne e il suo sangue. La fiducia nel compimento finale del mondo diventa così una ragione per resistere alla tentazione della rassegnazione. Dio ha promesso “nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” (2 Pt 3,13). La fede in questa promessa deve mobilitare in noi quelle energie che ci rendano capaci di rendere presente in maniera incipiente il regno di Dio. Nella Gaudium et spes (32) si dice che il futuro appartiene a coloro che sanno dare speranza al mondo. E infonde speranza ogni forma di impegno per la giustizia e la riconciliazione.  Ma ciò richiede un vigile atteggiamento alla contemporaneità e un interesse verso la realtà.

Spetta inoltre ai religiosi, in un mondo che tende all’unità ma dove conservano il loro pieno significato le diversità, favorire uno scambio di doni, nel senso di un dare e ricevere e promuovere una comunicazione basata sull’amore.

L’esperienza di internazionalità e di interculturalità di gran parte degli istituti religiosi può diventare così uno strumento prezioso e indicare al mondo le vie da seguire, evitando così che la globalizzazione diventi fonte di nuove tensioni e divisioni, lasciando sul terreno nuove vittime, che saranno ancora una volta gli svantaggiati e i poveri.

 

I VOTI

COME CONTRAPPESO

 

Un grande contributo per correggere le possibili storture della globalizzazione i religiosi possono offrirlo anche attraverso i valori insiti nei loro voti. «So bene, ha sottolineato a questo riguardo la Ingeborg, che esistono oggi numerose interpretazioni dei voti. Ma al di là della diversità di interpretazioni, resta vero che essi si pongono come dei contrappesi alle tre distruttive passioni presenti nell’uomo che lo corrompono e insieme corrompono anche la società: l’avidità di denaro, di possesso e di beni; la brama del potere e del dominio e la smania di utilizzare gli altri per i propri fini. Ora se è vero che gli squilibri del mondo hanno la loro origine nel cuore dell’uomo (cf. GS 10), i voti sono un mezzo per rimettere in equilibrio il mondo».

Anzitutto la povertà, intesa come “contrappeso” all’idolatria del denaro. Il “turbo-capitalismo” attuale – come lei lo chiama – fa del denaro e del guadagno un fine a se stesso. In questo modo il rapporto con gli altri ambiti della vita va perduto. Questo genere di economia ha degli effetti sempre più distruttivi. Ciò vale sia per il capitalismo finanziario sia per la produzione dei beni che sfrutta gli uomini e la natura. Se il denaro non serve più a promuovere la vita esso porta allora al disordine. La lettera ai Colossesi parla di avidità insaziabile che è idolatria (1,15). Il significato del voto di povertà dovrebbe consistere nel rispondere consapevolmente a questa situazione: si tratta allora di vivere un rapporto con i beni materiali che contrasta con la diffusa mentalità consumistica e farsi solidali con i poveri. Esso dovrebbe essere una risposta all’interrogativo: come può la forza liberatrice della povertà essere resa visibile in un mondo in cui il denaro diventa un idolo distruttivo? La varietà dei carismi nella vita religiosa offrono a questo proposito varie risposte e modalità. Non si tratta di vivere una povertà estrema e nemmeno una povertà intesa semplicemente come sobrietà, ma di indicare una via d’uscita dal vicolo cieco in cui il nostro mondo si è cacciato, dove è proposto un modello di vita che schiavizza e rende impossibile la giustizia, per questa e per le generazioni future.

In secondo luogo, l’obbedienza come “contrappeso” all’idolatria del potere. So bene, ha affermato la Ingeborg, che ci sono molte discussioni riguardo all’obbedienza. Io la intendo qui come la capacità di avere un rapporto nuovo con il potere, a partire dall’ascolto della parola di Dio. Ossia come la rinuncia all’uso del potere in un mondo in cui l’arroganza e la tracotanza dei potenti sono in crescita nell’ambito economico e politico.

«La disposizione a rinunciare al potere diventa così un a testimonianza contro l’abuso del potere. In una situazione del genere, la rinuncia consapevole e decisa al potere  – non nel senso di rassegnazione o di pusillanimità, ma per la fiducia nella potenza di Dio – mi sembra che costituisca un autentico contrappeso e un sentirsi liberi dal credere nel “potere dei carri e dei cavalli” delle bombe e dei bombardieri».

In terzo luogo la castità come “contrappeso” all’idolatria dell’io e della sua invulnerabilità. Sulla castità e il celibato si è molto riflettuto. «Tempo fa, ha affermato la Ingeborg, ho letto una definizione inconsueta che mi ha colpito: castità vuol dire riconoscere e rispettare la vulnerabilità dell’altro. La corporeità della persona , ma anche la sua integrità fisica e psichica, sono sempre meno rispettate in un mondo sempre più orientato in senso materiale e tecnico. La vulnerabilità della persona in quanto essere corporale e limitato, la sua fragilità non hanno quasi più spazio nella nostra epoca. Il rispetto del singolo nel suo stato di debolezza, dovuto alla condizione umana, diventa un “contrappeso” contro lo strapotere insito nell’idea che tutto è possibile e permesso, presente anche nel termine globalizzazione».

Globalizzazione, ha concluso la Ingeborg, vuol dire l’unificazione del mondo. Oggi questo è inteso soprattutto dal punto di vista tecnico ed economico. Se vogliamo evitare il crollo e l’anarchia con tutte le sue tragiche conseguenze, bisogna che questa  tendenza all’unità esteriore diventi nella misura più grande possibile un’unità interiore. Ciò avviene soprattutto  là dove gli uomini si preoccupano di promuovere più giustizia, amore e riconciliazione, a qualsiasi livello e in qualsiasi modo.  In una parola, ha concluso la Ingeborg, i cristiani e i religiosi dovrebbero gettare sulla bilancia tutto il loro peso per promuovere la dimensione spirituale della globalizzazione e dare a essa un volto nuovo.