ESCLUSIONE SOCIALE E CITTADINANZA INCOMPIUTA

VUOTI A PERDERE

 

Shopping compulsivo, mania da lavoro, dipendenza cibernetica, gioco d’azzardo, ma anche depressione, demenze, Alzheimer, lavoro precario: sono le situazioni di disagio sociale in Italia segnalate dall’ultimo Rapporto Caritas-Fondazione Zancan, che chiedono una nuova responsabilità collettiva.

 

Il Rapporto 2004 della Caritas italiana insieme alla Fondazione Zancan, Vuoti a perdere (su esclusione sociale e cittadinanza incompiuta), già nel titolo ricorda le discariche che circondano le città del mondo occidentale come le aree della miseria e della fame.

I “vuoti” sono le cose usate e scartate, i contenitori un tempo con un valore riconosciuto e che ora non lo hanno più: dietro di essi ci sono famiglie, interi gruppi sociali che cercano in qualche modo “di cavarsela”. Questa ricerca, a cui fa eco con singolare corrispondenza il recente ultimo Rapporto dell’Eurispes, ci dice che è necessario scoprire, oltre la facciata dei numeri, il degrado della qualità della vita, il fallimento di ogni progettualità, l’esclusione dai benefici sociali teoricamente garantiti.

 

LAVORO

FLUTTUANTE

 

Un disagio fondamentale emerge dal lavoro flessibile. In Europa il lavoro part-time coinvolge il 18% degli occupati e il lavoro atipico il 28%. In Italia dal 1999 al 2002 la percentuale di lavoro atipico è passata da circa l’11% a oltre il 16%. Sul totale degli occupati, i lavoratori con contratti di collaborazione coordinata e continuativa costituiscono l’11%, quelli occupati a tempo determinato quasi il 10%, quelli che lavorano part-time quasi il 9%. Il lavoro nero o sommerso si presenta come una componente strutturale dell’occupazione: interessa quasi il 20% delle persone che lavorano. La disoccupazione di lunga durata raggiunge l’8,3% contro una media europea del 4,9%. Per quanto riguarda le donne, i tassi di occupazione sono di 14 punti sotto la media europea. Il tasso di turn over in Italia risulta molto più elevato rispetto agli altri paesi europei, segnalando così una realtà lavorativa assai più mobile di quanto non si pensi.

Esistono diverse forme di lavoro flessibile, e diverse tipologie di lavoratori flessibili. C’è chi è dotato di risorse professionali e relazionali e utilizza comportamenti strategici, e chi invece subisce gli eventi e la situazione lavorativa e non possiede doti formative e professionali da sviluppare e investire sul mercato occupazionale. Per i giovani lavoratori flessibili e precari tutto questo significa non autosufficienza economica e psicologica per corrispondere autonomamente al bisogno di casa, reddito continuativo, progettazione della propria vita su relazioni stabili di tipo familiare.

 

SOFFERENZA

PSICHICA

 

Secondo dati Oms, la depressione è la prima causa di invalidità nel mondo (quasi il 12% dei casi) ed è dichiarata causa di invalidità per l’1% della popolazione mondiale (65 milioni circa di persone su oltre 6 miliardi). A livello mondiale, i disturbi neuropsichiatrici sono causa di morte per oltre un milione di persone; in 13mila casi la principale causa di morte è direttamente correlata alla presenza di disturbi depressivi. Secondo alcune ricerche, l’8,5% dei pazienti che si rivolgono al medico di famiglia soffre di depressione. Alcuni sostengono che soffra di depressione il 27,5% degli adolescenti italiani tra i 15 e i 17 anni, mentre a livello mondiale ne soffre il 13% dei ragazzi della stessa fascia di età. Secondo altre statistiche, ne soffrono in media 17 italiani su 100 e ogni anno si verificano 250 casi in più ogni 10mila abitanti.

Un altro aspetto del disagio è collegato alla sindrome di demenza. Coinvolge poco meno di un milione di italiani, ma questo numero è destinato a raddoppiare entro il 2050 per l’effetto combinato della maggiore aspettativa di vita e del miglioramento dello stato di salute. La spesa totale annua per il sostegno ai malati con demenza ammonta oggi, in Italia, a poco meno di 50 miliardi di euro, due terzi dei quali sostenuti (come costi indiretti) dalle reti familiari; la sola invalidità civile assorbe poco più di 20 miliardi di euro. Il 60-70% dei casi di deterioramento cognitivo che si osservano in corso di invecchiamento sono ascrivibili alla demenza di tipo Alzheimer (AD). In Italia soffrono di AD più di mezzo milione di anziani di età superiore ai 65 anni con costi diretti e indiretti di 35-50 mila euro all’anno per paziente. Il 90% dei pazienti affetti da AD presenta disturbi comportamentali a insorgenza variabile nel decorso della malattia. Una percentuale elevata di soggetti presenta deliri, specie di tipo paranoideo, con accuse di infedeltà coniugale, furto o persecuzione. La morte sopraggiunge dopo 5-10 anni dalla diagnosi.

 

DIPENDENZE

SENZA SOSTANZE

 

Un capitolo interessante del Rapporto tratta delle dipendenze senza sostanze. Sono pur sempre “droghe” perché riducono la capacità di resistere a determinati impulsi e obbligano a mettere in pratica specifici comportamenti: dal compratore “compulsivo” al maniaco dell’esercizio fisico (o del sesso); l’attaccamento eccessivo al lavoro può assumere un aspetto patologico e così dicasi del gioco d’azzardo; segue la “cyberdipendenza” (attrazione incontrollata per il computer, anche come surrogato virtuale di relazioni interpersonali) e il fenomeno della invasività dei telefoni cellulari (fattore di semplificazione alienante delle espressioni, dei linguaggi e dei rapporti umani).

Shopping compulsivo. Secondo alcuni studi lo shopping compulsivo riguarderebbe una quota compresa tra l’1 e l’8% della popolazione adulta. Secondo altri autori, il 90% dei consumatori effettua periodicamente acquisti compulsivi, e intervistati su questo tema due quinti di un campione di popolazione adulta si definisce consumatore “impulsivo”.

Workalcoholism. Il fenomeno della dipendenza da lavoro è descritto dagli specialisti come la più “pulita” delle dipendenze. Tra i criteri specifici del lavoro patologico possono essere citati i seguenti: iperattività; spirito di competizione e sfida; desiderio illimitato di soddisfazione professionale; culto dell’impresa e del lavoro; difficoltà a rilassarsi durante le vacanze e il fine settimana; negligenza nella vita familiare; manifestazione di stress nel lavoro.

Cyberdipendenza. Secondo i dati Istat relativi al 2000, il 18,4% degli italiani di età superiore a 11 anni dichiara genericamente di “utilizzare Internet” (circa 9 milioni e mezzo di persone). Dichiarano di utilizzare Internet tutti i giorni quasi 3 milioni di persone, pari al 5,7% della popolazione italiana. È presente una quota di consumatori assidui (tutti i giorni) anche all’interno di classi di età molto giovani: per esempio, il 4% dei ragazzi di età compresa tra 11 e 14 anni dichiara di utilizzare Internet tutti i giorni, mentre tale peculiarità si registra nel 7,5% dei 15-17enni. Per quanto riguarda l’uso del cellulare, che taluni inscrivono all’interno delle cyberdipendenze, si evidenzia anche in questo caso un’incidenza precoce di utilizzo, con valori del 21% dei ragazzi tra gli 11 e i 14 anni che utilizza il cellulare tutti i giorni (510 mila soggetti). Il 28% dei giovani del primo anno di scuola media superiore non spegne mai il telefonino, neanche di notte; il 33% lo spegne di rado.

Gioco d’azzardo. Giocare d’azzardo è un comportamento estremamente diffuso e anche socialmente incentivato. Il mercato del gioco in Italia ha evidenziato negli ultimi anni una costante progressione delle spese, grazie a nuove modalità di gioco e a maggiori possibilità di accesso. Nel 2002 i proventi del gioco del lotto assommano in Italia al 2,7% delle entrate statali totali (oltre 4 miliardi di euro), superando le entrate fiscali derivate dalla vendita dei tabacchi. In dieci anni, dal 1989 al 1999, si è passati da una spesa in giochi legali di 9mila miliardi di vecchie lire a una spesa di 36mila miliardi. Nel 2000 sono stati installati in Italia oltre 800mila videopoker, per un giro di affari di oltre 40mila miliardi di vecchie lire. Sfuggono alle statistiche ufficiali i dati relativi al gioco clandestino, il cui volume può essere stimato in oltre un terzo del volume di quello legale. È interessante notare come il gettito fiscale ottenuto dal gioco è inversamente proporzionale al reddito dei cittadini coinvolti, proprio come il ricorso al gioco d’azzardo è inversamente proporzionale allo sviluppo economico: il gioco d’azzardo “è un meccanismo che prende il necessario al povero”.

La povertà e l’esclusione sociale si presentano sempre più come fenomeno nel quale interagiscono componenti economiche (disoccupazione, stipendi o pensioni inadeguati rispetto alla lievitazione del costo della vita), fattori socio–culturali (esaltazione della competitività, culto dell’immagine) e componenti personali di fragilità (salute, dipendenze di vario genere). Vanno evidenziati i fattori strutturali, quali ad es. l’organizzazione socio–economica che in una logica di competitività esasperata, richiede  livelli sempre più alti di efficienza e di rendimento, difficilmente perseguibili da soggetti deboli. Per di più oggi sembra prevalere una logica di prestazioni (offerta indistinta di “cose” da prendere sul mercato) rispetto invece a una logica di servizi garantiti alla persona. Tutto porta verso la “società a responsabilità limitata e a debito differito” alla quale è dedicato un capitolo del Rapporto.  Come è scritto nell’introduzione del Rapporto stesso, «è necessario riprendere con serietà e urgenza la discussione attorno ai lineamenti di un sistema di sicurezza sociale che sia inteso non come una somma di inutili “privilegi” da abbattere per scatenare gli spiriti animali del mercato, ma come una polizza di assicurazione per l’intero sistema delle libertà, compresa quella economica». Un individualismo senza confini verso l’alto e senza limiti verso il basso aumenterà la diffusione dei “vuoti a perdere”: perciò è indispensabile una assunzione generale di responsabilità. Che deve coinvolgere anche i ricchi, non separandoli dal sistema di protezione per il solo fatto che non ne hanno bisogno. La prosecuzione dello smantellamento del welfare non può infatti essere sostituita da nessun atteggiamento “compassionevole” basato sull’elargizione delle briciole della mensa. La permanenza della povertà, dentro un contesto di benessere, dobbiamo insomma considerarla proprio una sconfitta della democrazia e del modello di sviluppo a cui essa si ispira.

 

Mario Chiaro

 

1 La “foto” della miseria in Italia è stata fatta grazie al progetto Rete nazionale dei Centri di ascolto e degli Osservatori delle povertà e delle risorse, nato per rilevare situazioni di povertà ed esclusione sociale delle persone che si rivolgono ai servizi collegati alle 222 Caritas diocesane italiane. Il monitoraggio riguarda 14 diocesi del nord, 30 del centro e 28 del sud. Sono stati elaborati i dati di 11.696 persone delle 72 diocesi in questione. L’80% ha tra i 20 e i 60 anni (gran parte tra i 30 e i 40 anni); il 54% è costituito da donne. Sono numerose le persone celibi e nubili (33%), ma è più consistente la quota di coniugati (46,5%). Più del 15% sono senza fissa dimora, il 51,3% vive con dei familiari, il 27,2% con conoscenti, il 21,5% vive solo. Il 62,6% non è italiano e di questi circa il 40% è senza permesso di soggiorno. Significative poi le differenze tra italiani e stranieri. Tra questi ultimi sono i giovani a ricorrere ai Centri di ascolto (oltre il 90% ha tra 20 e 55 anni), in prevalenza donne (55,7%), in maggioranza coniugati (53,6%) e con un titolo di studio medio-alto. I tre quarti sono disoccupati, rispetto al 58% dei cittadini italiani. Significativa tra gli italiani è invece la presenza di pensionati: circa il 13%, cioè 1 su 8. Situazioni legate a reddito, lavoro e alloggio, rappresentano i tre quarti delle povertà dichiarate. Circa l’8% relative a problemi familiari, soprattutto separazioni e conflitti tra genitori e figli.