ASSEMBLEA SUPERIORI MAGGIORI SUD EST ASIATICO

FARE LA DIFFERENZA

 

Anche in Asia comincia a serpeggiare la crisi che da tempo ha colpito la vita consacrata in occidente. Certe tendenze hanno eroso non solo l’identità dei religiosi in quanto tali, ma l’essenza stessa della vita consacrata. Un’analisi e una possibile risposta nelle parole del vescovo gesuita Paul Tan Chee Ing.

 

I consacrati devono presentarsi al mondo come persone libere, di quella libertà che viene loro dall’osservanza dei voti di povertà, castità e obbedienza; devono vivere una vita santa che consenta loro di amare gioiosamente le persone che incontrano nella loro vita, dopo aver sperimentato in se stessi l’amore di Dio, diventando capaci di scoprire questo amore nel prossimo; devono inoltre trovare la loro vera identità non tanto nei supporti esterni – in una carriera o uno status materiale, spirituale o psicologico – ma nel vivere ciò che Dio li chiamati a essere ora e nel futuro. Inoltre devono essere convinti di questo: «Noi siamo amati da Dio così come siamo qui e ora e saremo amati da lui così come diventeremo».

A dirlo è stato il vescovo gesuita Paul Tan Chee Ing della diocesi di Melakor-Johor (suffraganea di Kuala Lumpur, Malaysia) parlando alla XII assemblea dei superiori maggiori del sud est asiatico (SEAMS) che ha avuto luogo  a Bangkok (Thailandia) dal 5 all’11 dicembre scorso. Hanno preso parte all’incontro una cinquantina di superiori maggiori provenienti dall’Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Filippine, Vietnam e Thailandia per riflettere sul tema: Fare la differenza. Il SEAMS, un  catalizzatore per l’oggi.

 

RAGIONI

DELLA CRISI

 

«Non pretendo di parlare a nome di nessuno, ha detto mons. Tan Chee, se non della mia povera persona – un  vescovo religioso – né pretendo di avere una grande conoscenza degli argomenti, dei problemi e delle aspirazioni e sfide della vita religiosa in Asia e meno ancora del mondo. Questo testo ha lo scopo di provocarvi a una riflessione fatta nella preghiera sull’importanza e il significato della vita religiosa nell’Asia moderna». Introducendosi poi nel discorso ha detto: «Di proposito uso il termine “moderno” perché quello “postmoderno” non è ancora applicabile in Asia  anche se alcuni influssi sono già avvertibili. Ci sono paesi come il Myanmar, il Laos e la Cambogia in cui mi domando se persino il termine “moderno” possa essere applicato.

Dopo questa premessa, ha affermato che nella vita religiosa del continente asiatico si sente l’influsso degli sviluppi del mondo occidentale. Anche qui si avverte la crisi. A suo parere, la prima e più importante sta nel fatto che i religiosi hanno attuato in maniera non corretta gli orientamenti del concilio che invitavano a tornare al carisma delle origini e a tradurlo nel mondo moderno attraverso la lettura dei segni dei tempi. «Paradossalmente, ha detto, è stato il loro lodevole desiderio di rinnovarsi attraverso l’inculturazione nella cultura moderna che ha provocato la crisi di identità. Il ridimensionamento degli usi e costumi tradizionali e istituzionali, che conferivano un’identità alle varie congregazioni religiose e l’esagerata conformità ai valori del mondo secolare, ad esempio, l’efficienza, la ricerca dei risultati, il professionalismo, la competenza, ecc., hanno eroso non solo la loro identità in quanto religiosi ma l’essenza stessa della vita religiosa. A scanso di equivoci ha precisato: «Io non sono in alcun modo contrario alla necessità di risalire ai carismi originali e di inculturarli nella cultura moderna. Ciò è un imperativo per il rinnovamento. Dico solo che in questo processo ci sono state troppe deviazioni che hanno minato il significato stesso della vita religiosa».

Oltre a queste ragioni interne, la crisi è stata determinata anche da altri fattori. Il vescovo ne ha nominati due in particolare: la mentalità tipica del libero mercato basata sulla domanda e l’offerta e la battaglia alquanto distorta per la libertà individuale. Sono due realtà che s’intrecciano, ha precisato. In effetti la crisi di identità non è un fenomeno isolato. Fa parte di una crisi di identità più ampia. Alla base vi è la filosofia della globalizzazione e del libero mercato che prospera sul principio appunto della domanda e dell’offerta. Il suo simbolo sono i super e gli ipermercati dove si trova tutto quello che si vuole.

Strettamente collegata ad essa è la filosofia della libertà individuale che si esprime così: scelgo quello che voglio nella gamma di beni esposti sugli scaffali del supermercato e nessuno deve impormi cosa scegliere. Questa mentalità molto diffusa in occidente ha influenzato anche i religiosi dell’Asia. «Quanti religiosi, specialmente i più giovani, ha sottolineato il vescovo, vogliono fare quello piace a loro e sono allergici alle regole e alle norme istituzionali. Anche l’autorità è messa in questione». Fortunatamente il fenomeno non è ancora molto diffuso, ha precisato, ma esiste.

 

QUALE RISPOSTA

ALLA CRISI?

 

Di fronte a questa crisi di identità, si è chiesto il vescovo Tan Chee, che cosa possiamo fare? Anzitutto, in quanto religiosi dobbiamo affrontare con coraggio la realtà del mondo moderno: accettare ciò che è buono, scartare ciò che è cattivo e trasformare ciò che è ambiguo.

Se è vero che tutti i cristiani, in forza del battesimo, devono tendere alla santità, per i religiosi questa è un’esigenza insita nella loro stessa vocazione; essi devono essere “lievito, segno e profezia” della santità della Chiesa. Non solo devono essere santi, ma devono essere visti anche come santi. Un segno, se esiste, si vede. Gesù infatti ha detto: «Nessuno accende una lampada e la copre con un vaso o la pone sotto un letto; la pone invece su un lampadario, perché chi entra veda la luce» (Lc 8,16). I padri sinodali del sinodo per l’Asia e la FABC (Federazione delle assemblee episcopali dell’Asia)  hanno affermato che una delle caratteristiche del continente è il senso del sacro. Pertanto essere visti come santi è doppiamente importante per i religiosi dell’Asia. Infatti uno dei rilievi mossi dagli aderenti alle altre religioni ai sacerdoti e ai religiosi è di non apparire come uomini e donne di Dio. Essi sono visti piuttosto come uomini e donne impegnati in ogni genere di attività sociale. Per usare un linguaggio nostro, ha affermato il vescovo, sono visti più per ciò che fanno che non per quello che sono. È vero, come dice san Bernardo, che l’abito non fa il monaco. In effetti, ciò che conta è il loro stile di vita. Ora questo stile di vita approvato dalla Chiesa consiste nel vivere in pienezza i tre voti di povertà, castità e obbedienza.

I religiosi, oltre a essere segni, come ricordano l’esortazione apostolica Vita consecrata e il documento Ripartire da Cristo, hanno due altri “doveri essenziali”: essere lievito e profezia. Ora se è facile comprendere cosa vuol dire essere lievito, non così è per l’essere profeti. Ciò, ha sottolineato il vescovo, si potrà comprendere meglio approfondendo il significato dei voti.

 

POVERTÀ E INSIDIA

DEL CONSUMISMO

 

Affrontando quindi questo argomento, ha proposto una lettura dei voti soprattutto sotto il profilo della libertà che essi donano a chi li vive, nel senso inteso da Paolo: «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri» (Gal 5,13).

Anzitutto la povertà. In questo mondo basato sul mercato e la libera domanda, più uno può acquistare e possedere, più si ritiene alto nel suo status e nella sua identità. «In Malaysia, ha detto – ma la stessa cosa vale anche altrove – uno è qualcosa se possiede una BMW o una Mercedes, e se uno non ha un telefonino è guardato dall’alto in basso. Purtroppo, ha sottolineato, ci sono diversi religiosi che sono stati contagiati da questo mondo del consumismo. Personalmente so di alcuni che si vantano di possedere l’ultimo modello di computer...».

Certamente questa mentalità non si può addebitare indistintamente a tutte le comunità religiose, ma «il suo insidioso influsso non può essere negato». Sant’Ignazio di Loyola diceva che «la povertà è il muro della vita religiosa», e «io credo che l’aver abbassato in linea generale il muro della povertà abbia contribuito molto alla crisi nella vita religiosa». La maggior parte dei nostri asiatici ha aggiunto il vescovo, vive ancora in un’abietta povertà. Come possiamo noi che professiamo di vivere in povertà, condurre una vita lussuosa tipica delle classi medio-superiori? Siamo degli ipocriti?...

Al contrario, dobbiamo essere profetici, metterci in testa al cammino; dobbiamo essere contro-culturali, essere segno. La nostra identità religiosa non consiste nel possedere un’identità basata sui beni esteriori se vogliamo diventare lievito; e tanto meno nel possedere una carta di credito o una BMW.

 

INTACCATA

ANCHE LA CASTITÀ

 

Questa mentalità del libero mercato insidia anche la castità. Oggi molta gente vuole essere libera di scegliere chi vuole e quando vuole. Di qui l’aumento delle persone single, di genitori single e dei divorzi Anche i religiosi partecipano a questa crisi, benché in modo diverso. Un buon numero di giovani donne e uomini  hanno paura di un impegno per tutta la vita, quale è richiesto per diventare religiosi. Per questo alcuni hanno proposto l’introduzione di un “impegno temporaneo”, ossia finché uno se la sente, libero di fare poi altre scelte se la situazione e le circostanze dovessero cambiare. Senza dubbio, ha affermato il vescovo, è vero che molti giovani trovano difficile abbracciare un impegno per tutta la vita, ma questa non è una ragione perché debbano seguire la massa. Nella Scrittura siamo continuamente esortati a imitare Dio che è sempre fedele a noi. Il coraggio di buttarsi e di essere fedeli a Dio fino alla fine  è una virtù biblica oltre che umana. Come scriveva G. K. Chesterton nel suo celebre libro Ortodossia: «Il coraggio è quasi una contraddizione in termini. Significa un forte desiderio di vivere che assume la forma di una prontezza a morire». Vivere coraggiosamente la fedeltà fino alla fine, commenta il vescovo, è un segno contro-culturale. Ed è anche lievito che incoraggia i giovani, e profezia che preannuncia cose future migliori.

Negli anni ’70 e ’80 in occidente c’erano degli psicologi che falsamente pontificavano sostenendo che una persona, per essere matura, deve avere un rapporto intimo e profondo con l’altro sesso. Molti religiosi iniziarono così con una relazione innocente che poi si trasformò poi in un rapporto sessuale. Si parlava a quel tempo anche della cosiddetta “terza via”.

Oggi molti psicologi ammettono che è possibile a una persona crescere, maturare e vivere una vita in pienezza senza un’intima relazione che porti poi al sesso. Purtroppo l’influsso di quella cattiva psicologia esercita ancora un impatto su alcuni giovani religiosi.

In realtà la castità deve liberarci dall’essere l’oggetto o il soggetto di amore di una persona o anche di due o tre, per poter condividere l’infinito amore di Dio con un numero più grande possibile di persone. La nostra libertà non sta nello scegliere chi vogliamo o nel voler avere una relazione, ma nello scegliere di amare ognuno di coloro che entrano nella nostra vita, come ha fatto Gesù. La nostra identità in quanto religiosi consiste nel rinunciare a un’identità limitata per un’identità illimitata. Il radicalismo evangelico proposto da Gesù a chi voleva seguirlo diventa un segno, un lievito e una profezia  se viviamo gioiosamente l’amore verso tutti coloro che entrano nel raggio della nostra esistenza, specialmente i poveri, gli anawim, di Dio.

Ammetto, afferma il vescovo, che non tutti apprezzano questo nostro punto di vista. I musulmani, per esempio, non riescono a capire come uno possa vivere gioiosamente senza il matrimonio. La loro tradizione insegna che la persona deve sposarsi. Gli indù e i buddisti, invece, possono comprenderci, anche se il loro approccio alla castità è del tutto diverso dal nostro.

 

UN’OBBEDIENZA

CHE LIBERA

 

L’altro voto che permette alla persona consacrata di essere libera è l’obbedienza. Con questo voto, essa è liberata dalla propria volontà, per abbracciarne una più grande, più alta e più saggia, ossia la volontà di Dio. Con questo obbligo vengono liberati sia il superiore sia il religioso nel cercare in tutta verità la volontà di Dio. L’identità di un religioso, ha sottolineato mons. Tan Chee, non sta nel fare ciò che si vuole o di andare dove  si vuole, come fa la maggioranza della gente di questo mondo, ma nel compiere la volontà di Dio, riconoscendo che egli vuole ciò che è meglio per ciascuno di noi. Paradossalmente è rinunciando alla mia volontà per cercare quella di Dio che  trovo realmente la mia libertà. Con questo voto, infatti, ci liberiamo da un’identità legata a una carriera – essere un professore, un dottore o un ingegnere – per andare dove Dio ci chiama. «In base alla mia esperienza personale, ha detto, vi posso assicurare, che quando Dio ci libera dai nostri sogni per sostituirli con i suoi, questi sono mille volte meglio dei nostri. In questo modo dimostriamo di essere dei veri pellegrini in una Chiesa pellegrina. Il nostro viaggio non è legato ad un posto o a un lavoro. Passiamo dall’uno all’altro, non per denaro, ma per amore di Dio e del prossimo. Come Gesù, possiamo dire di voler fare la volontà di colui che ci ha mandato. In questo modo siamo le persone più libere del mondo, pronte a fare qualsiasi cosa e ad andare dovunque Dio ci chiama».

Senza ignorare che vi sono tanti religiosi obbedienti, ha aggiunto il vescovo, oggi, in alcuni, specialmente tra i giovani, c’è la tendenza di ritagliarsi una nicchia tutta per sé, per esempio, come psicologo, professore o teologo. I superiori hanno paura di contrastare questi desideri per non provocare una crisi di vocazione, tanto più che oggi di vocazioni ce ne sono poche. Ma «un superiore non dovrebbe essere tenuto ostaggio dalla paura di perdere una vocazione. Sant’Ignazio diceva che la qualità  è meglio della quantità. Un buon religioso può fare di più di una trentina di religiosi mediocri; un cattivo religioso può disfare il bene compiuto da dieci religiosi.

«La nostra identità, ha concluso mons. Tan Chee, consiste nell’essere ciò che siamo come Dio ci ha fatto ora e per il futuro. Noi siamo amati da lui così come siamo qui e ora e saremo amati da lui come diventeremo. In una parola: è rinunciando o liberandoci da ogni supporto esterno che troveremo la nostra identità religiosa, quella di essere “lievito e profezia” del vero destino dell’uomo: essere partecipi dell’infinito amore di Dio».

 

A. D.