È IN GIOCO LA RIUSCITA NELLA VOCAZIONE
FORMARE E FORMARSI OGGI
La vita
consacrata conosce l’insidia della mediocrità spirituale, dell’imborghesimento
e della mentalità consumistica. È urgente ripensare la formazione come risposta
alle sfide che si pongono oggi. Una responsabilità che riguarda formatori,
comunità e chi è chiamato.
Una delle responsabilità inalienabile dei superiori è di avere a cuore la formazione dei propri religiosi. Lo ha ribadito di recente anche l’istruzione Ripartire da Cristo, riprendendo una convinzione ampiamente condivisa: «Nel ritrovare il senso e la qualità della vita consacrata, un compito fondamentale è quello dei superiori e delle superiore, ai quali è stato affidato il servizio dell’autorità, compito esigente e talvolta contrastato. Esso richiede una presenza costante, capace di animare e di proporre, di ricordare la ragion d’essere della vita consacrata, di aiutare le persone affidate per una fedeltà sempre rinnovata alla chiamata dello Spirito. Nessun superiore può rinunciare alla sua missione di animazione, di aiuto fraterno, di proposta, di ascolto, di dialogo» (12).
Jean-Marie Bulumuna omi, scrivendo su questo argomento nel numero di novembre-dicembre 2004 di SEDOS Bulletin osserva che la formazione deve accompagnare l’esistenza di chiunque voglia consacrarsi totalmente a Dio; per la semplice ragione che nell’ordine della fede e dell’amore – e la vita religiosa è e deve ridiventare storia d’amore e di obbedienza – niente è acquisito una volta per sempre. Tutto dipende dall’opzione che si attribuisce al quotidiano della vita e dall’orientamento profondo che si determina al di là di ogni preoccupazione formalista.
Purtroppo, scrive, si incontrano sempre più preti, religiosi e religiose che sembrano aver perso la coscienza della loro identità, ecclesiastici che cercano di assomigliare non si sa a chi, decentrati da Cristo, e che si lasciano fuorviare nell’inseguire altre cose. Come si legge nel documento postsinodale Vita consecrata: «La vita consacrata conosce anche l’insidia della mediocrità nella vita spirituale, dell’imborghesimento progressivo e della mentalità consumistica... Il prevalere di progetti personali su quelli comunitari può intaccare profondamente la comunione della fraternità» (ib.).
Questo atteggiamento non è una fatalità: tutto dipende dagli istituti e dalla loro volontà di governare con fermezza e serenità le loro istituzioni e di formare con cura i loro membri. Di qui l’imperativo di ripensare la formazione come risposta di fondo alle sfide della vita consacrata oggi.
UN COMPITO
DIFFICILE
La formazione, rileva p. Jean Marie, per essere efficace, richiede il concorso di tre soggetti importanti: il formatore, la comunità formatrice e colui che è chiamato.
Anzitutto il formatore. Se uno vuole formare, sottolinea il padre, è importante che accetti la sofferenza che è insita in questo compito, per riuscire a vederci chiaro. Veder chiaro non per giudicare dall’alto, per condannare, ma per contemplare, con e nell’altro, l’opera di Dio che cambia il destino di coloro che egli attira a sé, e così meglio cooperare al suo sviluppo. Un formatore domenicano di lunga data, Guy Lespinay, dà questo consiglio: «Il formatore e la comunità formatrice devono adattarsi alle difficoltà che incontra chi è in formazione. Tutto deve essere vissuto in un atto di fede e di misericordia verso coloro a cui il Signore invia. Guardiamoci dai giudizi troppo semplici o da opinioni troppo affrettate. Lasciamo alla grazia di compiere il suo cammino».
La formazione alla vita religiosa è un compito difficile, anche perché è la vita a essere complessa. Oggi occorre molta fede, molto coraggio e molta generosità per impegnarvisi. Ci rendiamo sempre più conto che i formatori si sentono a volte disarmarti di fronte a questo compito. Questa povertà ha il vantaggio di renderci più umili. In effetti «per occuparsi di vocazioni, per diventare formatore ci vogliono due cose importanti: l’umiltà e il senso di umorismo...» (ib.) Se umili, saremo consapevoli «... che il formatore non esercita che un ruolo parziale nella formazione. A essere formatrice è soprattutto la comunità. È questa che elabora il contesto in cui crescono le vocazioni. Ognuno dei suoi membri diventa il modello di coloro... che prenderanno in mano il testimone. Si tratta di una responsabilità capitale. Se si riesce a far prendere coscienza di ciò, allora i membri diventano corresponsabili» (ib.).
LA COMUNITÀ
FORMATRICE
Oltre al formatore, un posto centrale nella formazione occupa la comunità. Essa costituisce e offre il contesto in cui crescono le vocazioni. Spetta ad essa precisare le condizioni di una vera accoglienza che sia pienamente rispettosa delle persone, della loro ricerca e della loro fragilità. Queste condizioni sono le stesse che possiamo dedurre dal testo di Luca 8,1-3: accogliere la Buona Novella; avere lo spirito d’infanzia; cacciare gli spiriti cattivi, vincere le malattie e far regredire il male e possedere la spiritualità del povero.
L’istruzione Ripartire da Cristo al n. 165 afferma; «La via maestra della promozione vocazionale alla vita consacrata è quella che il Signore stesso ha iniziato, quando ha detto agli apostoli Giovanni e Andrea: “Venite e vedrete” (Gv 1, 39). Questo incontro, accompagnato dalla condivisione di vita, chiede alle persone consacrate di vivere profondamente la loro consacrazione per diventare un segno visibile della gioia che Dio dona a chi ascolta la sua chiamata. Di qui la necessità di comunità accoglienti e capaci di condividere il loro ideale di vita con i giovani, lasciandosi interpellare dalle esigenze di autenticità, pronte a camminare con loro». In altre parole, il discorso sull’adeguamento dei candidati alla vita consacrata deve andare di pari passo con l’insistenza sull’adattamento della comunità ai nuovi arrivati. «Per questo è necessario compiere un discernimento sereno, libero dalle tentazioni del numero o dell’efficienza, per verificare, alla luce della fede e delle possibili controindicazioni, la veridicità della vocazione e la rettitudine delle intenzioni» (ib. 18).
La formazione è un processo di imitazione del modello cristico, osserva p. Jean-Marie. I consacrati sono chiamati a esserne il riflesso nel mondo. Di qui l’importanza che si rendano visibili (meno occulti) e leggibili (meno opachi) presso i giovani.
Bisogna essere convinti «dopo molti anni di vita religiosa abbiamo accumulato un insieme di nozioni determinanti e appassionanti sul nostro genere di vita. Ma coloro che vogliono seguire Cristo su strada e desiderano essere accompagnati non vengono per conoscere i problemi (i nostri problemi o i loro). In maniera consapevole o inconsapevole essi cercano Dio. Di qui la necessità di aiutarli ad accettare a loro volta la sofferenza che richiede il passaggio dalla materia alla forma di Cristo da scolpirsi sul loro volto. Questa accettazione può avvenire contemplando l’orientamento generale di una vita. La comunità formatrice è il luogo di questa contemplazione. A questo scopo essa si costruisce giorno per giorno in modo da divenire una “scuola di spiritualità evangelica,”, uno spazio di vita regolare e di responsabilità condivisa. La comunità formatrice è anche un vero “paese di missione”. Con le parole di sant’Eugenio de Mazenod, bisogna comprendere «che questo genere di missioni crocifiggono la natura e che si ha molto da soffrire». Pertanto bisogna che coloro che sono chiamati non si stupiscano «di incontrare molte sofferenze; è qui che si esercita lo zelo e il fervore di tutti coloro che chiedono di essere dei preferiti».
LA RESPONSABILITÀ
DEI CHIAMATI
Ma formare oggi è anche riconoscere la responsabilità inalienabile di coloro che sono chiamati nella maturazione della loro vocazione. Questa responsabilità passa attraverso di crescere e di fortificarsi nella consacrazione. Purtroppo, sottolinea p. Jean-Marie, nella formazione si assiste facilmente al rifiuto di crescere e di maturare nella vocazione. È un fenomeno che in genere comincia con l’occultamento delle responsabilità dei membri di fronte alla loro storia. La formazione oggi deve anche e soprattutto consistere nel mettere gli individui davanti alle loro indeclinabili responsabilità. Ciò significa, a imitazione dell’Apostolo, mostrarsi imitatori di Cristo: egli tutto sopporta, a tutto si adatta e fa tutto per la gloria di Dio; non vuole dare scandalo a nessuno: «né ai giudei (compatrioti, confratelli), né ai greci (coloro che non la pensano come noi né condividono la nostra fede) né alla Chiesa di Dio (ai cristiani), (...), non cerca il proprio interesse, ma quello di un numero più grande affinché anch’essi siano tutti salvati: «Sia dunque che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Non date motivo di scandalo né ai giudei, né ai greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare l’utile mio ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1 Cor 10,31-11,1).
Occorre anzitutto la pazienza di fronte alla lentezza nella maturazione di una vocazione. Pazienza nelle esperienze vissute giorno per giorno e del loro accumularsi nella memoria dove progressivamente determineranno i gusti e le motivazioni.
Ci vuole inoltre, semplicità e modestia. Non è a forza di accumulare le esperienze e le nozioni, per quanto determinanti e appassionanti, circa la nostra forma di vita, che si diventa santi. La vita religiosa consacrata fa appello direttamente alla coscienza dei chiamati. È nel fondo del cuore, aperto allo Spirito il quale forma in esso il Cristo, che la persona consacrata attinge la testimonianza che diventa subito autorevole (cf. Lc 4,36). Questa testimonianza non è una storia di strette osservanze ma di amore, di obbedienza e di orientamento profondo della vita. E una vita può prosperare e crescere, così come può anche inaridirsi, ridursi e atrofizzarsi. Tutto dipende dalla scelta che si fa giorno per giorno e dei sacrifici che ne derivano da assumere.
Infine occorre la prudenza per formare e/o lasciarsi formare. Perché una persona sviluppi un equilibrio religioso, che sia in sé una contestazione vivente contro gli eccessi del possesso (appello alla povertà), del potere (appello all’obbedienza) e sul piano affettivo (appello alla castità) le occorre del tempo. Quando si bruciano le tappe, si bruciano le persone! A volte bisogna saper vivere con persone che non capiscono. È crocifiggente, sottolinea p. Jean-Marie, ma anche divino (cf. Mt 17,17).
«Per progredire nell’amore di Dio, conclude p. Jean-Marie, non conosciamo altro libro più bello e più vero di Gesù Cristo crocifisso» (regola OMI). Il ministero particolare della formazione non è solo un’emanazione della comunità, né una delega del potere che viene dal gruppo. È una responsabilità misteriosa. Un ruolo affidato da Dio, ricevuto da Dio e dal suo Spirito Santo (cf. At 20,28-38). Per questa ragione «il primo impegno della pastorale delle vocazioni rimane la preghiera» (Ripartire da Cristo 16). Gesù ce ne dà l’esempio e il significato nella sua preghiera sacerdotale (cf. Gv 17,1-19). Egli prega per i suoi amici, i suoi discepoli affinché rimangano fedeli al nome di Dio. Essi sono stati chiamati e hanno accettato di seguirlo. Ora che egli se ne va, è cosciente della difficoltà in cui mette i suoi apostoli scomparendo dal loro sguardo. Ma è certamente per responsabilizzarli. Egli deve scomparire affinché, in seguito, essi crescano e passino a loro volta da questo mondo al mondo nuovo che è quello del Padre.
Questo modo di fare di Gesù mette in crisi il nostro vissuto della vita religiosa. «La vita religiosa ha spesso favorito un ritorno ad atteggiamenti adolescenziali, se non addirittura infantili». Perciò bisogna dare «fiducia e non esitare e affidare delle responsabilità ai giovani religiosi», scrive ancora Lespinay. È quando il progetto formativo o quello comunitario non sono chiari che c’è tutto da temere, perché «non ci si può adattare a ciò che non si conosce».
1 Tre formateur
aujourd’hui, Montréal, Médiaspaul, 2002.