OCCORRE UN ATTENTO DISCERNIMENTO

DINANZI AI REFERENDUM

 

I consacrati sono chiamati a impegnarsi perché il rispetto per la giusta autonomia della normativa giuridica non significhi accantonamento della ricca “esperienza di umanità”, che la fede ci ha aiutato a scoprire. Attenzione alla qualità delle informazioni

e dichiarazioni!

 

La pubblicazione della decisione della Corte costituzionale sulla ammissibilità dei referendum sulla legge riguardante la procreazione medicalmente assistita ha riacceso il dibattito intorno a un tema importante e complesso, che necessariamente porta a interrogarsi sul progetto di società e di futuro che una società vuole costruire. La diversità delle posizioni e delle motivazioni sottolinea la necessità di un discernimento attento: occorre non lasciarsi sommergere da informazioni e dichiarazioni, che spesso mirano solo a costruire consenso su posizioni dettate da appartenenze o interessi più o meno dichiarati.

Per i credenti, l’esperienza di ciò che è accaduto, in occasione di altri referendum, rende ancora più urgente questo sforzo di approfondimento e di chiarificazione di ciò che effettivamente è in gioco. Trattandosi di normativa giuridica, occorrerà che ci si lasci guidare innanzitutto dal bene comune. Non deve però venir meno il radicamento nei valori, che la fede permette di cogliere con maggiore chiarezza, a cominciare dalla priorità della vita e dalla incondizionabilità del diritto a vivere. La luce di questi valori è un contributo da offrire con tanta maggiore franchezza, quanto più si fa forte la voce di coloro che vorrebbero emarginarli o metterli tra parentesi.

Si muovono in queste prospettive le riflessioni che suggerisco, cercando di richiamare l’attenzione su alcuni interrogativi di carattere generale. Esse sono dettate dalla convinzione che i consacrati devono, in maniera più chiara e concorde, impegnarsi perché il rispetto per la giusta autonomia della normativa giuridica non significhi accantonamento della ricca “esperienza di umanità”, che la fede ci ha aiutato a scoprire.

Le affermazioni di Novo millennio ineunte restano uno stimolo prezioso: «Per l’efficacia della testimonianza cristiana, specie in questi ambiti delicati e controversi, è importante fare un grande sforzo per spiegare adeguatamente i motivi della posizione della Chiesa, sottolineando soprattutto che non si tratta di imporre ai non credenti una prospettiva di fede, ma di interpretare e difendere i valori radicati nella natura stessa dell’essere umano. La carità si farà allora necessariamente servizio alla cultura, alla politica, all’economia, alla famiglia, perché dappertutto vengano rispettati i principi fondamentali dai quali dipende il destino dell’essere umano e il futuro della civiltà» (n. 51).

 

RISPETTO CONVINTO

DEI PROCESSI DEMOCRATICI

 

Prima di entrare nel merito dei quesiti, dichiarati ammissibili dalla Corte Costituzionale, è giusto domandarsi se l’attuale vicenda referendaria sia effettivamente espressione di vera democrazia. Dicendo questo, non dimentico che, per sé, il chiedere ai cittadini di esprimersi direttamente su aspetti decisivi del bene comune è elemento da cui la dinamica democratica non può prescindere, se vuole essere sempre più trasparente e coinvolgente. Però, perché questo si verifichi, è necessario che il ricorso ai referendum non significhi svalutazione degli altri strumenti democratici, cominciando dal parlamento, al quale compete l’elaborazione delle leggi. Inoltre occorre che i quesiti siano formulati in maniera da permettere l’effettiva comprensione e valutazione dei contenuti da parte di tutti i cittadini. In altre parole, il ricorso ai referendum non può essere la via normale con cui cercare di ottenere la modifica delle leggi.

È quanto la stessa nostra Carta costituzionale sembra suggerire, escludendo alcune materie dalla possibilità di referendum (leggi tributarie o di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali) e soprattutto stabilendo che «la proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi» (art. 75).

Una ricostruzione, non condizionata da prese di posizione aprioristiche, delle vicende che hanno portato agli attuali referendum, pone più di un interrogativo sulla loro capacità di contribuire a un’effettiva crescita democratica del nostro paese. Si pensi soprattutto alle modalità “ricattatorie”, con cui alcune forze li hanno prospettati, quando ancora la legge era in fase di elaborazione, e la fretta con cui poi se ne sono fatte promotrici.

Non credo possa dirsi di mirare a un vero confronto democratico chi non è disposto ad accettare una normativa diversa da quella da lui proposta, quando il percorso che ha portato a essa è stato corretto, per quanto concerne sia il rispetto delle competenze sia i processi elaborativi. Chi pensa che l’unico sbocco debba essere quello da lui già deciso, si illude di essere democratico, ma in realtà vuole solo servirsi della democrazia per imporre le proprie vedute o i propri interessi.

Se tutto questo è vero, è chiaro che gli attuali referendum sono espressione più di un desiderio di strumentalizzazione dell’istituto del referendum che di un ricorso a esso dettato da sincero spirito democratico. A conferma di ciò sta il non raggiungimento del quorum, previsto dalla Costituzione, e il conseguente invalidamento dei referendum proposti negli ultimi anni. Non è democrazia tener conto di questo netto no, che gli italiani hanno espresso a un ricorso troppo sbrigativo (e perciò inflazionistico) all’istituto referendario? Questo a prescindere dai costi, in un momento in cui pure si chiede a tutti di limitare le spese.

Se poi si riflette su come sono formulati i singoli referendum, appare subito che in ognuno di essi vengono chieste diverse modifiche al dettato della legge: più precisamente da quattro a nove, di cui alcune ripetute nei diversi quesiti. La delicatezza della materia e il numero dei cambiamenti esigerebbero un’opera attenta di formulazione da parte del legislatore, più che un generico sì o no. È giusto perciò chiedersi se la strada, imboccata con la proposta dei referendum, sia quella migliore o non significhi invece un’ulteriore spinta a delegittimare le istituzioni, già tanto duramente messe in discussione.

Si capisce allora come appaia legittima, non solo costituzionalmente ma anche politicamente e socialmente, la scelta di astenersi dal votare perché non venga raggiunto il quorum previsto dalla Carta costituzionale. Non si tratta di assenteismo, ma di esprimere un giudizio di dissenso su un percorso che non solo non porta a una soluzione efficace dei problemi, ma rischia di allontanare ancora di più la gente dalle istituzioni.

 

NON DIMENTICARE

I DIRITTI DEI DEBOLI

 

Quando poi si passa a una lettura attenta dei contenuti dei quattro referendum, ammessi dalla Corte costituzionale, appare subito che essi non si propongono di migliorare la legge, ma piuttosto di creare un vuoto normativo. Anche alcune tra le forze politiche, che li hanno proposti, riconoscono che poi bisognerà che il parlamento colmi questo vuoto. Ma allora perché non percorrere subito questa strada? In materie così complesse e delicate, non è mai saggio perdere tempo, a meno che non si voglia permettere ai “furbi” e ai “prepotenti” di acquisire posizioni di vantaggio, da cui poi condizionare il successivo cammino.

L’elemento che mi sembra faccia da sfondo a tutti i quesiti referendari, è una società in cui vengono privilegiati i diritti dei più forti a discapito dei più deboli. Il testo attuale della legge si fonda sul presupposto che una normativa della procreazione medicalmente assistita può dirsi giusta, solo quando «assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito» (art. 1, comma 1).

In uno dei referendum (il terzo di quelli ammessi) si chiede esplicitamente l’abolizione dell’intero articolo 1, perché, come si legge nella motivazione, si «vuole affermare che i diritti delle persone già nate non possono essere considerati equivalenti a quelli dell’embrione». Negli altri, questo ragionamento determina la richiesta di sopprimere le precisazioni che la normativa pone proprio a difesa della dignità umana dell’embrione (no alle tecniche in qualsiasi modo clonative, numero limitato di embrioni, divieto della loro crioconservazione…).

Non credo che possa ritenersi migliorativa della legge la scomparsa di tali precisazioni. Ne risulterebbe infatti una normativa che afferma solo i diritti di chi procrea, dimenticando quelli del nascituro. Ma allora non potrebbe più dirsi giusta, perché verrebbe meno a quella esigenza di solidarietà, propria del bene comune, che non permette a nessuno di trasformare i propri diritti in un assoluto che fa dimenticare quelli degli altri. Anzi, una normativa è tanto più giusta quanto più riesce a farsi carico dei diritti dei più deboli. Solo così potrà veramente difendere e promuovere i diritti di tutti.

Il riconoscimento di questa fondamentale esigenza di solidarietà ha determinato le pagine più belle della storia dei diritti nell’età moderna. Sarebbe un errore, dalle conseguenze incalcolabili, accantonarla nei riguardi delle problematiche procreative. Quando una normativa viene formulata in maniera da difendere innanzitutto i diritti della “vita forte”, finisce sempre con il legittimare la sopraffazione nei riguardi della “vita debole”. È la denuncia forte di Evangelium vitae: siamo di fronte a «una nuova situazione culturale, che dà ai delitti contro la vita un aspetto inedito e – se possibile – ancora più iniquo suscitando ulteriori gravi preoccupazioni: larghi strati dell’opinione pubblica giustificano alcuni delitti contro la vita in nome dei diritti della libertà individuale» (n. 4).

Nella procreazione i diritti, che una legge deve cercare di promuovere, sono innanzitutto quelli di chi nasce: dato che la sua “debolezza” non gli permette di difenderli da sé, occorre che la comunità se ne faccia carico. Non si tratta di dimenticare i diritti della donna o della coppia, ma di chiedere che essi vengano perseguiti riconoscendo e accogliendo quelli di chi nasce.

A queste fondamentali esigenze, il credente aggiunge un fondamento e un respiro più ampi. Egli infatti sa che, solo affermando i diritti della “vita debole”, è possibile restare fedele alla maniera di agire di Dio, che il Cristo ci ha rivelato: solo così «si testimonia lo stile dell’amore di Dio, la sua provvidenza, la sua misericordia, e in qualche modo si seminano ancora nella storia quei semi del regno di Dio che Gesù stesso pose nella sua vita terrena venendo incontro a quanti ricorrevano a lui per tutte le necessità spirituali e materiali» (Novo millennio ineunte 49). Questa radicalità, dettata dalla fede, non rende “confessionale”, tanto meno “integralista”, lo stare dalla parte del più debole: dà invece nuovo slancio e forza a qualcosa che il credente propone in nome dell’uomo e per promuovere i diritti di tutti.

 

Queste riflessioni valgono anche nei riguardi del primo dei quesiti referendari ammessi, che, in nome delle esigenze della ricerca medica, vorrebbe abolire i vincoli stabiliti dalla legge per la sperimentazione sugli embrioni e il divieto di ricorso alle tecniche clonative. Che la ricerca scientifica debba essere sviluppata senza soste, per far fronte alle sfide delle malattie più gravi, è un’esigenza e un dovere che nessuno deve mettere in discussione. Essa però non può dimenticare che gli embrioni umani non possono mai essere ridotti a semplice “materiale genetico”, di cui disporre a proprio piacere: si tratta sempre di vite umane, da rispettare e proteggere. Questo non è porre dei limiti immotivati alla scienza, ma darle ulteriori stimoli e fiducia, perché non si stanchi di sviluppare e approfondire metodi e campi.

Vale anche per la ricerca genetica il criterio affermato in tutti gli altri settori: non è possibile lasciarsi prendere talmente da un fine buono da giustificare i mezzi solo per il fatto che permettono di raggiungerlo; occorre invece valutarne l’effettiva qualità umana. In questa maniera, non si va contro la ricerca, ma piuttosto contro la pigrizia della ricerca, che porta ad accontentarsi delle soluzioni più facili o più redditizie, anche quando emergono preoccupazioni o interrogativi etici.

 

IL DIRITTO

AL NASCERE UMANO

 

Oggi la qualità della vita è giustamente al centro delle nostre preoccupazioni. Troppe volte però si tratta di una qualità dal respiro corto, che fa prevalere le dimensioni dell’avere e del fare, dimenticando quelle dell’essere, oppure si lascia rinchiudere nell’immediatezza del presente. Allora dimentichiamo che l’autentica qualità umana dice sempre condivisione: è qualità che tutti si impegnano a costruire per tutti, nel rispetto e nella promozione della specificità di ognuno.

L’attuale normativa sulla procreazione medicalmente assistita è retta dalla preoccupazione perché a ogni persona venga riconosciuto il diritto alla qualità umana del suo nascere. È un diritto che si radica nel donarsi reciproco dei genitori e chiede di concretizzarsi in un’accoglienza incondizionata nei riguardi della nuova vita: solo così potrà aversi vera qualità umana del nascere. È perciò espressione della libertà della donna e dell’uomo, ma al tempo stesso esige sostegno e protezione da parte di tutta la società, anche a livello giuridico. La qualità del nascere segna in maniera profonda tutto il successivo sviluppo della persona: promuoverla è una responsabilità da condividere insieme.

Le proposte referendarie invitano a dimenticare tutto ciò, mettendo sullo stesso livello le tecniche di procreazione medicalmente assistita e il normale nascere umano. Viene infatti chiesto di abolire il fondamentale criterio terapeutico indicato nell’art. 1 comma 2 (e ribadito poi negli articoli seguenti): «il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità».

Tutto questo non va contro il diritto alla qualità umana del nascere proprio di ogni persona? A meno che non si voglia negare ogni significato al processo naturale del nascere, con il rischio di ridurre la persona a “prodotto”, che è possibile realizzare arbitrariamente. Ma così si cade in una contraddizione: da una parte si parla di assistenza medica, mentre, dall’altra, si rifiuta che, a motivarla, debba esserci una urgenza terapeutica.

Soprattutto, è lecito chiedersi perché non debba valere anche per la qualità del nascere umano quel rispetto per i processi naturali che pure affermiamo in tutti gli altri settori. Le vicende di questi ultimi decenni ci convincono sempre più che l’unico vero sviluppo è quello ecologicamente sostenibile. Diversamente, le soluzioni si svelano ben presto illusorie e cariche di conseguenze ancora più gravi dei problemi che si pensava di risolvere. L’amara lezione dell’ecologia non dovrebbe valere anche in campo umano?

Contro il diritto della persona alla qualità umana del suo nascere va soprattutto la richiesta di abrogare il divieto del «ricorso a tecniche di procreazione assistita di tipo eterologo» (art. 4 comma 3). La motivazione, addotta nell’ultimo dei quesiti ammessi, è quella di «consentire la donazione di gameti per rimediare ai casi di sterilità più gravi e per prevenire la trasmissione di malattie ereditarie quando uno o entrambi i potenziali genitori ne sono portatori».

L’intenzionalità positiva non può però far dimenticare il diritto di chi nasce alla chiarezza della maternità e della paternità. A meno che non si voglia ricadere nel dualismo antropologico, che fa considerare il corpo come qualcosa che si ha non già ciò che si è, non è corretto separare la maternità/paternità genetica da quella psicologica. Del resto l’esperienza conferma eloquentemente quanto questa chiarezza incida sulla qualità umana di tutta la vita. Conosciamo tutti i problemi psicologici, che contrassegnano la vita di quelle persone che non hanno conosciuto i propri genitori, il desiderio di incontrarli, le insicurezze sulla loro stessa identità.

Oggi siamo concordi nell’affermare la necessità di norme che regolano le adozioni, difendendo la priorità dei diritti dei bambini su ogni altra considerazione. Tutto questo è giusto, pur trattandosi di situazioni umane particolarmente complesse e urgenti. Perché poi non riconoscere una tale necessità fin dalla procreazione? Non si tratta di negare la libertà di chi genera, ma piuttosto di chiederle che venga vissuta effettivamente come amore che dona vita.

Un’ultima riflessione. La prossima sfida referendaria si inserisce nel complesso e difficile passaggio culturale che il nostro paese sta vivendo. Occorre viverla con consapevolezza e responsabilità, come ha sottolineato il cardinale Ruini nella prolusione

al Consiglio permanente della CEI del gennaio scorso, considerandola «un’opportunità per rendere il popolo italiano più consapevole dei reali problemi e valori in gioco» e avendo presente che «per esprimere più efficacemente il rifiuto del peggioramento della legge, sembra giusto avvalersi di tutte le possibilità previste in questo ambito dal legislatore» (n. 6).

Soprattutto però occorre che tutta la comunità cristiana non si stanchi di annunziare e di testimoniare il “vangelo della vita”, evidenziandone la capacità di creare futuro veramente umano. I consacrati dovranno sentire una tale urgenza come elemento fondamentale della loro missione.

Sabatino Majorano