ALLE RADICI DELLE CRISI ATTUALI
IL CORAGGIO DI INTERROGARSI
La vita consacrata è
chiamata a riflettere criticamente sul suo modo di porsi nella realtà culturale
di oggi, e a fare un’autocritica sulla fedeltà di ogni comunità alla propria
missione specifica.
La vita consacrata – come si sa – è alla ricerca di un
rilancio dopo le lunghe (e spesso infruttuose) analisi degli ultimi anni,
spinta dalla cruda realtà storica, fatta di perdita di identità specifica,
almeno sempre meno avvertita, di calo degli aspiranti alla vita religiosa, di
annacquamento dell’incidenza del carisma in una società da una parte distratta
e dall’altra indifferente e impermeabile a certi orizzonti e rinunce.
Le ragioni cercate per spiegare e spiegarsi la situazione
di smarrimento e di crisi sembrano – a volte – ricordare quelle dei politici.
Vale a dire: all’esterno si dà la colpa alla nequizia dei tempi, al calo del
sentimento religioso, al rifiuto di ogni sacrificio, alla ricerca spasmodica
del piacere, ecc., tutti motivi senz’altro veri e presenti; all’interno, al
rilassamento dello spirito di dedizione, all’imborghesimento dei costumi
penetrato anche nei sacri recinti, all’impreparazione e alla fragilità
psicologica dei giovani, al disorientamento degli anziani, ecc., tutte cause
senz’altro vere e presenti.
Ma da molte parti – in verità alcune congregazioni lo
hanno fatto o lo stanno facendo – non si ha il coraggio di interrogarsi sui
veri motivi della crisi. Li poniamo con una serie di domande. La vita
consacrata, nei suoi progetti e programmi, nelle sue strategie pastorali,
educative, formative, tiene veramente conto della realtà storica in cui vive?
Ha ancora un solido contatto con le persone nelle loro attuali, e non
immaginarie, convinzioni religiose, nelle loro concezioni morali e sociali? La
vita consacrata non rischia, forse, di essere in ritardo con le direttrici mentali
del nostro tempo, estranea – e quindi non capita – ai percorsi culturali con le
sue strutture, i suoi metodi, le sue richieste e tradizioni? In una parola: con
la sua attuale generale fisionomia e configurazione?
Non si arriva – quindi, alla fine – all’atteggiamento dei
politici? Stare a discutere all’interno delle comunità alla ricerca del
colpevole della poca incidenza pastorale dell’opera, dare la colpa all’uno o
all’altro per la poca attrazione dell’istituto, quando invece tutti insieme non
si ha l’intelligenza o il coraggio di riconoscersi “superati” dalla storia
concreta con le proprie tenaci visioni della vita consacrata, non più
corrispondenti all’effettiva realtà, e con le opere tradizionali che hanno
fatto magari grande l’istituto, ma che ora sono relitti pesanti del passato.
Ammettere tutto questo è comprensibilmente difficile:
significa fare una seria analisi del tempo, delle opere, di se stessi, delle
prospettive future. La condizione per individuare e correggere gli errori e per
un agire coerente è il vaglio, senza sconti e senza scaltri ritorni e
personalistiche eccezioni, delle priorità da prendere in considerazione e dei
presupposti sui quali fondare la scelta. Ci vuole coraggio: per andare avanti,
per guardare con realismo il futuro; ma ci vuole coraggio anche per ritirarsi,
riconoscere gli errori di prospettiva, la fragilità di progetti nati
nell’astrattezza, dal desiderio di “fare bella figura”, ma incompatibili con la
realtà delle forze, l’inutilità di creazioni, una volta buone, ora superate.
Quindi: il coraggio di sognare, ma anche il coraggio di non sognare.
IL CORAGGIO
DI PARLARSI
In campo politico, si nota la tendenza degli schieramenti
ad adagiarsi, a identificarsi con un leader, dal quale ricevere l’imprimatur
per tutte le questioni da trattare e al quale rivolgersi poi per verificare la
correttezza del proprio comportamento. Una prassi talmente diffusa che da varie
parti ci si chiede se tale forza politica potrà sopravvivere alla scomparsa,
sia pure soltanto “elettorale”, del leader. Analisti seri dicono di no, perché
nel frattempo – il tempo della “dipendenza” – non si è creata una piattaforma
di valori condivisi dai suoi membri, non si è dato spazio ad altri personaggi
validi, riconosciuti, valorizzati.
Cerchiamo, con tutte le differenze, che però non ci
sembrano molte, di applicare il discorso alla vita consacrata. Se – diciamo se
– nei livelli alti (generali e provinciali) succede la stessa cosa, cioè
compaiono sempre o quasi i leader come immagine-sintesi esclusiva dell’istituto,
al loro ricambio – perché bisogna cambiarli, dato che a vita vi è solo qualcuno
e previsto dalle costituzioni – che succederà? Chi sarà in grado di uscire dal
cantuccio della non richiesta condivisione fino a questo momento e dal silenzio
prolungato della non ingerenza?
Ci sembra che tante riunioni, assemblee e consigli
risultino evanescenti perché di fatto ingessati in direzioni, questioni,
proposte di soluzioni già previste e neanche tanto implicitamente indicate. A
questo si aggiunge, come conseguenza comprensibile, la mancanza del coraggio di
parlare, perché troppo spesso nella suscettibilità dei consacrati vi è questa
convinzione: se in un dibattito c’è un dissenso con il leader religioso, questo
è sempre letto come un attacco, quando invece può (deve) essere letto come un
apporto alla discussione, un chiarimento e un completamento alle tesi portate;
e anche se fosse la denuncia di qualcosa che occorre cambiare o migliorare,
esso va accolto nella sua positività di partecipazione e discusso francamente e
fraternamente.
Tanto più che la presenza o la mancanza di comunicazione
è legata alla concezione che si ha della comunità e più in generale della vita
consacrata. Se predomina il concetto della forte ed esclusiva autorità, si avrà
una ben povera comunicazione: essa sarà soltanto unidirezionale, dove
l’autorità “dice” e gli altri debbono ascoltare e agire, senza potere
manifestare il proprio parere, anche perché non richiesto. Se la comunità è
vista come luogo di partecipazione, di condivisione di obiettivi e di
itinerari, la relazione sarà ricca, fondata su autentici e veri rapporti
personali, nei quali non vi è l’appiattimento di una persona su un’altra e
gregarismo più o meno accentuato, non vi è dipendenza psicologica che evidenzia
una disparità riconosciuta e accettata, ma vi è dialogo su un piano di
uguaglianza che favorisce l’ascolto e l’accoglienza delle parole e permette la
risposta, che può anche essere di non completo accordo. Ma l’eventuale
disaccordo apre all’approfondimento delle questioni, fa sentire
corresponsabili, perché si offre il proprio parere, e manifesta la
valorizzazione delle persone, perché ascoltate.
IL CORAGGIO
DI CONFRONTARSI
È opinione personale che la vita religiosa non deve – per
la libertà che Cristo ha portato ai suoi discepoli – assimilarsi al
comportamento gregario presente in modo massiccio nei partiti politici,
atteggiamento che non è l’ultima causa della povertà di orizzonti che la
politica oggi offre. Ed è sempre opinione personale che occorrono superiori
provinciali e locali certo leali alle direttive dei capitoli, ma autonomi: i
primi, verso i “vertici”, perché la dipendenza stretta e acritica non permette
un’applicazione delle pur valide direttive generali nella realtà locali delle
province; i secondi, verso un’eccessiva dipendenza dal provinciale, quasi che
ogni problema locale sia irrisolvibile se non andando in alto; il che comporta
la sfiducia nell’intelligenza e nell’intraprendenza dei religiosi della
comunità.
Se non si instaura una reale libera circolazione di idee,
non vi sono artifici, manovre, sotterfugi astuti (“alchimie”, appunto) o
escamotages che possano fare effettiva comunione. Resteranno sempre, al di là
dell’ossequio formale, diffidenze, riserve, che non portano certo a un senso
gioioso di appartenenza e a una collaborazione dinamica. Favoriscono,
piuttosto, un rassegnato individualismo.
La vita consacrata è chiamata a fare una doverosa
riflessione critica sul modo di concepire se stessa nella realtà culturale di
oggi, come pure ciascuna comunità a fare un’autocritica sulla propria fedeltà
alla sua specifica, concreta missione. Occorre recepire la lezione della
storia: un capitolo, un’assemblea non può avere successo se non mette radici
nel cuore dei religiosi veramente coinvolti e responsabilizzati e la vita
consacrata non può avere successo se non mette radici nel tessuto vivo della
società contemporanea.
Altrimenti ogni pur sottile alchimia si rivelerà
provvisoria e – alla fine – inadeguata.
Ennio Bianchi