VOCAZIONI NELLA TERRA DI ABRAMO
EPPURE ANCHE IL DESERTO FIORISCE
I Rogazionisti sono
benedetti dalle prime vocazioni in Iraq. Dono di Dio in un contesto di
sofferenza religiosa, sfida e provocazione contro la logica dello scontro di
civiltà, segno della carità missionaria di una vita consacrata alle frontiere
dell’evangelizzazione.
Ogni giorno siamo sommersi dalle tragiche notizie che
giungono dall’Iraq. In mezzo a tanta violenza, una segno di speranza sono le
elezioni che si sono svolte il 31 gennaio scorso, anche se è troppo presto per
prevederne gli sviluppi. Durante il tragico periodo segnato dalla guerra, a
soffrire in maniera tutta particolare della situazione sono state le comunità
cristiane che le correnti fondamentaliste musulmane vorrebbero cancellare del
tutto, nonostante che la loro presenza in questa terra sia di gran lunga
anteriore all’arrivo dell’islam.
Le cronache più recenti hanno registrato, tra l’altro,
l’inquietante rapimento e la successiva liberazione di mons. Basile Georges
Casmoussa, vescovo della comunità siro-cattolica di Mosul, segno che l’attacco
ai cristiani e alle chiese ora tende a estendersi ai capi religiosi. Sottoposti
a una pressione insostenibile i cattolici stanno lasciando l’Iraq (soprattutto
commercianti, studenti messi sotto pressione dagli anatemi che le moschee
lanciano quotidianamente contro i “miscredenti” cristiani), per rifugiarsi in
Siria o in Giordania. Il partito cristiano Al Rafedeyn (“fra le due rive”,
numero 204) si è presentato alle recentissime elezioni, pur sapendo che per le
migrazioni-fughe dei cattolici raggiungerà a malapena il 4% rispetto all’8% in
tempi di normalità.
Eppure i cristiani, presenti nel territorio sin dai primi
secoli, erano fino a poco tempo fa il 3% anche se inseriti in un contesto, in
stragrande maggioranza, di fede islamica: in testa gli sciiti, principale
confessione, con una percentuale compresa tra circa il 60 e il 65% della
popolazione; seguiti dai sunniti che rappresentano il 34-37%. Molto variegata
invece la presenza dei cristiani: poco meno di 800mila, tra caldei (700mila),
latini (2.500), siro-antiocheni (75mila) e armeni (2mila). La popolazione
caldea rappresenta il terzo gruppo etnico in Iraq, dopo arabi e curdi.
La situazione attuale è, come detto, quella di un paese
immerso in una immensa sofferenza e che vive in una situazione di ingiustizia
per motivi politici. La gente tende a emigrare e si pone il problema di frenare
il deflusso dei cristiani (soprattutto i più giovani) in un contesto di
insicurezza e anche di intolleranza religiosa dovuta a una logica di crescente
islamizzazione, fomentata anche dal proselitismo dei fondamentalisti
protestanti americani. Da loro proviene infatti l’idea della Finestra 10/40,
l’area tra i dieci e i quaranta gradi a nord dell’Equatore, dall’Africa
all’Asia orientale: si tratta del mercato del futuro, tanto per gli
imprenditori quanto per gli evangelizzatori. Molti la chiamano la Resistant
Belt, la fascia di resistenza al dominio tanto economico-militare quanto
spirituale. In questa fascia, i coreani hanno assunto il ruolo di testa di
ponte del proselitismo protestante. In attesa che si apra lo sterminato mercato
umano della Cina, si esercitano nel mondo islamico, e in particolare sembra in
Iraq.
IRAQ, FRONTIERA
DELLA FEDE
Nonostante tutto questo, la congregazione dei padri
rogazionisti sta assaporando il dono e l’impegno di alcune vocazioni
provenienti proprio dall’Iraq martoriato e conteso. Come ci ha detto p.
Sebastiano De Boni r.c.j., «l’Iraq potrebbe essere la “nuova frontiera” che
richiede il nostro coraggio, quello delle “sfide impossibili” all’uomo ma
possibili a Dio».
In questo contesto si comprende la preziosità delle
comunità cristiane del medio oriente, perché con la loro stessa esistenza
smascherano la logica dello scontro di civiltà: l’equazione “cristianesimo =
occidente” che rischia di far scomparire le radici orientali del cristianesimo.
Radici che erano solidamente piantate quindici secoli prima di Lepanto e che si
sono mantenute attraverso quattordici secoli di dominio islamico: ricordiamo
che all’inizio del novecento, la metà della popolazione della capitale del
Califfato ottomano era costituita da cristiani (e il 40% di quella di Baghdad
da ebrei) e la Siria era governata da un cristiano.
Una società pluralista in una maniera semplicemente
inconcepibile in Europa, con una quantità di stili di vita, di lingue, di
religioni e di sottogruppi religiosi di ogni tipo: ebrei, maroniti, nestoriani,
siro-ortodossi, copti, assiri, sciiti, sunniti, yazidi, caldei, drusi e tanti
altri potevano interagire pubblicamente perché ponevano e rispettavano un
confine rigoroso: la non interferenza nella vita privata, compresa la
religione, che funge anche da collante per il rapporto familiare e di gruppo.
«I sacerdoti che abbiamo incontrato, scrive p. De Boni,
hanno detto che al più presto bisogna attivare un’opera di evangelizzazione che
possa aiutare a frenare il processo di islamizzazione e sostenere la comunità
ecclesiale locale a vivere il paradosso in un mondo a volte ostile, con il
quale è duro convivere, ma col quale si è soprattutto continuamente chiamati a
misurarsi e confrontarsi».
L’iniziativa di accogliere vocazioni irachene è partita
fortuitamente da sollecitazioni delle suore domenicane presenti nell’area. A
dispetto di tutto, si può dire che non mancano prospettive vocazionali in
questa terra: anche i salesiani hanno aperto una casa a Baghdad vicino
all’università. Sono già presenti domenicani, carmelitani e redentoristi.
Recentemente hanno emesso la loro professione perpetua nella famiglia religiosa
dei rogazionisti tre giovani di rito cattolico siro-antiocheno provenienti
dalla zona di Ninive, la «grande città» dove Giona fu inviato da Dio a
predicare la conversione.
NINIVE, CULLA
DI VOCAZIONI
Jalal Yako, originario di una città di nome Karakosh dove
è concentrato il numero più alto di cristiani della nazione (Mosul provincia di
Ninive), è entrato nel seminario diocesano di Baghdad durante la guerra del
Golfo mentre le bombe cadevano sulla città: « ma la voce di Dio era più forte
del frastuono delle armi e mi chiamava a una vita più radicale, spesa per i più
sofferenti. Ho fatto anche due anni di servizio militare che sono per me
momenti di grande esperienza e di dialogo con i miei fratelli musulmani.
Nell’anno 1994 ho conosciuto provvidenzialmente la famiglia religiosa dei
Rogazionisti e ho iniziato un cammino presso di loro. Ben presto sono rimasto
affascinato dal carisma del “Rogate” che consiste nello spendere la vita per le
parole di Gesù: “…la messe è molta ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il
padrone della messe che mandi operai nella sua messe”. Vivendo queste parole
nella preghiera per i buoni operai e nell’amore ai più bisognosi».
Basim al-Wakil 40 anni, ingegnere, racconta: «Alle prime
ore dell’alba del 17 gennaio 1991, è cominciato il rombo degli aerei e di
missili contro l’Iraq, era la famosa guerra del Golfo, in cui è stata distrutta
la maggior parte delle fonti d’energia elettrica, dell’acqua, del petrolio e
delle comunicazioni e anche tante costruzioni dove lavoravano o abitavano i
cittadini, specialmente nelle grandi città (Baghdad, Nineveh, Basrah). Queste
difficilissime condizioni sono durate 42 giorni e 42 notti. Migliaia di
famiglie hanno dovuto abbandonare le loro case cercando un rifugio nei paesi
lontani dei grandi centri urbani, e il mio paese era uno di quelli che
accoglieva gli sfollati. La mia vocazione è cominciata con questa gente.
All’inizio io con il parroco e altri giovani abbiamo organizzato un gruppo per
accogliere queste persone e cercare per loro una sistemazione fra le famiglie del
paese che erano disposti ad accogliere e servire questi ospiti anche senza
conoscerli. Alla fine di questa guerra che è stata chiamata “Tormenta del
deserto”, abbiamo organizzato un altro gruppo di volontari per ricevere gli
aiuti alimentari che arrivavano da fuori dell’Iraq e distribuirli tra i
cittadini».
«Durante questo periodo, continua p. Basim, sentivo una
voce interiore e chiara che mi chiamava a consacrare tutta la mia vita per
coloro che hanno bisogno d’aiuto. Ho consultato il mio parroco che mi ha
consigliato di pensare bene e chiedere la forza e il coraggio da Dio con la
preghiera prima di prendere una decisione. Un anno dopo ho deciso di consacrare
la mia vita a Dio e ho voluto studiare la filosofia e la teologia a Roma, però
non ho potuto fare il viaggio a causa delle condizioni dell’Iraq. Finalmente,
nel giugno del 1997 ho potuto con la forza di Dio arrivare in Italia con un
altro compagno iracheno per entrare fra i padri Rogazionisti e continuare la
mia strada e coltivare la mia vocazione con loro».
Zuhir Nasser è segnato da un grave incidente all’età di
cinque anni, che lo ridonato alla vita e nel contempo lo ha costretto a
diventare “tranquillo”. «Nella mia città, Karakoush, ho frequentato elementari
e medie; poi a Mosul l’istituto industriale con indirizzo meccanico: qui i miei
compagni appartenevano a religioni differenti, e mi facevano domande sul
cristianesimo: sono stato spinto a fare ricerche su testi cattolici per
conoscere meglio la mia religione; infatti, l’insegnamento della religione
cristiana non era previsto nel programma scolastico. A diciotto anni mi sono
diplomato: ero il terzo migliore nella classe di meccanica, e potevo perciò
continuare gli studi; desideravo farlo, ma la guerra Iran-Iraq, allora al suo
quarto anno, me l’ha impedito: sono stato chiamato al servizio militare. Lì
sono stato impiegato alla strumentazione radio, poi mi hanno mandato al fronte.
Mi sono trovato sempre a confrontarmi con soldati di altre religioni, e si
facevano con me lunghi discorsi sul cristianesimo e la sua dottrina, che ho
fatto conoscere ai miei compagni sunniti e sciiti. Siccome c’era molto tempo
libero, l’ho usato per studiare libri cattolici e le varie storie mondiali.
Quando ritornavo in licenza alla mia città, partecipavo con i miei amici e con
altri giovani ad incontri sulla cultura cristiana: quello è stato l’inizio del
mio cammino verso l’impegno nella Chiesa».
Divenuto insegnante, Zuhir si è unito ai catechisti per
l’insegnamento della religione ai ragazzi della città: «sentivo che i bambini
avevano tanto bisogno di valori umani e cristiani, perché la guerra li sviava
da essi, e loro rimanevano come abbandonati; qui è cominciata a venirmi l’idea
di entrare in seminario, ma non ho voluto rivelarla. Nel 1990 ho parlato con un
sacerdote della mia città sulla mia vocazione; ma l’entrata dell’Iraq in Kuwait
e la guerra del Golfo mi hanno impedito di andare avanti, perché sono dovuto
ritornare al servizio militare. Dopo aver terminato di nuovo il militare, non
ho continuato l’insegnamento come dipendente statale: desideravo intraprendere
gli studi ecclesiastici, per diventare prete. Ho parlato con il mio vescovo: su
consiglio suo ho aspettato un anno per essere certo della mia vocazione. Nel
1994 il mio amico Jalal Yako mi ha parlato della congregazione dei padri
rogazionisti, e dopo quel colloquio ho deciso di entrare in questa famiglia
religiosa; allora mi sono informato su di essa presso due suore domenicane
irachene di mia conoscenza, che vivevano a Roma ed erano in rapporto con questi
padri… Nell’ottobre del 1995 sono uscito dall’Iraq diretto in Giordania, dove
ho atteso poco meno di due mesi che mi arrivasse il visto per l’Italia, in cui
ho fatto ingresso il 24 settembre del 1995. Dopo pochi giorni passati in curia
e a Morlupo, sono stato accompagnato ad Assisi, per cominciare lo stage di
discernimento».
NON LI ABBIAMO
CERCATI
Dalle testimonianze risalta uno spirito vocazionale che
emerge da loro stessi; p. Boni sottolinea come «non li abbiamo cercati noi, ma
sono arrivati; adesso giungeranno altri due giovani che ho incontrato e che
precedentemente conoscevo tramite lettera».
Ora si guarda al futuro con ottimismo, ipotizzando una
permanenza dei rogazionisti iracheni in patria durante i mesi estivi, per
aiutare i parroci nelle attività di animazione giovanile dopo la chiusure delle
scuole. Si è anche avuta richiesta di una presenza rogazionista con un centro
di spiritualità, sempre a Karakosh, che potrà dare occasione per far conoscere
il carisma del Rogate. Ultimamente fr. Yalal, in occasione di una sua visita,
ha dato inizio a un gruppo vocazionale, composto da circa 60 giovani che si
incontrano regolarmente ogni venerdì.
A cura di Mario
Chiaro