INTERROGATIVI DI FRONTE AGLI ABBANDONI
FEDELTÀ AL SOGNO DI DIO
Perché molti giovani
abbandonano la congregazione? È possibile una fedeltà per sempre? Fr. Sean
Sammon affronta il tema in una lettera a un ipotetico religioso marista e
suggerisce le vie possibili per una fedeltà al sogno che Dio ha su ciascuno,
senza ignorare le difficoltà che comporta.
La fedeltà poggia sulla «disponibilità intenzionale di
legarsi in maniera libera e duratura e di attenersi alle promesse fatte. Nella
collettività la fedeltà è legata all’attendibilità, alla veridicità e
all’onestà da entrambe le parti. Nella pratica, la fedeltà entra spesso in
conflitto con esigenze legittime o espansioni illegittime del bisogno di
libertà».1 In questa definizione si descrivono in relazione dinamica le
componenti decisive di una vocazione alla vita consacrata: uno sfondo
illuminante su cui situare la lettera scritta dal superiore generale dei
Fratelli Maristi, Sean Sammon a un ideale giovane religioso, per vivere le
cinque chiamate dell’istituto (una vita centrata in Gesù; una seminagione di
speranza per mezzo di nuove iniziative di evangelizzazione, educazione e
solidarietà; una vicinanza ai giovani più poveri ed emarginati; una
condivisione del cammino dei laici; un impegno a costruire comunità di perdono
e riconciliazione).2
Sammon, nel desiderio di toccare gli aspetti concernenti
la fedeltà e l’impegno, parte da una domanda di fondo rivoltagli da alcuni
fratelli boliviani – «Perché tanti giovani lasciano la nostra congregazione?» –
per articolare una riflessione sul legame tra fedeltà e elezione, vocazione e
rischio, impegno e libertà.
IL SOGNO DI DIO
PER CIASCUNO
Tralasciando riposte “troppo facili”, legate a problemi
individuali o a momenti di tiepidezza conseguenti a insuccessi e forti
difficoltà, Sammon sceglie la strada della comprensione profonda della natura
della fedeltà in relazione al tema degli abbandoni. «La fedeltà ci aiuta a
essere leali nei confronti della promessa nonostante i valori contraddittori
che si possono incontrare nel viaggio della vita». Questo concetto rimanda al
tema del sogno di Dio per ciascuna esistenza: c’è un momento in cui ci si sente
chiamati. Al centro di tale vocazione sta il mistero dell’elezione da parte di
Dio, che si serve di strumenti umani per portare avanti il suo progetto.
Normalmente sono decisivi gli incontri con persone che suscitano ammirazione in
età adolescenziale, incontri che però necessitano di una sempre più profonda
esperienza dell’amore di Dio per ciascuno. La vocazione, di conseguenza, non è
una chiamata che giunge una volta per tutte, ma è una conversazione quotidiana
con Dio che dura tutta la vita. Si tratta esattamente di praticare la presenza
di Dio.
Ogni vocazione, ovviamente, ha un elemento di rischio,
trattandosi di andare oltre quel che ci sembra di avere in mano. Sammon qui
mette in guardia da quell’atteggiamento, sempre più diffuso tra i giovani, che
porta a rimandare la decisione finché non si può contare su tutte le
informazioni necessarie per essere sicuri di se stessi. Egli ammette di aver
personalmente fatto esperienza di “ripensamenti” in alcuni passaggi di vita (a
venti, trenta e quaranta anni), ma sottolinea che comunque è più importante
mettersi in movimento che rimanere fermi.
I periodi di transizione, successivi ad anni di
produttività e di benessere, producono ripensamenti vocazionali a partire dalla
morte di una congiunto, dal cambio di ministero o di comunità, da un
innamoramento o da un fallimento spirituale. Questi momenti di crisi ovviamente
ci sorprendono, buttandoci in lunghi periodi di incertezza. È possibile uscirne
più speditamente e con profitto se acconsentiamo a programmi di rinnovamento, alla
direzione spirituale e al dialogo con amici. Così «i tempi di crisi sono tempi
di grazia»: le esperienze di deserto, segnate da sentimenti come la
disillusione e il disimpegno dal ruolo, ci purificano e rimodellano i nostri
impegni.
PER USCIRE
DALL’ADOLESCENZA
Ma cos’è esattamente un impegno? Sammon risponde dicendo
che esso comprende una chiamata, una scelta e una promessa. Tre elementi che,
insieme, danno fondamento alla propria personalità, aiutandola a definirsi e a
incamminarsi in una precisa direzione di vita (cf. i voti di povertà, castità e
obbedienza).
A prima vista libertà e impegno sembrano incompatibili.
Molti infatti sono portati a credere che la felicità sia direttamente legata al
numero di scelte che ci stanno davanti e che la libertà consiste nella capacità
di decidere di se stessi. La libertà invece significa scegliere di crescere in
una certa direzione e non in un’altra, con la consapevolezza che la continua
esplorazione è faccenda adolescenziale. La continua esplorazione di fatto ci impedisce
di fare della nostra vita un dono e ci espone a forze che vanno oltre il nostro
controllo. «Nel prendere un impegno dunque non cediamo quote di libertà, ma
molto spesso le accresciamo»: la vita religiosa in comune favorisce infatti la
crescita spirituale, apostolica ed emotiva.
Ma i problemi nascono con la stabilità di vita: ebbene
c’è un legame intrinseco tra l’espressione “per sempre” e gli impegni
conseguenti. Il “per sempre” non va confuso con stagnazione o assenza di
crescita e va curato perché la cultura odierna, che è all’insegna del “tutto è
disponibile”, si oppone al concetto di impegno permanente. L’impegno permanente
invece rimane il miglior concime della crescita umana. E in particolare la vita
consacrata va valutata in base ai frutti, che non devono contenere la noia o
l’indifferenza o il risentimento.
A questo punto il superiore dei maristi afferma che «la
perseveranza non è necessariamente una buona misura della fedeltà» e accenna
esplicitamente alla sofferenza che genera il confronto con persone
profondamente infelici. Il fenomeno, in crescita, descritto come “rottura degli
impegni” porta allo scoperto tante persone che non se la sentono di rimanere
nelle promesse fatte in buona fede. Ora, si tratta di vera fedeltà quando
qualcuno si aggrappa ai voti e persevera rigidamente senza affrontare
onestamente la vita soffocante che sta manifestando? La fedeltà si esercita sia
nel cambiamento che nella stabilità. Forse qui si rivela il cuore di ognuno.
Per molti infatti l’impegno verso Gesù riflette gli aspetti più profondi della
propria personalità; per alcuni l’impegno è funzionale al bisogno di sicurezza
o di servizio; per pochi si evidenzia la crescente coscienza della fine
progressiva di importanti elementi del proprio impegno. Per questi ultimi si
tratta di comprendere che hanno vissuto la loro vita senza intendere appieno
importanti verità: segnali in questa direzione sono una tristezza profonda e un
forte sentimento di perdita o confusione. Ciononostante non si può accantonare
un impegno di vita troppo facilmente. Questo è il momento di «impegnarsi in un
accurato discernimento che includa la comunità». In queste situazioni il
dialogo coraggioso si rivela determinante, anche se può essere imbarazzante. I
consiglieri spirituali, pur importanti, non dovrebbero comunque sostituire la
franca e fraterna conversazione con un fratello che sta pensando di uscire
dalla comunità. Proprio da questo sforzo si comprende ancor più profondamente
l’essenza della fedeltà.
E FONDARSI
SULL’IDENTITÀ SPIRITUALE
La fedeltà è una virtù che ha un’influenza potente
nell’aiutare a superare sentimenti di stallo che impediscono l’espressione
radicale dell’amore. Una virtù (forza e qualità interiore) che sostiene il
consacrato quando si trova di fronte a un conflitto di valori, combattuto tra
gioia e sofferenza, chiarezza e confusione.
Quando cessiamo di praticare la virtù della fedeltà
ritiriamo a poco a poco il cuore che si è liberamente offerto al tempo della
prima professione. In questo stato penoso ci può essere una perdita di zelo
missionario, una strisciante auto-indulgenza, una fredda professionalità che
prende il posto del fervore apostolico, un assestarsi nella mediocrità, uno
stile parsimonioso nella condivisione di tempo e talenti. Si estingue insomma
la passione che segnava una volta l’impegno.
A questo punto, va sempre ricordato che per prendere un
impegno si ha bisogno di possedere una buona disposizione all’intimità, che va
intesa, secondo Sammon, come «un senso maturo della propria identità che
permette di rischiare una relazione ravvicinata con qualcun altro». Una chiara
percezione della propria identità è dunque condizione indispensabile per un
impegno autentico.
Probabilmente, alla base di una crisi di fedeltà c’è una
personalità vissuta con la paura di affrontare quella sofferenza che nasce
dall’approfondimento della propria identità, e quindi intrisa dell’illusione
che sia l’impegno stesso a fornirle identità. Detto in altro modo, rimuovere il
duro lavoro personale di formarsi una identità significa spesso rischiare di
precludersi la propria maturazione: «Troppo impauriti di guardare a
contraddizioni e ambiguità che si nascondono in noi, prendiamo una decisione
prematura sulla nostra identità personale. Più in avanti continuiamo ad
aspettarci che il nostro impegno di vita sia la sorgente dell’identità, mentre
esso può essere solo l’espressione principale proprio dell’identità». La
mancanza di integrazione tra impegno e strutture interiori della personalità
porta l’impegno stesso a dipendere dalle circostanze esteriori. Si vive
proiettandosi nel sogno di Dio per qualcun altro e ogni cambiamento diventa una
sfida grave all’impegno di vita. Anche il silenzio e la riflessione diventano
così momenti di crisi e di sofferenza, con un impegno solo apparente e di
routine.
Un impegno sano deve dunque avere al suo centro lo
sviluppo della vita spirituale, intesa come disciplina della passione interiore
e lotta consapevole contro autosufficienza e avidità. Qui Sammon non può non
ammettere che l’educazione ricevuta da molti religiosi non è andata in questa
direzione, bensì in quella che proponeva una faticosa salita sulla scala delle
virtù. Invece la fedeltà e l’impegno riposano nella coscienza dell’amore
incondizionato di Dio verso ciascuno. L’esempio della vergine Maria, che è
cresciuta nell’accettazione del sogno di Dio per l’umanità, illustra
esattamente quanto costa la vera fedeltà: come lei occorre vivere in una
quotidiana relazione con Dio, affinché il suo sogno diventi il nostro progetto.
Dobbiamo permettere che il Signore ci guardi sempre con amore. «La genuina
felicità, conclude Sammon, viene fuori quando il sogno di Dio per tutti e per
ciascuno vive al centro delle nostre persone e rafforza la nostra visione,
riscalda il cuore, rimescola gli spiriti, sorprende e delizia nel corso degli
anni. Scopriamo che i nostri impegni di vita, duramente sconfitti e scossi da
gioia e sofferenza, chiarezza e confusione, sono alla fine diventati una
riflessione sulle strutture portanti della nostra vita».
Il messaggio della 9ª Giornata mondiale per la vita
consacrata sottolinea che la fioritura di vocazioni è legata alla testimonianza
di vita che una comunità religiosa offre; così pure la loro crisi: dove c’è
comunione, accoglienza, dialogo e gioia, i giovani si sentono attratti.
Troviamo qui la conferma del nostro lungo ragionamento sulla fedeltà: «La
vocazione – conclude il messaggio – è dono di Dio, seminato nell’oggi
dell’umanità; è qui che il radicalismo dei consigli evangelici trova tutta la
sua forza evangelizzante. Pertanto, più che preoccuparsi di fare opere per Dio,
è necessario compiere con fede e umiltà «l’opera di Dio» (Gv 6,29), la sua
volontà, che è «la vostra santificazione» (1Ts 4,3), operata dallo Spirito in
un cuore di povero, riconciliato, diventato come un bambino (cf. Mt 18,3),
figlio del Padre».
Mario Chiaro
1 Cf. “Fedeltà”, Nuovo Dizionario Teologico, Herbert
Vorgrimler (a cura), EDB 2004, p. 283.
2 Ci riferiamo
all’articolo Fidelity and Commitment: Letter to a Marist Brother in Review for
religious 63.3/2004, pp. 283 e ss.