PADRE FLEMING AI MARIANISTI

LA COMUNITÀ NELLA TRANSIZIONE

 

La comunità religiosa vive un’epoca di passaggio. Se da una parte è fuori della realtà sognare i bei tempi passati, dall’altra non si riesce ancora a trovare una formula valida per il futuro. Numerose le sfide da affrontare per trovare qualcosa di valido e significativo.

 

Può sembrare persino superfluo parlare della comunità. Eppure è un argomento che ritorna di continuo. E se questo succede, è segno che c’è qualcosa che non va. Una cinquantina d’anni fa la comunità era talmente ritenuta un fatto scontato che non si avvertiva nemmeno la necessità di parlarne. Ma non è più così. «Oggi invece occorre parlarne perché il senso della comunità si è smarrito o quantomeno deteriorato».

È questa la ragione che ha suggerito a p. David Joseph Fleming, superiore generale dei marianisti – congregazione fondata dal beato Guglielmo Giuseppe Chaminade – a scegliere questo argomento per la sua recente circolare, in data 12 settembre 2004, «a tutti i fratelli marianisti sparsi nel mondo» per invitarli a riflettere. Partendo da una convinzione su cui oggi non si può non essere d’accordo, osserva che «lo stile di vita comunitaria anni 1950 non è più confacente» anche se non si vede con altrettanto chiarezza come andrebbe sostituito». I capitoli generali recenti hanno cercato di riflettere su questo argomento, ma ammette p. Fleming, «non è stato facile trovare qualcosa di significativo e di persuasivo». In effetti, «ciò che rende complicato il problema non è la difficoltà di trovare un accordo in proposito, ma piuttosto è l’impressione di non avere ancora scoperto come situarci in questo tempo di transizione che stiamo attraversando».

Rispetto al passato oggi infatti si notano differenze notevoli. Anzitutto la diversità delle età e la forte presenza di anziani, ossia persone che già segnate dalla vita e «meno spontaneamente a loro agio nell’ambito comunitario» nel senso che «l’età porta con sé una forte tendenza all’individualismo». In secondo luogo l’aumento esponenziale degli influssi esterni tra cui le mille preoccupazioni alle quali dover rispondere per cui «non riesce sempre facile rispettare la preminenza della comunità religiosa locale». A tutto ciò sia aggiunge l’irruzione dei media che «oggi invadono tutto, determinando una presa di coscienza mondanizzata, di tipo consumistico... e non abbiamo ancora imparato a discernere sufficientemente e a farne un uso corretto».

Il risultato è, che «ognuno di noi ha attualmente la possibilità di vivere entro un mondo di sua scelta, isolato come un viaggiatore munito di un walkman». Di conseguenza «andare incontro all’altro richiede uno sforzo, una certa dose di ascetismo, una generosa dimenticanza di sé». In altre parole, «viviamo in una situazione di “frontiera” su una specie di linea di demarcazione tra un passato che non più essere riprodotto tale e quale e un futuro che possiamo soltanto vagamente intuire».

 

ALLA RICERCA

DI RISPOSTE

 

In una condizione del genere, è difficile trovare dei modelli stabili di vita comunitaria e «ciò ingenera sentimenti di vulnerabilità e di ansietà». Avviene che la comunità che «dovrebbe essere per tutti un sostegno nel nostro pellegrinare e uno stimolo per la creatività di ciascuno di fronte al futuro, spesso si atrofizza, lasciando dietro di sé, nell’attraversare il vecchio e il nuovo, qualche cosa della propria identità».

Ecco allora il problema: «Tenuto conto dell’elevato ideale perseguito e insieme delle frequenti delusioni, dobbiamo forse domandarci che cosa ci aspettiamo veramente dalla comunità». Tracciando un piccolo identikit delle attese, p. Fleming scrive che alcuni, i fautori del cambiamento, vorrebbero che la comunità fosse un centro di sperimentazione e creativa; altri, sulla falsariga della regola di san Benedetto, una schola dominici servitii, una “scuola di servizio divino”; altri ancora una “grande infermeria” «in cui ogni membro, oltre a essere un paziente, malato dei propri peccati, delle sue debolezze e del suo egoismo, sia anche un curante, capace di portare qualche rimedio o quantomeno qualche sollievo al dolore». Vi sono poi quelli che affermano di non aspettarsi più nulla dalla comunità all’infuori di una comodità e sicurezza elementare... «Tutte queste congetture e attese, sottolinea p. Fleming, esprimono soltanto una parte della verità; è probabile che alcuni si aspettino troppo dalla comunità, e altri troppo poco». Ciò che sembra importante è mettere da parte «le attese poco realistiche» e tornare a considerare la comunità «come un dono del tutto unico del Signore», allora «scopriremo una nuova dimensione dell’umiltà: ci riconosceremo quali veramente siamo, ossia degli esseri umani, molto limitati e pieni di difetti... Scopriremo così anche un nuovo motivo di essere grati al Signore per quanto ci ha dato, come pure una nuova libertà di lavorare al meglio possibile insieme, senza pretese irrealistiche e senza eccessive paure».

 

COMUNITÀ

E PREGHIERA

 

«La vita di comunità, osserva p. Fleming, è fatta per essere di sostegno e di stimolo nel tendere alla santità... Non è un rifugio ai margini dei combattimenti apostolici, ma ha tutto il suo senso quando è sorgente di creatività e di slancio per la missione».

È una grazia, e «quando condividiamo il nostro modo di vivere questa grazia, ci arricchiamo tutti. La preghiera, la pratica dei voti, la fede, la speranza e la carità, tutto ciò ci apre a nuovi orizzonti». Anche le contrarietà che si incontrano possono diventare altrettante occasioni di conversione e di crescita».

Pertanto «possiamo tranquillamente dire che di solito l’esperienza di comunità va di pari passo con l’esperienza di preghiera. Il miglior modo di misurare la qualità di una comunità religiosa è di andare a pregare con essa. Se la comunità è fredda, inibita e superficiale, la sua preghiera lo rivelerà. Se è calorosa e accogliente, lo potrà scoprire nel suo modo di pregare. Se ci sono tensioni e ostilità tra alcuni suoi membri, lo si avvertirà nella preghiera.

La preghiera della comunità è al tempo stesso “culmine e fonte”: essa esprime la vita della comunità e tende insieme ad approfondire il senso di Dio e ad arricchire concretamente la nostra carità reciproca e verso il mondo che ci circonda. Una comunità che prega è di grande stimolo all’approfondimento dell’esperienza spirituale dei suoi membri».

 

OTTO

GRANDI SFIDE

 

Ma per costruire la comunità oggi è necessario far fronte a diverse sfide. P. Fleming ne indica almeno otto. La prima è quella che egli chiama dell’integrazione: essa consiste nell’integrare l’importanza che viene attribuita alla comunità con l’insieme del messaggio evangelico. Ciò implica, da una parte, creare comunità vive e calorose e, dall’altra, l’impegno per l’evangelizzazione, il servizio dei bisognosi e di chiunque si trovi in uno stato di indigenza: «Lungi dal ripiegarci su noi stessi, dobbiamo dedicarci con motivazioni rinnovate a quanti intono a noi soffrono e sono emarginati; non dobbiamo mai scendere a compromessi con l’invito alla santità per salvaguardare un’armonia a buon mercato... I marianisti devono imparare a gestire nella carità e nella verità le situazioni di conflitto dovute alle esigenza di fedeltà al Vangelo, senza cedere alla tentazione di evitarle per conservare la pace. Dobbiamo inoltre acquisire una maggiore disponibilità ad abbandonare situazioni comode e tranquille per dedicarci al servizio di quanti hanno più bisogno di noi».

La seconda sfida è quella della personalizzazione. Consiste «nel promuovere la crescita di ogni persona all’interno della comunità». In effetti, «l’autentica ricchezza di una comunità dipende dall’attenzione che viene prestata a ogni persona, nel rispetto dell’indole e dei bisogni di crescita e di sviluppo di ciascuno». Del resto, osserva p. Fleming, la regola di vita della congregazione ricorda che con l’espressione “vita comune” non si deve intendere “uniformità”. Bisogna piuttosto «rispettare le differenze personali dovute al temperamento, all’età, alla salute, alla cultura e alla diversità delle forme di apostolato esercitato».

La terza sfida è la diversità. Il primo fattore a caratterizzarla è l’età. Osserva in proposito p. Fleming: «Dobbiamo imparare ad ascoltare, a lasciarci arricchire da persone appartenenti ad altre generazioni, con un bagaglio di esperienza e di formazione diverso dal nostro. Dobbiamo rispettare il cammino da loro fatto e i compiti particolari che hanno segnato le tappe della loro vita. La comunità più ricca è certamente quella plurigenerazionale».

Un altro fattore di diversità è costituito dalla cultura, presente oggi nelle comunità internazionali e interculturali. Una verifica a questo riguardo porterebbe a «scoprire che troppo facilmente siamo portati a considerare uguali cose simili senza accorgerci che segni e comportamenti apparentemente analoghi possono assumere significati diversi col variare del contesto culturale».

C’è poi la diversità del temperamento e tutti sanno quanta fatica si faccia ad andare d’accordo con coloro che hanno un modo di affrontare i problemi diverso dal nostro. In una parola, «le nostre comunità potranno crescere se sapranno riconoscere questa autentica e ricca diversità che esiste tra noi, rispettando e onorando le esigenze e lo stile di ciascuno».

La quarta sfida riguarda l’equilibrio, continuamente da scoprire e realizzare, tra la comunità provinciale e quella locale. Il rischio infatti è di chiudersi in se stessi dimenticando di guardare oltre il proprio contesto. Un altro rischio è di guardare all’appartenenza più ampia, trovando poi difficile impegnarsi con la propria comunità locale.

Altrettanto si può dire del rapporto – ed è la quinta sfida – tra il locale e il globale. Oggi non si può più ignorare che viviamo in un mondo globalizzato con i suoi aspetti positivi, come la facilità di moltiplicare i rapporti, le conoscenze, la solidarietà e l’aiuto reciproco, ma anche con i suoi lati negativi sulla vita della comunità. La mondializzazione infatti «può farci perdere le nostre radici locali, trasformandoci in turisti e vagabondi del pensiero. Attraverso gli schermi dei nostro computer possiamo essere portati a vivere mentalmente, spiritualmente, ideologicamente e sentimentalmente altrove. Assorbiti dal mondo virtuale, rischiamo di dimenticarci di coloro che ci vivono accanto, di esserne in qualche modo distratti e allontanati. Rischiamo di investire oltre misura tempo ed energie nelle conversazioni in linea, sottraendoli all’esercizio della presenza a Dio e alla preghiera, e alla conoscenza e all’amore di chi ci sta a fianco». In effetti, «oggi più che mai la costruzione della comunità locale esige una scelta consapevole. È un impegno di solidarietà basata sulla convinzione di fede che Dio ci ha chiamati a vivere insieme in autentica comunione, a crescere e ad apprendere, a servire e ad agire in modo interattivo, a radicarci saldamente in un determinato luogo e a sviluppare relazioni durature con i fratelli della nostra comunità e col popolo di Dio in mezzo al quale ci troviamo a vivere». Di qui la necessità di riflettere su come integrare il locale con il globale.

Una sesta sfida consiste nella testimonianza e nel diventare “artefici di comunione”: «È una sfida per noi, scrive p. Fleming, considerare la comunità come sorgente di crescita spirituale e lasciare che essa formi il nostro cuore. La comunità rimane sempre il miglior terreno per la formazione spirituale, non solo come luogo di “mortificazione per eccellenza”, ma anche come mezzo di irradiare gioia, suscitare amore e stima per la nostra vocazione... Le interazioni quotidiane della vita di comunità, piccole o grandi che siano, possono farci prendere coscienza della considerazione che dovremmo avere per gli altri e della necessità di sacrificarci reciprocamente per riuscire a creare un ambiente fatto di generosità e di profonda intesa. Vivendo gli uni accanto agli altri, nella pazienza e nel rispetto, animati dalla volontà di apprendere e di adattarci, di condividere tra noi gioie e tristezze, lotte e successi, possiamo diventare, come si è espresso in Vita consecrata Giovanni Paolo II, degli “esperti” o “artefici” di quella comunione di cui la Chiesa e il mondo hanno estremo bisogno».

Restano infine, le altre due sfide: quella della libertà «per riuscire a stabilire nella comunità un sano equilibrio tra libertà e fedeltà» e quella di uno stile di vita mariano, se si vuole che la comunità giunga a presentare nella Chiesa, dai molti volti, il suo volto caratteristico che è appunto il riferimento a Maria.

«Dobbiamo dedicare del tempo, conclude p. Fleming, alla riflessione sul nostro vivere in comunità: «Il semplice fatto di pensare a quanti condividono con noi la stessa vita ci aiuterà a uscire da noi stessi. Siamo onesti e veri quando riflettiamo e preghiamo per ciascun dei nostri confratelli. Gettiamo su di essi uno sguardo di interessamento personale, al di là della semplice tolleranza passiva. Guardiamoci negli occhi (almeno spiritualmente) e proviamo a rimuovere i giudizi infondati che possiamo avere su di essi... Sono (anch’essi) dei semplici esseri umani, con le loro speranze e i loro timori, i loro bisogni e le loro ansie, i loro talenti e i loro limiti, proprio come noi. Lasciamoli che siano esseri umani».

Agendo così, la comunità diventerà allora una “scuola di servizio del Signore”, imparando gli uni dagli altri, e “un’infermeria” dove ognuno con le sue debolezze e infermità, ha la possibilità di guarire o di alleviare la sofferenza. «Guardando insieme avanti – è l’esortazione finale di Fleming – ricordiamoci che siamo in missione e che possiamo fare grandi cose se lavoreremo uniti».

 

A. D.