LA MISSIONE IN UN MONDO DI VIOLENZA

MISSIONE E MARTIRIO

 

La missione oggi è diversa da quella degli ultimi due secoli. Dovrà sempre più unire annuncio evangelico e promozione della pace e della giustizia tra i popoli.

Gli atteggiamenti caratteristici sono quelli di Gesù, compresa la disponibilità al martirio.

 

La Chiesa fin dalle origini nell’esercizio della sua missione ha sempre conosciuto la persecuzione e la violenza. Gesù del resto l’aveva predetto. Meravigliarsi, pertanto, del fatto che questa realtà continui a riproporsi anche oggi sarebbe del tutto fuori luogo.

All’inizio di ogni anno, puntualmente, l’agenzia Fides pubblica i nomi dei martiri dell’anno appena trascorso. Nel 2004 ne sono stati segnalati una quindicina (cf. fuoritesto), ma la medesima agenzia rileva che nel solo Iraq sono stati almeno 88 i cristiani uccisi da gruppi integralisti islamici, dall’aprile 2003. Se poi si allarga ulteriormente lo sguardo, ci si accorge che la Chiesa continua a conoscere un clima di violenza, e spesso anche di persecuzione, in diversi paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America latina.

In una situazione del genere – che in passato remoto avrebbe fatto scoppiare guerre di religioni – ci si domanda quali devono essere gli atteggiamenti più idonei ed evangelici che deve assumere la missione.

Un’interessante riflessione su questo argomento è apparsa recentemente sul bollettino Sedos, a firma di Biju Kollakombil,1 indiano, il quale la violenza la conosce da vicino poiché nel suo paese da un po’ di anni il fondamentalismo induista ha preso di mira anche i cristiani e la Chiesa cattolica in particolare.

 

L’ESEMPIO

DI CRISTO

 

La Chiesa durante il suo pellegrinaggio sulla terra, osserva Kollakombil, è per sua natura missionaria (cf. Ad gentes 2). Essa rappresenta Cristo, il primo missionario di Dio e luce che illumina il mondo (cf. Lumen gentium 1). Pertanto la responsabilità della Chiesa è la stessa di quella di Cristo il quale ha compiuto la sua opera di redenzione nella povertà e in un clima di oppressione (ivi 8). Leggiamo nella Gaudium et spes: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore (1).

La nostra missione è la continuazione nel mondo dell’incarnazione. Cristo ha realizzato la liberazione dell’uomo proclamando la buona Novella, guarendo, liberando e perdonando i peccati (Lc 4,18-19) e alla fine dando la sua vita affinché il mondo potesse essere rimodellato secondo il disegno di Dio fino al suo compimento (cf. Gaudium et spes 2).

Le frontiere della missione del XXI secolo dovranno pertanto essere tracciate in maniera diversa da quelle degli ultimi 200 anni. Un aspetto rilevante sarà l’inseparabilità tra missione e liberazione.

Gesù ha versato il suo sangue in un clima di violenza e di rifiuto. La violenza pertanto dovrebbe aiutare i cristiani a scoprire tutte le dimensioni della missione alla luce della croce e della riconciliazione. Gesù nella sua missione ebbe a lottare contro la tentazione che voleva indurlo a essere un Messia diverso da quello che egli si proponeva (cf. Mt 4,1-11). Anche la missione che egli affidò alla sua comunità è sempre stata caratterizzata dal conflitto. Quella dei Dodici implicava di essere inviati come pecore in mezzo ai lupi (cf. Mt 10,16). Allo stesso modo, nel corso dei secoli la missione è sempre passata attraverso la persecuzione e il martirio. I discepoli, nella loro opera di evangelizzazione hanno affrontato con coraggio i poteri ostili del loro tempo (cf. At 4,8-12). Fin dai primissimi tempi del cristianesimo, il martirio divenne la quintessenza dell’eroismo e della fedeltà. Per causa di Cristo i cristiani sopportarono con gioia gli arresti, la tortura e perfino la morte. Gerusalemme a quel tempo era nota per mettere a morte i profeti. L’evangelizzazione avveniva nel segno della croce.

Per un missionario, l’ultima parola non è la sofferenza ma la speranza, vale a dire la risurrezione. Anche oggi la missione deve configurarsi a quella del primo missionario e dei primi missionari e il martirio dovrebbe essere il mezzo più idoneo per promuovere la pace e la non-violenza. Dio può chiedere ai suoi apostoli di sopportare con pazienza la discriminazione e gli abusi a causa di Cristo. Una Chiesa che cercasse di evitare la sofferenze avrebbe fallito la sua missione. Nell’attuale contesto storico la croce, la sofferenza e la persecuzione non sono realtà accidentali. Quando Gesù risorto apparve ai suoi discepoli, egli mostrò loro le ferite e queste furono una prova della sua identità. Fu per esse che i discepoli credettero (cf. Gv 20,20). Pertanto gli evangelizzatori, anziché andare alla ricerca di metodi più efficaci e di successo, di fronte alla violenza e ai conflitti dovrebbero scegliere la via del sacrificio e della croce.

 

DIALOGO

CON LE RELIGIONI

 

Un altro aspetto rilevante della missione oggi è non lo scontro, ma il dialogo. Questo si fonda sulla capacità di ascoltare gli altri e il desiderio di capirli. Il dialogo è l’arte di condividere le esperienze e le convinzioni, è l’espressione della reciprocità delle coscienze. La Gaudium et spes, scrive in proposito: «Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale» (16). Siccome il fondamentalismo e l’abuso di potere costituiscono i principali fattori di violenza nella società, la Chiesa dovrà unirsi alle altre forze per ridurre la tensione. Il fondamentalismo è una cieca adesione a un insieme di convinzioni al punto da escludere ogni altra veduta. Nel nostro rapporto con i fondamentalisti indù e musulmani, osserva Kollakombil, dobbiamo unire insieme il dialogo e la sfida dell’amore. I modi di vedere alternativi non devono essere condannati; essi non sono sbagliati ma solo incompleti. Tutte le religioni insegnano l’amore, la verità, la non violenza, la pace, ecc.

 

MISSIONE

COME RICONCILIAZIONE

 

Centrale nella missione della Chiesa è anche la riconciliazione degli individui tra loro e dell’uomo con Dio. L’evangelizzazione è la proclamazione simultanea della giustizia che libera e della riconciliazione. Il perdono è cruciale all’intero processo di riconciliazione. La guarigione e il recupero della pienezza di umanità avvengono solo se si è capaci di perdonare.

Riconciliazione è un termine che indica un cambiamento per il meglio dei rapporti tra persone o gruppi. In un contesto di violenza, di terrorismo e di conflitti la missione della Chiesa deve essere quella della riconciliazione tra i gruppi, la società e le nazioni. La Chiesa è sacramento di riconciliazione nel senso che invita giudei, greci e non greci, schiavi e liberi all’unità. Nel risolvere i conflitti essa partecipa al ruolo di mediazione di Cristo.

Una delle immagini più efficaci proposte dall’Antico Testamento a questo riguardo è il salmo 85,8-12 dove l’amore, la pace, la verità e la giustizia si intrecciano tra loro. Cristo ci ha comandato di perdonare anche in mezzo alla persecuzione, alla sofferenza e alla morte. Se i missionari vivranno una vita di perdono e di amore, allora potranno divenire delle isole di speranza in situazioni di conflitto. Il male deve essere vinto con il bene. I discepoli di Cristo devono obbedire al comando: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Mt 5,44).

I profeti sono chiamati a essere testimoni dell’alleanza di Dio in particolari situazioni, a invitare la gente alla conversione e a costruire una nuova società di uguaglianza, di pace e di amore. La profezia contribuisce ad affermare la vita. I profeti hanno la missione di sradicare la violenza e i conflitti. Ciò richiede conoscenza della situazione e anche discernimento, poiché, a volte, l’intervento può aggravare la violenza. Per esempio, nel corso della seconda guerra mondiale i vescovi olandesi protestarono contro la persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti e ciò provocò nuove vittime. I cristiani devono proclamare la buona novella della salvezza universale al mondo e anche la resistenza eroica a sistemi e forze di peccato e di morte.

 

MISSIONE

E CONTEMPLAZIONE

 

Molto importante per la misisone in un mondo di conflitti e di discordie è anche l’aspetto contemplativo. Ci sono dei missionari come Bede Griffith, Abhishiktananda e molti altri che hanno intrapreso la via della contemplazione nella loro vita missionaria. Essi ritenevano che l’evangelizzazione fosse una realtà inseparabile dalla contemplazione. Anche l’enciclica Redemptoris missio insiste su questo aspetto quando afferma: «Il missionario deve essere un contemplativo in azione» (891).

Siccome la Chiesa nel terzo millennio è chiamata proclamare la buona novella a un mondo immerso nella violenza, essa dovrà essere preparata ad accogliere le sfide di oggi. La persecuzione e la sofferenza non sono estranee alla sua missione. Cristo, e coloro che l’hanno seguito, hanno annunciato il Vangelo della pace e dell’amore alla società piena di tensioni del loro tempo. Il nostro compito pertanto è quello di discernere i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo e del Regno.

Per concludere, si può dire che la missione nel terzo millennio deve tornare alle origini e rivivere la storia della missione attraverso i tempi. Cristo, Verbo di Dio incarnato, ha reinterpretato la legge di Mosè e il sistema di giustizia dominante. Ha predicato un nuovo messaggio di giustizia, di perdono, di verità e di amore, non la vendetta e la legge del contraccambio. Gli apostoli pur in mezzo a enormi conflitti e persecuzioni hanno seguito l’esempio di Gesù.

Così deve essere anche oggi. Le cause fondamentali del prevalere di una cultura di violenza non sono altro che l’ingiustizia, la disuguaglianza e altri generi di oppressione. Il primo dovere del cristiano è pertanto di proclamare il vangelo di pace e di giustizia. Ma bisogna che la nostra proclamazione sia più convincente e credibile. Siamo chiamati a essere persone che mettono in pratica la Parola (Gc 1,22). Bisogna formare i missionari alla pace e alla non violenza. Se il cristiano diventa un segno di speranza e una fonte di ispirazione in una situazione di conflitto e in un tempo di diffusa violenza, allora la missione di Cristo diverrà più penetrante e coloro che sono raggiunti dalla violenza potranno scorger il volto di Cristo in queste loro difficili situazioni. A mano a mano che la violenza aumenta, Cristo e la sua Parola devono incarnarsi e identificarsi con le sofferenze umane. La semplice teologia dell’annuncio dovrà essere sostituita dal martirio, da missionari vittime, pionieri di pace e di non violenza. La preghiera attribuita a san Francesco “Signore fa’ di me uno strumento della tua pace...” potrà infondere coraggio e consolazione ai missionari che predicano il Vangelo in un contesto di violenza.

 

1 Violence and Christian Mission, in Sedos, novembre-dicembre 2004, pp. 280-287.