LA SITUAZIONE VISTA DA VICINO
IN TERRA SANTA
SPERANZE DI PACE
Quanto sia
insostenibile la situazione in Terra Santa e urgente il bisogno di pace appare
chiaro dal racconto che p. Gabriele Ferrari ci offre dopo un suo recente
pellegrinaggio. Non ci sarà pace nel mondo, finché non sarà risolta l’intricata
situazione in Medio Oriente.
In Terra Santa sembra che si stiano profilando speranze
di pace. Dopo la scomparsa di Yassir Arafat e l’elezione ad ampia maggioranza
di Abu Mazen, come presidente dell’Authority nazionale palestinese lo scorso 9
gennaio, il cammino si trova in un certo modo facilitato.
È venuta l’ora di riprendere da parte di Israele e
dell’Autorità palestinese la strada della trattativa e del compromesso politico
per raggiungere una pace giusta e duratura. L’aveva capito Rabin, ma è stato
ucciso da un oltranzista di Israele. Oggi, Abu Mazen parte con una carta di
credito che Arafat non aveva più: la sua dichiarazione che la violenza non è la
strada della pace. I problemi che egli eredita dal suo predecessore e che ha
trovato subito sul tavolo, sono molti e gravi. Sul tappeto ce ne sono almeno
cinque: determinare chiaramente e far accettare e rispettare i confini tra
Israele e la Palestina, far rientrare i profughi palestinesi, risolvere il problema
degli insediamenti ebraici nei territori palestinesi della striscia di Gaza e
della Cisgiordania (West Bank), trovare una soluzione condivisa con Israele e
Giordania per l’approvvigionamento dell’acqua in un paese assetato, e infine
elaborare e far accettare da Israele lo statuto di Gerusalemme, la città santa
contesa da entrambe le parti. Sono problemi oggettivamente difficili e
emotivamente pesanti che attendono un impegno coraggioso non solo da parte dei
due contendenti, ma anche da parte della comunità internazionale che deve
riconoscere che qui si trova il principale focolaio delle tensioni politiche
mondiali. La pace del mondo dipende dalla pace di questa terra. Non resta che
sperare che la nuova amministrazione americana se ne renda conto e riesca a
convincere la potente lobby ebraica degli USA che se non si arriva alla pace in
Medio Oriente, ogni altro tentativo e speranza di pace nel mondo sono destinate
ad arenarsi.
Per comprendere la drammatica situazione in cui versa
oggi questa terra – e quindi quanto ci sia bisogno di pace – occorre risalire
al 28 settembre 2000 quando una provocatoria visita dell’attuale primo ministro
israeliano Ariel Sharon, a quel tempo membro del Knesset, alla Spianata delle
Moschee, il più sacro luogo islamico, situato nella città vecchia di
Gerusalemme, faceva scoppiare la seconda intifada, parola araba che significa
scrollarsi di dosso, la rivolta popolare dei palestinesi per scrollarsi di
dosso il regime israeliano. Da allora la strada che conduce alla Terra Santa si
è fatta improvvisamente deserta, perché i pellegrini cristiani non hanno più
osato rimettere piede nella terra di Gesù. Azioni di terrorismo e ritorsioni
violente, attacchi dei kamikaze e rischi sulle strade rendevano pericolosi i
pellegrinaggi. Un vero peccato per chi non poteva più recarsi in pellegrinaggio
sulle tracce di Gesù, ma anche, e soprattutto, un’autentica sciagura per i
cristiani palestinesi che vivono in quella terra. Molti di loro, che traevano
il loro sostentamento dal lavoro indotto dai pellegrinaggi (hotel, negozi,
trasporti, produzione e vendita di souvenirs ecc.), si sono trovati da un
giorno all’altro senza lavoro. Nello stesso tempo la situazione politica del
paese, che si era fatta di nuovo pesante e insostenibile, spingeva tutti quelli
che potevano farlo a emigrare all’estero in cerca di pace, lavoro e sicurezza.
Le comunità cristiane di Palestina in questi anni sono andate così
assottigliandosi per la gioia degli israeliani che vedono realizzarsi il sogno
di essere padroni incontestati di una terra che è stata loro promessa da Dio,
ma che dalla sua nascita nel 1947-48 non è mai stata un possesso pacifico, che
anzi ha richiesto due guerre ufficialmente dichiarate e una continua difesa
militare.
PELLEGRINAGGIO
“NORMALE” e TRANQUILLO
Per due anni, ci dicevano i francescani, le case di
accoglienza dei pellegrini sono rimaste vuote, letteralmente vuote. Da un anno
a questa parte gli appelli dei responsabili delle comunità cristiane di Terra
Santa per la ripresa dei pellegrinaggi, hanno indotto un certo numero di
pellegrini a ritornarvi, anche se siamo ancora molto lontani dai numeri di
prima della seconda intifada. Anche noi missionari saveriani fino al 1999
avevamo in programma un pellegrinaggio per i partecipanti al corso annuale di formazione
permanente. Ma negli ultimi quattro anni siamo stati costretti a ripiegare su
un altro itinerario biblico, quello delle prime comunità cristiane in Asia
Minore sulle tracce di Paolo. Era anch’esso un pellegrinaggio interessante e
arricchente, ma non era certamente quello di Terra Santa.
Quest’anno in novembre abbiamo ripreso il pellegrinaggio
in Palestina. Prima della partenza, molti ci guardavano con una specie di
interrogativo, fatto di compassione e di curiosità: ma siete sicuri? non
correte troppi rischi? In realtà le notizie che giungono sui nostri schermi
televisivi non sono troppo incoraggianti. Ma c’è da ricordare che, come molta
della nostra informazione, esse puntano al sensazionale fino a cadere nella
parzialità e a diventare fuorvianti. Noi abbiamo fatto un gesto di fiducia e ci
siamo messi in strada. E siamo stati abbondantemente ripagati del nostro
coraggio. Certo, non si può recarsi ovunque, come in passato: la Samaria
rimane, ovviamente e non da oggi, off limits, ma gli itinerari consentiti sono
sicuri e non ci sono rischi. Lo ha affermato anche recentemente il nuovo
custode di Terra Santa, il francescano padre Pizzaballa (Evangelizzare, ottobre
2004, p. 76). Ritornati a casa, possiamo assicurare che si è trattato di
un’esperienza straordinaria, ricca di spiritualità e di gioia interiore, come
non potrebbe non essere un pellegrinaggio in Terra Santa, ma anche molto
tranquilla.
Certo la sofferenza del popolo palestinese è stata sempre
presente e ci ha accompagnato lungo tutto il viaggio. Ed è bene che così sia,
altrimenti si potrebbe rischiare di anestetizzare una sensibilità che invece
deve essere mantenuta viva e presente. Dalla Galilea, dove siamo stati tre
giorni pieni, alla Giudea dove siamo rimasti quattro giorni, più i tre giorni
di viaggio di andata e ritorno dall’Italia e di trasferimento dalla Galilea a
Gerusalemme, il viaggio si è svolto in presa continua sulla realtà del Paese,
la quale ha fatto da contrappunto all’ascolto della Parola di Dio che ci
riportava al tempo di Gesù.
I PELLEGRINI
SEGNO DI SPERANZA
La realtà sociale e politica che è sempre sotto gli occhi
è segnata dalla militarizzazione del paese, dai molti giovani militari armati
di kalashnikov che sono ovunque, dai check points dove si deve attendere che i
militari israeliani “si degnino” di venire a vedere i passaporti, un modo per
dire a tutti che chi comanda sono loro, anche se esiste un’Authority
palestinese. La paura degli israeliani si può palpare con mano. Essi presidiano
ogni punto del territorio nazionale, a cominciare dalle frontiere di entrata e
di uscita dal paese dove scrutano documenti e bagagli con una pignoleria che
supera ogni immaginazione ed esperienza. Anche noi ne abbiamo fatto
l’esperienza. Tutto questo indubbiamente potrebbe tenere qualcuno con l’animo
in ansia, ma non più di tanto un gruppo di missionari che quasi ovunque vivono
quotidianamente questo genere di rischi e di angherie.
Direi che questo è in certo modo quasi provvidenziale per
evitare che il pellegrinaggio si trasformi in una visita turistica, fatta di
curiosità e di shopping come in qualsiasi parte del mondo. Se uno riflette che
i palestinesi devono vivere sempre in questa tensione, allora è più facile
sopportare in solidarietà con loro queste miserie che per i pellegrini durano
solo pochi giorni.
La presenza di pellegrini, ce l’hanno confermato il
nunzio Pietro Sambi, il cancelliere del patriarcato latino di Gerusalemme e il
rettore del seminario patriarcale di Beit Jala, è il modo più efficace di
sostenere la speranza dei palestinesi oppressi dalla prepotenza degli
israeliani. Essi non si sentono più soli, perché vedono dei fratelli di fede
che vengono a trovarli, condividendo almeno un po’ le loro quotidiane
sofferenze. E il passaggio sereno e orante dei pellegrini attraverso le strade
della Gerusalemme antica e, in generale, di Israele può essere l’occasione di
seminare pace, diceva il nunzio apostolico, in un paese che la cerca, in modo
disperato e paradossale, con la forza delle armi.
LA PACE
TRA PAURE E SPERANZE
Purtroppo oggi Israele, in nome della propria sicurezza
minacciata dal crescente terrorismo, sta infliggendo una ferita molto dolorosa
al popolo palestinese e a tutta la terra di Gesù. Si tratta di quel muro di
otto metri di altezza che chiude i palestinesi dentro i loro territori e
impedisce loro di muoversi liberamente sulla loro terra. Il muro è visibile a
più riprese anche a Gerusalemme. È una “cosa orribile”! Lo dicono tutti, ma il
governo di Sharon non intende ragioni e per garantire la sicurezza del popolo
di Israele sta infliggendo un colpo durissimo alle possibilità di dialogo e di
pace. Si direbbe che Israele non si renda più conto che il terrorismo è l’arma
degli oppressi che non trovano ascolto e dialogo. Nessuno vuol insinuare che
esso sia giustificabile, ma ancora una volta bisogna andare alle cause del
terrorismo se si vuole trovare la strada giusta per sradicarlo.
«Non c’è bisogno di muri, ma di ponti», ha ripetutamente
detto il papa. Mai come oggi c’è bisogno di tendere la mano. Con la violenza non
si produce che violenza e qui lo si vede in modo inequivocabile. Non resta che
sperare che la parola di Giovanni Paolo II sia ascoltata.
COMUNITÀ CRISTIANA
E SUO RUOLO
La chiesa cattolica, in particolare il patriarcato latino
di Gerusalemme e la Custodia francescana di Terra Santa, che godono
dell’appoggio del mondo cristiano, è in prima linea nel sostenere il popolo
palestinese: quasi tutti i suoi membri sono parte del popolo palestinese e
quindi sente sulla sua pelle le sofferenza di questa terra. Il patriarca
latino, Michel Sabbah, è un uomo coraggioso che non esita a parlare e a
richiamare le autorità israeliane al rispetto delle persone e della loro
dignità. Le strutture della chiesa sono attente a sviluppare quelle attività di
promozione umana che sostengono questo popolo altrimenti discriminato nelle
strutture nazionali ebraiche. Ospedali, scuole, cooperative, costruzione di
case popolari, sono attività e imprese aperte a tutti per farli crescere e che
permettono a tutti i bisognosi di ricevere l’aiuto della carità che viene dal
mondo cristiano.
Il dialogo con il mondo musulmano è dialogo di tutti i
giorni e dialogo di vita che si ramifica capillarmente tra la popolazione.
Anche qui non mancano i problemi, ma è forse più facile dello stesso dialogo
ecumenico, le cui difficoltà sono plasticamente sotto gli occhi di tutti i
pellegrini proprio in quelle due basiliche che dovrebbero custodire l’unica
nostra fede, la basilica della Natività a Betlemme e quella del Santo Sepolcro
o della Risurrezione a Gerusalemme.
La chiesa cattolica è una chiesa che vive in frontiera e
fa molto piacere vedere che essa ha il coraggio di prendere la parola e, nello
stesso tempo, ha oggi numerose vocazioni al ministero presbiterale, al servizio
di queste popolazioni cristiane e per il servizio della pace nella terra di
Gesù. Sentendo alcuni responsabili parlare della situazione di tensione e
sofferenza di questa chiesa, non potevo che richiamare alla memoria la parola
di Paolo: “Tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; sconvolti, ma non
disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti m,a non uccisi” (2Co 4,8).
Questa è la chiesa che noi abbiamo visto e che il pellegrinaggio aiuta a
crescere pur in questa difficile situazione, come segno di speranza e di
salvezza per tutti.
Ma il dono più grande del pellegrinaggio lo abbiamo avuto
noi pellegrini che ci siamo resi, una volta di più, conto che non seguiamo uno
dei tanti ismi del nostro tempo, una dottrina e meno ancora un’ideologia tra le
altre. Abbiamo sentito risuonare la domanda del Signore ai primi discepoli:
“Che cosa cercate?” Ci siamo sentiti al seguito e alla ricerca di una Persona
viva, di Uno che ha saputo esprimere un amore talmente straordinario anche
nella peggiore delle situazioni da valicare le porte della morte e risorgere,
una Persona che in Terra Santa ha lasciato delle tracce che ancora oggi si
possono percepire. Una Persona che ci ha promesso di essere con noi tutti i
giorni fino alla fine del mondo e anche fino agli estremi confini della terra:
Gesù di Nazareth, il Cristo di Dio, il regno di Dio in mezzo a noi.
Gabriele Ferrari sx