CORSO DI FORMAZIONE DELLE SALESIANE
PER UN’ECONOMIA SOLIDALE
Le partecipanti al
corso di formazione, tutte con l’incarico di econome ispettoriali, provenivano
dall’Europa, America latina, Africa, Antille, Asia. La riunione ha avuto luogo
a Roma presso la curia generale, e ha potuto valersi del contributo di numerosi
esperti del settore.
Come sviluppare un’economia solidale e come coniugare
l’economia con la solidarietà e lo sviluppo sostenibile? Quaranta econome
ispettoriali salesiane, in un corso di studio, concepito come momento di
formazione permanente all’interno della programmazione 2003-2008 dell’istituto,
hanno riflettuto su questi interrogativi mettendo a tema: Una nuova visione di
economia per una cultura della solidarietà e uno sviluppo sostenibile.
Gli incontri hanno visto la partecipazione, tra l’altro,
di vari esperti di economia: Andrea Saroldi, che ha parlato di Economia
solidale, consumo critico, commercio equo e solidale; Ferruccio Marzano,
Riccardo Moro e mons. Paolo Tarchi che hanno sviluppato il tema Finanza
internazionale ed agire morale; Soana Tortora ha illustrato La rivoluzione
delle reti solidali e La strada del lavoro autonomo e associato. Nel corso dei
lavori si è riservato ampio spazio alle esperienze di microcredito. Inoltre
alle econome ispettoriali è stato presentato un glossario di quei verbi come
agire, conoscere, conservare, controllare, coordinare, dare relazione,
dipendere, orientare, testimoniare, e, infine, amministrare nella sua accezione
di “avere cura”, “distribuire con oculatezza”, “sapersi regolare” che
accompagnano quotidianamente il loro servizio.
ALCUNE
DOMANDE PRECISE
L’economa generale, suor Candida Aspesi, con le sue
collaboratrici, ha affermato che si è trattato di un iter che ha posto delle
domande precise: cosa sta dietro alle nostre scelte economiche e come possiamo
portare all’interno di queste rispetto e solidarietà verso il genere umano? A
darne una prima risposta è la stessa economa generale che ha affermato: «Ci
troviamo a occuparci di economia solidale perché questa è un paradigma di
trasformazione, che racchiude sia esperienze pratiche che affermazioni di
principio che orientano la prassi. L’economia solidale è una collezione di
pratiche che riguardano vari aspetti, tra cui i servizi e il consumo».
Del consumo critico ha parlato Andrea Saroldi come di un
«atteggiamento costante di chi si chiede cosa sta dietro al prodotto che sta
per acquistare, quale è il suo carico sociale e ambientale».
L’economista ha citato il turismo responsabile,
l’ecologia quotidiana, il risparmio etico e i ‘’bilanci di giustizia’’
praticati da famiglie «’intenzionate a rivisitare criticamente i loro
consumi»’, dimostrando che «è possibile revisionare i propri stili di vita e di
consumo nel senso della sostenibilità e che in questo modo migliora anche la
qualità della propria vita».
Si tratta di cercare una solidarietà strutturale e delle
trasformazioni della società che superino gli attuali problemi di ingiustizia
strutturale racchiusa in alcuni meccanismi, per sostituirli con altri che siano
strutturalmente solidali. E ha individuato in quattro domande (di natura, di
giustizia, di benessere e di senso) i problemi aperti dell’attuale situazione
economica.
QUESTIONI
ANCORA APERTE
La nostra società – ha detto – sta contaminando il
pianeta «perché utilizza più risorse naturali rispetto a quelle che la terra
fornisce in modo rinnovabile, ed emette più inquinanti di quanto la terra può
assorbire». Ciò alimenta «un ambiente degradato e compromesso e mina la base
naturale della nostra esistenza». La domanda di giustizia parte da un dato di
fatto: il consumo di risorse ed i livelli di vita sono distribuiti in maniera
«squilibrata» sul pianeta. Il 20% della popolazione consuma l’80% delle
risorse. Ci sono sulla terra 2,8 miliardi di persone che vivono con meno di due
dollari al giorno, e 1,1 miliardi sono malnutrite.
«Intorno a noi abitano popolazioni sempre più povere,
costrette a condurre una vita di sopravvivenza». La domanda di benessere
esplode dai paesi più ricchi dove le persone «non sono più felici», commenta
Saroldi. Anzi «l’ulteriore possesso di beni non migliora ma peggiora la qualità
della vita di una comunità». Collega poi la domanda di senso all’identità di
una comunità, ai suoi valori, alla possibilità di sviluppare delle relazioni e
alla capacità di fornire alle nuove generazioni una speranza per il futuro. Per
questo – ha aggiunto - la strategia più efficace per far fronte alle quattro
problematiche è «la costruzione di reti», ossia dei circuiti di scambio tra le
diverse esperienze di economia solidale che riguardano il consumo, la
distribuzione, la produzione e i servizi.
Sono le «reti di collaborazione solidale», ha detto Soana
Tortora, di quel lavorare insieme sviluppando forti vincoli morali «nei
confronti della vita, degli interessi e delle responsabilità di un gruppo
sociale, di una nazione, della stessa umanità». Ciò indica una relazione «di
responsabilità fra persone unite da interessi comuni» dove «ogni elemento del
gruppo si sente moralmente obbligato ad aiutare gli altri». La collaborazione
solidale implica così «un lavoro e un consumo condivisi il cui vincolo
reciproco fra le persone si manifesta con un sentire morale di
corresponsabilità per il bem-viver di tutti».
Il bem-viver – ha spiegato Tortora – è «l’esercizio umano
di disporre delle mediazioni materiali, politiche, educative, e informative non
solo per soddisfare eticamente le necessità biologiche e culturali di ciascuno,
ma per garantire, sempre eticamente, la realizzazione di tutto ciò che può
essere concepito e desiderato per una libertà personale che non neghi quella
collettiva».
Il bem-viver solidale comporta «il rispetto del desiderio
personale e la promozione della sua realizzazione nella stessa misura i cui si
rispetta il desiderio collettivo e se ne promuove la realizzazione». La
«collaborazione solidale» è sia «un’attitudine etica» che orienta la nostra
vita che «una posizione politica di fronte alla società in cui siamo inseriti».
Il consumo, come risposta per disporre di quelle mediazioni materiali che
garantiscono la nostra libertà personale, diventa la «principale via di
mediazione per il bem-viver». E nel momento in cui non si considera solo il
proprio bem-viver ma anche quello collettivo come salvaguardare l’occupazione,
ridurre le giornate di lavoro, non sfruttare il lavoro minorile, preservare gli
eco-sistemi, garantire i servizi pubblici non statali – ha sottolineato Tortora
– «l’opzione si orienta verso il consumo solidale».
Per chi ha una coscienza solidale, un ambito di impegno è
appartenere a «reti di collaborazione solidale». Queste, attraverso la scelta
di certi prodotti e servizi, promuovono la distribuzione del reddito, lo
sviluppo ecologicamente sostenibile, la creazione di posti di lavoro e la lotta
allo sfruttamento. Si auspica così una nuova società post-capitalistica,
centrata non solamente sul consumo solidale, ma anche sul consumo fatto nella
prospettiva del bem-viver.
RELIGIOSI/E
E CONSUMO CRITICO
«Anche le religiose e i religiosi devono operare per un
consumo critico e risparmio trasparente». È l’invito formulato dal responsabile
dell’Ufficio della Cei per i problemi sociali e del lavoro, mons. Paolo Tarchi.
«In passato dicevamo che un modo di partecipare alla vita sociale era
sostanzialmente l’esercizio del voto, oggi non basta». Di questo protagonismo
stanno emergendo altre «due dimensioni: il consumo e il risparmio». Si tratta
di altri due modi con cui «possiamo determinare le scelte anche di
macroeconomia e di finanza». Il consumo critico – ha continuato mons Tarchi – è
un «nuovo modo intelligente che sta crescendo nella sensibilità del cittadino
per potere votare, attraverso l’acquisto dei prodotti, quelle imprese in base
al merito» che hanno «la tracciabilità del percorso trasparente» e in ogni
passaggio della produzione si possa riconoscere che «sono stati rispettati i
valori», in modo particolare quelli che riguardano la persona umana, cioè
dignità e lavoro.
Un terzo elemento in possesso dei singoli cittadini «e
anche nelle mani delle vostre comunità è la scelta a chi affidare i vostri
risparmi». Per fare questo la domanda necessaria è di «chiedere sempre e di più
agli istituti di credito di essere trasparenti nei loro investimenti». Non è
più sufficiente «l’etica della finanza» è indispensabile pure «l’etica nella finanza».
La prima richiama quegli atteggiamenti deontologici che ogni professione è
chiamata ad assumere come «la trasparenza, l’onestà, tutte qualità certificate
dai codici che le singole banche si danno. Se è necessaria questa deontologia
non è sufficiente, occorre che esistano dei valori verso il quale le risorse
finanziarie vengano orientate».
Se i risparmi, consegnati a una banca, alimentano il
commercio delle armi, delle droghe o di quelle realtà che non rispettano la
persona umana, non è più sufficiente che gli operatori di quella banca abbiano
fatto procedure corrette, «sono le finalità che non sono buone dunque chiedono
a noi di intervenire». In questo modo parliamo non solo di «etica della
finanza» ma anche di «etica nella finanza», cioè «della prospettiva che questi
hanno», se sono «a favore di uno sviluppo reale». Tutto ciò significa «chiedere
la trasparenza dell’utilizzo dei risparmi che voi affidate alle varie banche.
Se questi li utilizzano per paradisi fiscali diciamo che questa banca non rispetta
dei criteri valoriali. Spostiamo quindi il capitale in banche che hanno tali
criteri». È ovvio che queste dimensioni aprono nuovi scenari di protagonismo
dal basso di cui oggi le democrazie hanno bisogno, ad esempio il microcredito.
Questa attività finanziaria può essere considerata il «nuovo strumento di lotta
alla povertà», ha detto Francesco Meneghetti, una nuova «risorsa finanziaria»
per i poveri. Si tratta di un prestito concesso a una persona bisognosa ma
impossibilitata ad accedere al sistema bancario tradizionale. Sono persone in
grado di offrire le proprie esperienze lavorative e che non hanno bisogno di
assistenzialismo, che invece indebolirebbe la loro dignità umana. Lo strumento
del microcredito consente prossimità, conoscenza diretta della vita delle
famiglie e dei loro problemi, della comunità d’appartenenza.
E su questa linea avanzano mirate scelte concrete
dell’economia, in particolare il microcredito e la microeconomia, che le Figlie
di Maria Ausiliatrice considerano trasversale alla vita e all’educazione. È il
caso della Corea con la cosiddetta Banca Scolastica per abilitare al risparmio
e all’uso del denaro. Oppure di microeconomie a livello di coltivazioni e
allevamento o di allestimento di fattorie per il tirocinio pratico delle ragazze
e delle donne, in particolare a Shillong, in modo da operare nei villaggi di
appartenenza. E, ancora, in India ma anche in America latina la fabbricazione
di borse, zaini, ombrelli e capi di abbigliamento. Spesso queste microeconomie
sono collegate a progetti di sviluppo – commenta suor Candida Aspesi – che
innescano un cambiamento di mentalità e potenziano gruppi di donne nei villaggi
e nelle località più svantaggiate. Tutto ciò vuol dire «assumere la solidarietà
come criterio di gestione dei beni comuni».
Maria Trigila