I MISSIONARI DELLA CONSOLATA VERSO IL CAPITOLO
GUIDATI DAL CAFASSO
Senza ignorare gli
sviluppi della spiritualità sacerdotale e missionaria di oggi, i missionari
della Consolata, scegliendo come protettore san Giuseppe Cafasso, intendono
tornare alle origini del loro carisma lungo i sentieri tracciati dal fondatore,
il beato Allamano.
Da un po’ di tempo è diventato quasi uno slogan nella
riflessione sull’attuale crisi della vita consacrata l’invito a “scavare nuovi
pozzi”. Lo si è sentito ripetere anche nel corso del congresso internazionale
dello scorso mese di novembre (cf. Testimoni 21/04). Ciò non significa tuttavia
che i “pozzi” già esistenti e a cui hanno abbondantemente attinto le
generazioni passate siano diventati secchi. Da alcuni di essi, anzi, continua a
scaturire acqua fresca e corroborante a cui è possibile continuare ad attingere
“con gioia”. Una prova ce la danno i missionari e le missionarie della
Consolata che, per il 2005, anno in cui sarà celebrato il loro XI capitolo
generale, hanno scelto come protettore san Giuseppe Cafasso, che tra l’altro
era anche zio del loro fondatore, il beato Allamano.
In una lettera all’istituto, padre Piero Trabucco,
superiore generale, ne spiega la ragione e ripercorrendo le grandi linee della
spiritualità del santo si domanda: «Continuiamo a dissetarci alle sorgenti
genuine del suo carisma? Il nostro zelo missionario continua ad alimentarsi a
quello “spirito” che il beato Allamano diceva essere “suo”»?
IL SERVIZIO DI DIO
UN ESERCIZIO DI AMORE
Nei suoi scritti1 – scrive p. Trabucco – il Cafasso
concepisce la vita spirituale come un esercizio di amore, concretizzato nel
servizio di Dio. Con l’espressione “servizio di Dio”, egli intende che una
creatura debba mettersi di fronte a Dio quale fondamento della propria
esistenza, senza mai perdere di vista la sorgente da cui attingere le risorse
necessarie per realizzare la propria esistenza e l’obiettivo ultimo che dà
orientamento ad ogni umana attività, soprattutto apostolica. Ecco come egli
stesso spiega questo principio, in una meditazione al clero:
«Io sono sulla terra non per altro che per servir Dio,
questo è il solo scopo quaggiù... Tutto il rimanente è un bel niente per me;
Dio, la gloria, gli interessi suoi, la salute delle anime ecco l’affare che
deve occupare, che deve assorbire tutti indistintamente i miei giorni, anzi i
movimenti del viver mio. Io vi sono unicamente per Dio, dove egli ne guadagna,
lo vogliono i suoi interessi, il suo amore... Il servo è un uomo cioè, un
personaggio ceduto, venduto, consacrato e dato interamente agli interessi di
Dio, un uomo che da mattino a sera e in tutte le maniere lavora per l’onore,
per la gloria di Dio, e ciò forma tutta la sua occupazione».
Mancando questa chiarezza, spiega ancora il Cafasso, il
sacerdote si trasforma in «una cosa informe, snaturata e mostruosa». E
aggiunge: «Così siamo noi sulla terra, se ci scostiamo dal nostro fine,
diventiamo tanti instrumenti inutili, tanti arnesi da imbroglio in questa
grande officina della terra e niente più». Narra il biografo che sul letto di
morte, ricevendo i sacerdoti del Convitto, il Cafasso ripetesse con forza: «Il
sacerdote senza Dio è niente!».
Questo servizio di Dio, lontano dall’essere soltanto
sentimento, si trasforma in sorgente di «impegno, una cura, una ansia continua
di servir Dio; tutto il rimanente vada come vuole, poco importa, purché si
serva Dio».
LA VOLONTÀ
DI DIO
Secondo il Cafasso «tutta la santità, la perfezione e il
profitto di una persona sta nel far perfettamente la volontà di Dio, cioè a
dire in queste due cose: primo, nel fare ciò che Dio vuole da noi, secondo, nel
farlo in quel modo che egli vuole che sia fatto: più di questo mi pare che non
vi sia, e che non si possa né domandare, né desiderare».
La sua dottrina sulla santità e sulla perfezione cristiana
è molto chiara e precisa. Essa prende le mosse, innanzitutto, dal fondamento di
ogni cosa che è Dio e il suo “servizio”. Cerca poi la via che meglio possa
condurre ad adeguare la propria esistenza a quella di Dio. La trova nel fare
sempre e ovunque la volontà di Dio.
Questa conformità alla volontà di Dio non è, come spiega
diffusamente il Cafasso, semplice adesione intellettuale a ciò che Dio vuole da
noi. Essa implica parecchi atti, come il riconoscimento del dominio di Dio su
di noi, l’atto di fiducia nella sua bontà, e soprattutto l’atto di amore.
Infatti «il carattere e contrassegno del nostro amore verso Iddio sta nel
conformarci pienamente a tutti i suoi voleri e alla sua volontà; l’abbiamo già
detto che l’amore rende gli amanti simili tra loro».
L’aderire sempre e ovunque alla volontà di Dio porta
lentamente la creatura a identificarsi con il suo Creatore.
È questa la chiave di volta di tutta la sua spiritualità
e la logica conseguenza degli aspetti precedentemente accennati. Chi infatti
pone Dio a fondamento della propria esistenza e cerca di amarlo facendo in
tutto la sua volontà, troverà nel dovere quotidiano, vissuto con impegno, la
via regale e l’espressione più consona per raggiungere la santità.
La valorizzazione del dovere quotidiano in ordine alla
santità non è un elemento originale del Cafasso. È stato san Francesco di Sales
che ha saputo propagandarlo in maniera originale e con grande efficacia. Merito
del Cafasso è stato invece quello di rendere questa dottrina alla portata di un
grande numero di persone, principalmente tra il clero. A chi gli chiedeva che
cosa fosse necessario per farsi santo, rispondeva: «... Non bisogna già aver
fatto miracoli, non è già necessario aver fatto grandi digiuni, gran penitenze,
come hanno fatto tanti santi, guai a noi, e chi potrebbe salvarsi?». E spiegava
più dettagliatamente, in un testo divenuto classico:
«Io intendo per santo, e lo è realmente quel sacerdote
che si occupa di ministeri, in azioni proprie del suo stato, anche comuni e
ordinarie, non solo si occupa, ma procura e fa quanto può per farlo bene. Qual
è la vita del buon sacerdote, come passa i suoi giorni? Prega, celebra, studia,
confessa, predica, istruisce, consola, consiglia, visita, si solleva, ecco la
tela delle occupazioni di un buon sacerdote: niente di straordinario, niente di
rumoroso, tutto comune, ordinario, e triviale per dir così; ebbene tutto questo
distribuito con ordine, con prudenza, giusta le circostanze, ed i bisogni del
tempo, del luogo, delle persone, fatto bene basta a far la persona santa, così
un secolare, un padre, una madre, così anche un sacerdote».
Nella sua predicazione il Cafasso combatte la smania che
tante persone hanno di ricercare soltanto le cose grandi e straordinarie,
qualificando questo atteggiamento come «una grande e funesta illusione». E
motiva così il suo convincimento:
– ogni persona ha la sua peculiare via per raggiungere la
santità. Pochi sono coloro che si sentono chiamati a compiere azioni strepitose
e i miracoli. Numerosissimi sono invece coloro che sono chiamati a percorrere
la via ordinaria del dovere quotidiano, compiuto per Dio e per i fratelli, con
prontezza, esattezza e perseveranza.
– Le cosiddette “azioni straordinarie” nella vita di una
persona, a ben pensarci, sono poche. Esse non potranno mai costituire il
tessuto vero della vita umana.
– Anche il senso comune suggerisce di non puntare tutte
le nostre forze su alcuni momenti speciali della vita e trascurare il resto.
Guai alla vita spirituale che non si dà cura degli impegni quotidiani per
mettersi alla ricerca esclusiva dello straordinario!
Il Cafasso conclude poi, ripetendo con insistenza, che
questa via di santità è facile, alla portata di tutti e praticata da tante
persone.
LA SOLITUDINE
CONTRO L’ISOLAMENTO
La lunga esperienza che il Cafasso ha avuto nella
direzione spirituale del clero, lo ha reso molto attento al pericolo
dell’isolamento in cui sovente i sacerdoti vengono a trovarsi. Non solo perché
i sacerdoti diocesani vivono spesso soli nella parrocchia, ma anche perché qualsiasi
sacerdote, una volta iniziato il suo ministero, non trova più generalmente un
accompagnamento fraterno nella sua vita pastorale e spirituale. Pochi sono
vicini a lui quando sbaglia o nel bisogno, rari sono coloro che sono pronti a
correggerlo fraternamente, i superiori conoscono forse poco della realtà
concreta della sua vita, persino i confessori sono restii a dirgli sempre la
verità perché pensano: è un sacerdote e conosce come comportarsi.
A questa situazione del sacerdote, che il Cafasso
descrive in maniera molto realista, viene suggerito come antidoto l’amore alla
solitudine. La solitudine – spiega il Cafasso – dona al sacerdote la capacità
di entrare in se stesso e vigilare sulla propria vita. Essa è forza in quanto
aiuta il cammino spirituale: «L’unione con Dio, la purità di coscienza,
l’esemplarità della vita, che sono così proprie del sacerdote, è inutile
sperarle, cercarle fuori del ritiro e della solitudine». E spiega anche come la
solitudine non sia ostacolo all’attività, anzi ne costituisca la forza
generatrice: «Fratelli miei, dimentichiamoci mai che la nostra vita consiste
più nello spirito che nelle opere; le opere valgono secondo lo spirito.
Togliete, diminuite in un ecclesiastico lo spirito interno e proprio del suo
stato, e voi togliete, diminuite a proporzione il valore delle opere».
La solitudine non è semplicemente la capacità di “entrare
in se stessi”. Essa esige anche momenti di vero “distacco” dalle attività
quotidiane, luoghi di solitudine, «in cui come in porto tranquillo tu possa di
tanto in tanto ricoverare dal gran torrente degli affari che ti opprimono». Ma
di che cosa si deve poi riempire questa solitudine? Di esame di se stesso, di
meditazione e lettura spirituale, di formazione apostolica con studio costante.
INTENSA VITA
DI PREGHIERA
Penso che siano sufficienti alcune citazioni per farci
comprendere la fondamentale importanza che il Cafasso attribuisce alla
preghiera nella vita del sacerdote.
«Tra i mezzi che hanno da concorrere per formare
dell’ecclesiastico quell’uomo speciale nel mondo, uno specchio delle divinità
sulla terra, un uomo interno, spirituale, e separato quale egli è dagli
imbrogli del secolo, e consacrato interamente agli interessi di Dio, più divino
che umano, oltre il ritiro vi deve entrare necessariamente l’orazione».
«S. Alfonso, prosegue p. Trabucco, soleva ripetere che
chi prega si salva, e chi non prega si danna. Io ripeterò lo stesso: il
sacerdote che prega siate certi che diverrà buono, e virtuoso, e si salverà; ma
se non prega, sia pur un uomo di fatica, di studio, di scienza, ma io temo
della sua virtù e bontà; e temerò ancor più della sua salute».
Afferma il Cafasso che esiste un parallelismo tra impegno
nella preghiera e cammino di santità. La preghiera infatti non solo porta la
persona a conoscere maggiormente Dio ma a possederlo, realizzando con lui
un’unione profonda:
«L’orazione l’avvicina e lo stringe talmente che quasi
l’incarna con Dio. L’orazione gli mostra a trattare, a conversare con questo
Dio; l’orazione infine gli attira tutti quegli aiuti, lumi, e conforti che sono
necessari da Dio».
Egli consiglia al sacerdote che vuole raggiungere
l’autentico spirito di orazione di immergersi con tutto il suo essere (spirito
e corpo, volontà e cuore) in Dio fino a poter dire che “vede Dio”, “gli parla”,
“lo gusta e lo vede”, “lo abbraccia”. Allora egli comprenderà che cosa
significa “famigliarità” con Dio e l’ingiunzione di Gesù di pregare sempre,
senza interruzione.
A chi desidera intraprendere con successo un vero cammino
di preghiera, il Cafasso suggerisce di prendere in considerazione tre aspetti:
1. Distacco e ritiro dal mondo. È questo non solo
uno dei cardini della sua dottrina spirituale, ma anche la condizione
indispensabile per una persona che voglia avviarsi verso lo spirito di
orazione. Il nostro cuore o pulsa per Iddio o per il mondo: bisogna fare una
scelta chiara e decisa. Infatti la preghiera non può coesistere con la
mediocrità e il peccato, con i compromessi e lo scarso impegno.
2. Pratiche di pietà. A chi obietta che la vera
pietà non può consistere in esercizi esterni, il Cafasso così risponde: «È
vero, signori miei, che la vera religione, la sostanza non consiste in queste
pratiche esterne, ma io temo che quando manchi al di fuori, manchi anche al di
dentro. E suggerisce che ogni sacerdote abbia, nel corso della sua giornata, «i
suoi tempi fissi per la preghiera» e che «al riguardo nessun motivo che sembra
contrapporsi vale a farsi dispensare da questi impegni di ogni giorno».
3. Riflessione e meditazione. Tanta è la
considerazione del Cafasso per questo esercizio che non dubita ad affermare con
forza: «mostratemi l’arte di far pensare seriamente, di far riflettere i
sacerdoti, e io ve li darò tutti santi».
«San Giuseppe Cafasso, – conclude p. Trabucco – con la
testimonianza della sua santità apostolica, ci sproni nel nostro impegno di
camminare verso quella perfezione di vita che resta sempre la premessa
indispensabile affinché ogni evento importante della nostra famiglia possa
portare frutti visibili. Susciti in tutti noi il desiderio di rivisitare le
radici spirituali e carismatiche che il nostro beato fondatore ci ha dato...».
1 Le fonti a cui sono attinte le citazioni sono
soprattutto le due opere: Cafasso, Meditazioni spirituali al Clero –
meditazioni, Effatà editrice, 2003; Flavio Accomero, La dottrina spirituale di
s. Giuseppe Cafasso, LDC, 1958.
IL DIREE IL FARE
Accogliere con animo disponibile e benevolo le parole
delle assemblee e le delibere dei vari capitoli è senz’altro dovere dei
religiosi. Accogliere per mettere in pratica. Ma oggi il consacrato – messo in
guardia dal proliferare delle parole – si interroga giustamente: “Quali parole
e come sono comunicate?”. Sente che dovrebbero essere armonizzate sul modo di
procedere della parola di Dio: vale a dire in grado di “incarnare” un progetto
rispondente alle attese dell’uomo storico, interpretare i tempi, indicare
cammini. Parole che sollecitano e attraggono all’ascolto perché sentite
concretamente rispondenti al proprio carisma, rivelatrici di un progetto che
merita di essere preso in considerazione perché effettivamente sintonizzato sui
bisogni della chiesa e della cultura della nostra epoca.
Mancando queste parole si ha una povertà di proposte
innovatrici da una parte, e una sotterranea sordità di risposte dall’altra. Al
termine di questo processo si hanno parole che si scrivono sull’acqua dei
documenti e si disperdono al vento della prassi e la vita va avanti come prima,
con le vecchie parole che ormai non dicono più nulla di nuovo e di eccitante.
Risuonano vere le parole di Marx: «Una teoria senza influsso sulla prassi è
vuota. Una prassi che non sia illuminata e orientata dalla teoria è non-senso».
LA MARCIA
AL MINIMO
Ma, in questa situazione, la vita religiosa è ancora
provocatoria nella grande comunità del popolo di Dio e nel contesto culturale e
storico? Forse – al di là delle solenni affermazioni di principio – noi
religiosi (come singoli e come comunità) stimiamo sufficiente il “fermarsi al
senso minimo” della nostra identità e missione. Riteniamo comodo – e lo è senza
dubbio – fare tanto quanto basta per risciacquarci la coscienza e per non
esporci troppo oltre il minimo necessario, fare quanto possibile e
“politicamente” corretto per apparire agli occhi della gente come “consacrati”
che fanno “il loro dovere”, però ben al sicuro nelle mura del “centuplo” in
questa vita. Mentre spesso si ammannisce agli altri la frase (con tanto di
citazione dell’autore che fa tanto “cultura”) “Finché si è inquieti si può
stare tranquilli”, molte volte noi religiosi abbiamo l’aria di stare tranquilli
senza nessuna inquietudine.
Non possiamo non riconoscere – se siamo onesti – che
troppe volte vi è tra noi un’insensibilità di fondo di fronte ai temi radicali,
sia della società (al massimo sono oggetto di più o meno distese discussioni a
tavola o dopo cena) sia della congregazione e della comunità, se sono tematiche
che non toccano e scuotono più di tanto il nostro personale stato di religioso
rilassamento. E non possiamo non constatare – sempre se siamo onesti – che
spesso si manifesta tra di noi un’incapacità di ascolto di fronte ai temi di
alto profilo, che mettiamo presto da parte (dopo averli subiti con fastidio),
mentre temi di “varia e spicciola umanità” (pettegolezzi, sport, spettacoli)
calamitano un’appassionata attenzione.
PARLARE
NON È COMUNICARE
In questa situazione non siamo più capaci di “parlare”
per dire cose profonde: predomina la chiacchiera, anche là dove sarebbe
auspicabile prima l’ascolto attento, poi il silenzio riflessivo e poi
(eventualmente) il dire motivato. Si resta spesso alla superficie della
questione perché non la si è “contemplata” nel quadro generale. E allora le
parole, non essendo appunto pensate, restano tali e non diventano indicatrici
di strade percorribili, di concreti traguardi possibili.
Si diceva che accogliere con animo disponibile le parole
delle varie assemblee e dei capitoli è dovere dei religiosi. Ma ci si chiedeva
pure quali parole e come sono comunicate. Ora la comunicazione se è vera,
concreta, “profetica” deve essere capace di penetrare nella vita delle persone
e delle comunità, intercettando i loro problemi, svegliando le loro
potenzialità, tracciando itinerari condivisibili per la loro missione e il loro
futuro.
Naturalmente – aggiungiamo subito – occorre anche la
buona volontà di “lasciarsi comunicare”: qui si tratta di una relazione di
“simpatia” che si instaura, da una parte sul desiderio di rivelare e rivelarsi
(quanti adombramenti dietro certe “comunicazioni!) e dall’altra sulla benevola
e affabile accettazione, senza pregiudizi, delle parole. E si avverte che esse
non sgorgano dall’obbligo istituzionale di dire qualcosa quando rivelano che si
sono compresi i segni del presente, attraverso i quali si vede il disegno della
storia che Dio sta tracciando per il futuro dell’istituto e delle comunità.
Sono del parere che sempre, ma soprattutto oggi, le
parole esortative (staccate da un contesto esistenziale seriamente conosciuto),
le parole sentite e risentite (legate a principi validi, ma non sentiti
operanti nella vita), le parole apodittiche (che fanno appello a una generica
buona volontà e a un carisma non percepito o dimenticato nella sua realtà
quotidiana) non trasmettono alcuna passione per la vita e la missione del
religioso. Non sono recepite come veicolo di dialogo, di relazione, ma sono
captate – al di là delle intenzioni del mittente – come un monologo. E recenti
sondaggi (si deve tenere presente la mentalità del nostro tempo, nella quale
siamo immersi anche noi religiosi) dicono che la gente non ama i monologhi (non
hanno audience in TV e questo fa testo), ma preferisce un bel dibattito:
permette un confronto che fa scoprire più in profondità l’effettiva consistenza
e verità delle argomentazioni e delle idee.
Se le parole restano di fatto un monologo, non bisogna
poi stupirsi se non vi è reazione alla comunicazione ricevuta: è stata una
comunicazione (il termine qui è improprio) vuota, che ha rivelato, a seconda
delle circostanze, l’inconsistenza delle proposte, la routine dell’incontro,
l’astrattezza degli intenti. Una comunicazione che si riceve con scetticismo,
già sapendo per esperienza “storica” che non avrà seguito nella prassi, resterà
lettera morta (magari anche con l’intima gioia di chi non intende essere
schiodato più di tanto dalle accoglienti braccia del tradizionale).
LA PAROLA
MODELLO
Non si vorrebbe esagerare andando troppo in alto a
cercare il modello delle potenzialità, della qualità e dei requisiti della
comunicazione, ma non si può fare a meno di fissare lo sguardo nel modo di
comportarsi di Dio.
La Bibbia ci dice che Dio si rivela attraverso la sua
parola e attraverso il suo agire e questa complementarietà è ben visibile
nell’incarnazione: ci saremmo accontentati delle sue parole senza la “fisicità”
della vicenda di Cristo? Le parole dell’AT non sono forse in attesa della loro
incarnazione e realizzazione in Cristo? La Bibbia ci dice anche che l’uomo è
fatto a immagine di Dio e quindi partecipe del potere creativo della parola e
chiamato a operare nella creazione e nella storia. La verità delle nostre
parole (che pure ci vogliono per illuminare e guidare) si rivela se sono almeno
indicatrici (non diciamo “creatrici” come quella di Dio) di concrete
possibilità di generare comunità e opere nuove.
Il “Signore, Signore” che il Vangelo stesso denuncia
sterile diventa troppo spesso “il carisma, il carisma… la regola, la regola”.
Le grandi e ormai scontate parole sugli eterni principi non scuotono oggi più
di tanto. Non dico a ragione, ma è un fatto percepibile nella loro incapacità,
riconosciuta dagli stessi esperti di vita consacrata, di rifondare la vita
religiosa.
Occorre che le verità universali e fondanti, che restano
tali, si incarnino in progetti che
le rendano attuabili e attuali, a
imitazione del Dio biblico che parla attraverso gli eventi storici.
Si crederà, da parte degli uomini scettici e disillusi da
tante verbosità, alla verità delle parole se e quando si riveleranno promotrici
di vita, di cambiamenti, di novità, quando non si arrotolano stancamente su se
stesse ma si aprono al futuro, mostrando che la realizzazione del carisma è
sempre davanti al già raggiunto, nelle potenzialità del futuro. E quando – come
il Dio incarnato – il carisma diventerà visibile, si farà carne per essere
compreso, dal consacrato e dagli altri, nella sua realtà storica e dirompente.
Allora le parole diventeranno gli strumenti per un
progressivo viaggio alla comprensione del disegno di Dio, che si serve della
Parola per illuminare gli eventi e degli eventi per deporre a favore della
verità della Parola.
Ennio Bianchi