LE DIFFERENZE NELLE COMUNITÀ MULTICULTURALI
LA SFIDA DELL’UNITÀ
La vita religiosa
sta assumendo un volto diverso, segnato dai colori dell’internazionalità. Si
presentano problematiche nuove quando allo stupore della diversità si aggiunge
anche il rispetto e la collaborazione.
Viviamo in un mondo in cui la pluralità delle situazioni
stimola e accelera la diversificazione delle proposte, ma non è scontato che
tutto ciò porti all’accettazione di chi è culturalmente diverso. Spesso la
diversità costituisce una sorta di minaccia alle proprie sicurezze e di paura,
destabilizzando le reti dei propri interessi privati e la tranquillità del
proprio gruppo culturale.
Camminare nella ricerca di nuove vie vuol dire apprezzare
ciò che di positivo e propositivo è attualmente presente nelle comunità
multietniche, per crescere insieme come segno visibile della speranza a cui i
religiosi e le religiose sono chiamati.
Il confronto con il diverso comporta la consapevolezza
delle novità di cui il fratello è portatore, ma soprattutto la certezza che
insieme si punta verso il comune progetto di amore e di testimonianza secondo
il carisma del proprio istituto.
RACCONTARE
LA CULTURA DELL’ALTRO
Sono tanti gli istituti e congregazioni che hanno varcato
i propri confini per entrare in nuovi mondi culturali. Ciò ha comportato la
conoscenza di nuovi modi di fare, pensare, agire, parlare, interagire. Da tale
allargamento sono nate convivenze comunitarie dove realtà culturali
profondamente diverse interpellano i religiosi e le religiose a una
comprensione reciproca.
L’impatto con il nuovo ambiente e le nuove abitudini, è
occasione molte volte di sorpresa, di fascino, ma talvolta può essere pesante
per la psiche della persona e la sua capacità di adattamento. Se da una parte
chi entra in contatto con culture diverse è chiamato ad adeguarsi a nuovi
modelli, dall’altra è importante che non perda di vista le proprie coordinate
culturali. Tutto ciò non è facile, soprattutto se si pensa che alle difficoltà
di inserimento in un nuovo ambiente culturale si aggiungono anche le difficoltà
strutturali della comunità ospitante, come l’invecchiamento vocazionale,
l’adattamento del proprio sistema di formazione, la sussistenza delle strutture
e delle opere.
A fronte di tali condizioni reali la comunità religiosa
resta un vero cenacolo di convivenza multiculturale, dove le persone si
coinvolgono per elaborare insieme i vissuti interpersonali, con «il particolare
compito di far crescere la spiritualità della comunione prima di tutto al
proprio interno e poi nella stessa comunità ecclesiale e oltre i suoi confini,
aprendo o riaprendo costantemente il dialogo della carità, soprattutto dove il
mondo di oggi è lacerato dall’odio etnico o da follie omicide... [Esse sono]
segno di un dialogo sempre possibile e di una comunione capace di armonizzare
le diversità» (Vita consecrata 51).
INTEGRAZIONE
DI RICCHEZZE RECIPROCHE
La persona che viene a contatto con una nuova cultura è
sottoposta a una forte pressione psicologica che la spinge a cambiare abitudini
e ad adattare la propria identità culturale. Inserita in un nuovo contesto
culturale, essa prende parte a un processo di trasformazione di sé e del gruppo
in cui si inserisce. L’introduzione di un confratello o di una consorella
provenienti da culture diverse in una nuova comunità trasforma i nuovi
arrivati, come pure l’intera comunità, perché ognuno è coinvolto nel
cambiamento di sé attraverso la conoscenza e l’integrazione delle ricchezze
dell’altro, in un contesto relazionale dove ogni persona è invitata a
ridefinire la propria identità specifica.
L’interazione interculturale si realizza sia nei paesi di
origine delle congregazioni, quando nuovi membri si inseriscono nell’ambiente dove
esiste una cultura maggioritaria dell’istituto, come anche nei paesi di origine
delle nuove vocazioni, quando le persone provenienti dall’ambiente circostante
(per es. nei paesi emergenti) entrano in comunità composte dal gruppo culturale
maggioritario. Facciamo un esempio per entrambe le situazioni, per capire
meglio lo sviluppo di tale processo di trasformazione e di integrazione dei
modelli culturali.
Pensiamo a uno studente di teologia che si reca in un
paese diverso dal proprio, per continuare gli studi iniziati nei primi anni di
formazione nella propria congregazione. L’inserimento nel nuovo contesto
culturale comporta un progressivo contatto con la cultura del posto dove va,
seguito da cambiamenti e adattamenti culturali. Il fatto di partire non è per
lui un evento isolato, forse già altri individui del suo contesto sociale lo
hanno fatto, amici, conoscenti, magari anche membri della stessa famiglia che
si trovano nel paese dove egli andrà. Nel suo paese probabilmente la scuola,
come i mass media, gli hanno già permesso di conoscere la cultura del luogo
dove si recherà. Al momento dell’impatto, comunque, ci possono essere alcune
esperienze particolarmente forti e a volte anche disadattive, seguite da
reazioni psicologiche: le differenze di clima, di lingua, di abitudini, il modo
di vestire, sono novità a cui egli dovrà dare delle risposte di adattamento.
Tali differenze ambientali e culturali possono essere accettate, interpretate o
negate, e l’individuo può gestirle o esserne travolto.
L’altro caso di adattamento culturale è quello in cui le
persone della cultura locale si inseriscono in comunità insediate in nuove
realtà culturali (“nuove” per la cultura maggioritaria dell’istituto). In
questo caso la persona che entra nella comunità situata nel suo ambiente nativo
deve accogliere usanze che le sono estranee, pur abitando nel luogo dove ha
appreso e ha vissuto secondo abitudini diverse da quelle della comunità che
l’accoglie.
In entrambi i casi, il processo di adattamento culturale
richiede agli uni e agli altri un contatto e una interazione continui e diretti
tra i confratelli e le consorelle di culture diverse. Se la persona ha molti o
pochi contatti con la comunità in cui si inserisce, se questi contatti sono
gradevoli o sgradevoli, se attraverso le esperienze interpersonali è possibile
tenere presenti le necessità dell’individuo, e soprattutto se il primo impatto
è vissuto positivamente oppure no, tutto ciò può costituire una base per i
rapporti successivi e può anche influire sul senso di sicurezza e di serenità
di chi si affaccia in un contesto culturale diverso dal suo.
A tal proposito, ricordo il racconto di una giovane
professa proveniente da un paese lontano. Si era ben preparata a ciò che
l’aspettava venendo in Italia, ma l’impatto è stato più strano del previsto. È
rimasta scioccata dal modo in cui le suore della nuova comunità comunicavano
tra loro, nei corridoi, nelle sale, in refettorio. «Qui le suore sono tutte
arrabbiate», diceva tra sé i primi giorni. Infatti, le consorelle del nuovo
ambiente culturale avevano l’abitudine di parlare ad alta voce da un corridoio
all’altro, da un piano all’altro, da un ambiente all’altro. Lei, invece, quando
parlava nel proprio ambiente familiare era abituata ad abbassare la voce e lo
sguardo come segno di rispetto e di ascolto, ed era rimasta molto impaurita da
quelle nuove abitudini. «Quanta fatica ad abituarmi a questi nuovi modi di
fare!», ripeteva spesso.
Il risultato del contatto è che alcuni aspetti
dell’identità degli uni e degli altri si modellano reciprocamente, così che le
caratteristiche culturali dei membri della comunità si trasformano a partire
dai primi rapporti. Se le esperienze relazionali nelle comunità multietniche
non sono funzionali al riconoscimento reciproco, si possono verificare
conflitti di identità tra persone di culture diverse. Il confronto sereno tra
le differenze interpersonali, invece, può diventare occasione di nuova
consapevolezza (per la cultura maggioritaria e per quella minoritaria, per chi
accoglie e per chi è accolto), per conoscere e per aprirsi a nuove opportunità
di comportamento comprensive dei valori profondi delle diverse culture, in
vista degli obiettivi che tutto il gruppo si propone per la convivenza
fraterna.
Il cambiamento di comportamenti e abitudini di persone
culturalmente diverse può variare molto a seconda delle situazioni. Dopo il
primo contatto, che generalmente produce atteggiamenti di tacita diffidenza o
di crisi nelle persone, si attiva la fase della trasformazione progressiva e
quindi si preparano le basi per un cambiamento che coinvolge tutta la comunità.
ADATTAMENTO
E INTEGRAZIONE CULTURALE
Il processo di trasformazione attraverso la conoscenza
reciproca, nel contesto delle comunità religiose multiculturali, non ha nulla a
che vedere con l’assimilazione dell’una o dell’altra cultura, col livellare le
differenze e tanto meno col mettere da parte il confratello perché “diverso”
nel suo modo di pensare o di agire all’interno del gruppo. Fino a quando si
resta nella logica della omogeneizzazione o delle rivendicazioni culturali,
ogni tentativo di assimilazione, giustificato anche da qualsivoglia motivazione
teologica o storica, non faciliterà la crescita del gruppo, ma continuerà a
perpetrare le ragioni di parte che danneggiano la comprensione reciproca.
Spesso l’assimilazione e la marginalizzazione di chi è culturalmente diverso
apre la porta a comportamenti discriminatori, a stereotipi culturali e
pregiudizi, dove non c’è più posto per la conoscenza e il rispetto
dell’alterità.1
Per poter conoscere e apprezzare le diversità e integrare
i valori presenti nell’altro è necessario apprezzare se stessi e il proprio
mondo culturale. La capacità di riconoscersi come creatura portatrice di valore
porta la persona ad accogliere e a integrare le proprie “diversità”
psicologiche e culturali, i propri pregi e difetti, passando dalla tolleranza
superficiale (quando si finge di cambiare) a una vera integrazione dei diversi
aspetti di sé, che permette un’effettiva empatia con il proprio mondo umano. La
partecipazione empatica con l’altro richiede l’apprezzamento e l’empatia con se
stessi e la propria cultura. In questo modo sarà possibile integrare le
reciproche diversità riconosciute senza temere che l’altro possa scalzare dalle
certezze della propria cultura. A livello comportamentale, questa integrazione
sarà la strategia che permette di ottenere il meglio dal contatto con i diversi
mondi culturali. Essa comprende un interesse sia a riconoscere e mantenere la
propria cultura, sia a riconoscere e interagire con la cultura dell’altro, in
un equilibrio abbastanza stabile tra la propria cultura e le modifiche in corso
nelle relazioni interpersonali.2
PER UNA CONVIVIALITÀ
DELLE DIFFERENZE
Sicuramente l’esperienza di comunità multiculturali è
positiva se tale scelta consolida la tradizione evangelizzatrice della vita
consacrata al servizio dell’espansione del regno di Dio.
La differenza culturale diventerebbe un elemento
determinante per qualificare opere e ministeri e per rimarcare le ragioni
carismatiche che assumerebbero così volti diversi senza perdere le motivazioni
di base. Non solo: con le diverse culture la famiglia religiosa si arricchisce
di una molteplice creatività iscritta nella storia dei popoli, a favore di una
politica che fa crescere il gruppo, potenzia tutta la vita consacrata e fa
superare una visione riduttiva che in molti casi limita la sfida stessa del
carisma.
La multiculturalità è una grazia per le famiglie
religiose a condizione che da ogni parte si arrivi a cogliere la positività dei
messaggi e delle esperienze, in modo da scrivere pagine inedite nella storia
degli istituti religiosi. Tale obiettivo richiede il superamento di una
concezione puramente semantica delle differenze interculturali per diventare un
cammino di crescita comune, libero da pregiudizi e prevenzioni, capace di
favorire la circolazione di idee e soprattutto di portare a conoscenza di tutti
i membri esperienze e proposte apostoliche a largo respiro.
Infine, la globalizzazione dal volto umano per una
famiglia religiosa passa attraverso l’accoglienza delle singole culture,
traducendosi in progetti elaborati insieme, in scelte dal sapore mondiale, in
volontà di comunione per una reale “convivialità delle differenze”, diventando
così segno e testimonianza di quella possibilità di pace, di unità e di
comunione oltre le diversità, che è l’anelito più forte dell’umanità del nostro
tempo. In questo modo la vita consacrata riacquisterebbe il suo significato più
genuino di presenza e testimonianza di quel già e non ancora di cui è anticipo
e profezia.
Giuseppe Crea
1 Crea G. – Mastrofini F., Animare i gruppi e costruire
la comunità. Indicazioni e metodi per una leadership responsabile, Dehoniane,
Bologna 2004.
2 Berry et al., Psicologia transculturale, Guerini,
Milano 1994.