COMUNIONE DI CARISMI NELLA VC

IN CERCA DI FUTURO

 

Fino a poco tempo fa eravamo invitati a leggere come pericoloso l’incontro di più carismi. Oggi a partire dall’ assemblea USG e da quella CISM si parla di scambio tra vecchi e nuovi carismi. A che cosa prelude questa inversione di tendenza?

 

Non ci si può nascondere che il sentire diffuso nel riferirsi ad altri carismi sia quello di pericolo o di evasione. Il clima di cautela potrebbe aver trovato appoggio in Vita consecrata dove si dice che «non si può negare che in taluni casi ciò genera disagi e disorientamento a livello personale e comunitario, specialmente quando queste esperienze entrano in conflitto con le esigenze della vita comune e della spiritualità dell’istituto».

Tuttavia questo testo non va disgiunto dalla frase che lo precede: «in questi anni, non poche persone consacrate sono entrate in qualcuno dei movimenti ecclesiali… e da tali esperienze gli interessati traggono in ­genere beneficio, specialmente sul ­piano del rinnovamento spirituale» (56).

 

QUALE CONCETTO

DI CHIESA?

 

Il problema però non è riconducibile al benessere o malessere di qualcuno ma va riferito al concetto stesso di ecclesia. Alla domanda “come vede la Chiesa del futuro?” la teologa Cettina Militello risponde: «mi piacerebbe pensare la Chiesa come un luogo aperto e accogliente nel quale ciascuno porta il suo dono e ogni dono costituisce una ricchezza per l’altro/altra».

È chiaro il quadro di riferimento: l’apostolo Paolo per dire la stessa cosa usa il paragone del corpo: «noi tutti siamo stati battezzati in un solo spirito per formare un solo corpo» (1Cor 12,13). «Il corpo non risulta di un membro solo, ma di molte membra» (1Cor 12,14).Tra le membra del corpo, la diversità è normale: «abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi» (Rm 12,6); anzi è necessaria e non si oppone all’unità del corpo, ma la rende possibile per mezzo della complementarietà. «Se tutto fosse un membro solo dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo» (1Cor 12,20).

L’ecclesiologia di comunione richiede che ognuno si metta in atteggiamento di accoglienza dei carismi che lo Spirito spartisce, sapendo che lo Spirito non lascia nessuno senza doni e non permette che qualcuno li possieda tutti. Dunque la comunione che i consacrati/e sono chiamati a vivere va ben oltre la propria famiglia religiosa, essendo chiamati alla funzione di segno e fermento della comunione ecclesiale intera nella scoperta della complementarietà dei carismi.

Il termine “scoperta” potrebbe essere indebito se non fosse che la storia degli istituti ha fatto vedere nei secoli che ognuno, al fine di identificarsi, ha accentuato le separazioni piuttosto che la complementarietà delle diversità. Queste ultime peraltro sono necessarie, perché solo chi ha il coraggio di essere diverso contribuisce efficacemente alla comunione, altrimenti diventa irrilevante. S. Bernardo nell’Apologia a Guglielmo di Saint-Thierry scriveva: «Io ammiro tutti gli ordini religiosi. Appartengo a uno di essi con l’osservanza, ma a tutti nella carità. Abbiamo bisogno tutti gli uni degli altri: il bene spirituale che io non ho e non possiedo, lo ricevo dagli altri. In questo esilio, la Chiesa è ancora in cammino e, se posso dire così, plurale. E tutte le nostre diversità, che manifestano la ricchezza dei doni di Dio, sussisteranno nell’unica casa del Padre, che comporta tante dimore».

Il dire di s. Bernardo circa la complementarietà era riferita agli ordini religiosi, oggi il discorso si amplia con riferimento a tutti i carismi anche a quelli dei nuovi soggetti ecclesiali: «dall’incontro e dalla comunione con i carismi dei movimenti ecclesiali può scaturire un reciproco arricchimento» (RdC 30). La vita religiosa diventa sterile quando si chiude in se stessa e smarrisce i più ampi orizzonti ecclesiali. Dire antichi e nuovi carismi è una prospettiva unificante: siamo tutti portatori di un dono dello spirito riconosciuto dalla Chiesa. La diversità è solo dovuta a contesti storici diversi che non dicono contrapposizione ma necessità di scambio di sapienze. Una opportunità capace di mettere in tensione feconda verso un possibile futuro è di «ritornare alla ecclesiologia delle origini in cui la varietà dei carismi non si era irrigidita in stati di vita».1

Tutto ciò scaturisce dal concilio che ha aperto una nuova intelligenza della vocazione del laico che non è definito come colui che è esente dall’osservare alcune pagine del Vangelo. Il concetto di sequela e le radicali esigenze che ne scaturiscono sono identiche per tutti. Probabilmente si riferiva a questo il card. Martini nel dire che «oggi non c’è più nessuno in prima fila». Neppure nel compito profetico perché «la vita consacrata non è la profezia nella Chiesa ma un supplemento particolare».2 Non si può negare che oggi «le grandi intuizioni fondazionali trovino difficoltà a essere riversate negli otri della realtà socioculturale ed ecclesiale di oggi»,3 a differenza dei nuovi carismi definiti dal papa «manifestazione di energia e di vitalità ecclesiale da considerarsi certamente uno dei frutti più belli del vasto e profondo rinnovamento spirituale promosso dall’ultimo concilio».

La proposta missionaria della buona notizia richiede una grande forza comunicativa, possibile soltanto a coloro il cui orizzonte è la contemporaneità piuttosto che la storia. Per la vita religiosa si tratta di rendersi capace di ascoltare gli appelli di Dio nella storia che specialmente in questo momento richiede di esprimere l’unità delle membra il cui insieme rende visibile il corpo di Cristo. Da qui la possibilità di riacquistare la capacità fecondativa.

 

COMUNIONE

DI CARISMI

 

L’assemblea Cism 2004 ha fatto risuonare alto il principio della comunione dei carismi antichi e nuovi. Ma questo non basta. Si tratta ora di tradurlo in una progettazione partecipata per una forte interlocuzione tra i soggetti ecclesiali coinvolti. L’ambito diocesano penso sia quello privilegiato non soltanto nell’offrire i tavoli di concertazione ma soprattutto per rendere visibile concretamente attraverso obiettivi condivisi la complementarietà dei carismi. Il presidente della CISM nella sua relazione disse che ora «si tratta di individuare e favorire forme istituzionali di confronto e di cercare figure di reciprocità».4

Non si può dire che oggi non ci siano forti stimoli dall’alto, però quasi nulla diventa novità di vita alla base. Qual è l’anello debole in tale trasmissione?

Se dicendo “dall’alto” si intendono i capitoli generali, i documenti pontifici, le assemblee generali (USG, UISG, CISM, USMI) è vero che da lì vengono interessanti prospettive e indicazioni di futuro. Tuttavia questi organismi non esprimono il reale pensiero delle persone da essi rappresentate, ma danno voce al pensare ideale di esperti chiamati a elaborare un documento preparatorio o conclusivo di qualche importante evento. Lo strumento di lavoro del Congresso 2004 conferma ciò con il dire che «la visione programmatica espressa nei nostri documenti va al di là delle nostre possibilità reali ed è all’origine di un’utopia irreale» (n.46). Eppure questi “tavoli” sono irrinunciabili perché in grado di interpretare la nuova stagione sociale e religiosa. Qui sta la differenza tra i tavoli alti e bassi: questi ultimi partono e si fermano alla conoscenza che conoscono mentre i primi sanno penetrare la conoscenza che non è conosciuta. Siamo dunque nel campo dell’utopia e della profezia senza le quali rimane poco alla vita religiosa. È frequente la tentazione di collocare il pensare alto tra le idealità irrealizzabili ma le idealità – oggi questione di sopravvivenza della vita religiosa – “sono come le stelle che mai raggiungiamo, eppure come succedeva ai marinai, grazie a esse riusciamo a tracciare il nuovo cammino”.

 

I DOCUMENTI

DEI SUPERIORI MAGGIORI

 

In posizione “mediana” ci sono poi gli interventi di chi è al centro dell’istituto (lettere circolari, ecc.). Un gruppo di riflessione ha preso in esame trenta di questi documenti di superiori e generali. Ne è risultato quanto, in sintesi, di seguito espresso.

Prevale la preoccupazione a ridurre la realtà a schemi precostituiti anche se vestiti a nuovo che concedono poco alla possibilità di altre logiche di conoscenza e di azione. La maggior parte delle spinte sottendono la teologia dello status perfectionis; soltanto due indicano la via dello status liminalis.

Il termine maggiormente ricorrente è fedeltà. In due lettere si dice che la fedeltà al carisma riacculturato non può non coincidere che con il carisma del fondatore (ciò che ha fatto); la maggior parte si esprime dicendo che la fedeltà al carisma di fondazione richiede di riesprimersi secondo categorie adatte al tempo; ma soltanto in cinque casi ci sono indicazioni di scelte in qualche misura rifondanti.

Sono rare le scelte di campo alternative e anche varie prospettive di apertura risentono della logica degli equilibri sotto la pressione di due spinte: quella delle sfide e quella dell’accettazione passiva delle risposte preconfezionate dalla tradizione.

In molte “circolari” non mancano forti stimoli ideali, ma alla proposizione di esse non fa seguito l’indicazione di precisi obiettivi corredati da azioni, strategie, tempi… Un conto è l’idea e un conto è il progetto congruente: senza questo nulla diventa realtà.

Metà degli scritti sono pervasi di un certo ottimismo specie quando indicano i numeri relativi alle recenti entrate da altre aree geografiche (professi temporanei, novizi, aspiranti). Soltanto due indicano le uscite.

Volentieri viene spostato il fuoco dell’attenzione su altri continenti quasi a dire che quello è il futuro vocazionale. Un superiore generale nell’inviare al richiedente la sua lettera circolare, aggiunse a mano una postilla: «c’è chi vi vede profezia per i risultati vocazionali… penso che anche questo sarà fonte di forti disillusioni: è questione di tempo o di globalizzazione».

Si fotografano le situazioni più che leggere i fenomeni di tendenza e sono poche le spinte a pensare in un orizzonte di significato per i nuovi contesti. Per dirla con p. Josè Arnaiz, «ci si attarda nel mettere in risalto quello che non va, che non è poco e fa soffrire molto. Ben più difficile è identificare il vero seme che produrrà un frutto buono e abbondante e riconoscere i segni reali di vitalità».5

Sommariamente viene da dire che quanto espresso in queste lettere circolari, a eccezione di alcune, è più sul versante delle indicazioni per galleggiare piuttosto che stimoli per navigare.

Infine, sono anelli a valle della “trasmissione” coloro che operano quotidianamente nelle attività apostoliche delle comunità. È interessante notare che cosa pensano questi religiosi di ciò che dicono o fanno ai livelli superiori. In due atenei romani nell’anno accademico 2002-20036 è stata fatta una esercitazione seminariale dal titolo “frasi assassine ricorrenti nelle comunità”. Eccole in ordine decrescente: «tutte chiacchiere», «un mucchio di riunioni inutili», «meglio aspettare un momento più propizio», «fallo tu se sei capace».

Al di là di queste espressioni, in coloro che sono immersi nell’azione apostolica delle comunità, le posizioni sono diversificate. I più lavorano, e molto, continuando ad applicare conoscenze accumulate in precedenza. Tra questi non pochi hanno la sensazione di essere vittime di situazioni indipendenti dal proprio controllo (trapasso culturale), per cui vivono con un grande senso di impotenza. Ci sono poi quelli che si ritrovano bene nei panni di portatori a valle di conoscenze elaborate altrove, che trascorrono più tempo a far funzionare e ad apprendere come far funzionare ciò in cui sono impegnati, piuttosto che a chiedersi che senso abbia ciò che stanno facendo funzionare.

Ma ci sono anche coloro che vorrebbero adottare una azione che consenta loro, in prospettiva futura, di non sentirsi in lenta ritirata. Incontro spesso religiosi capaci di elaborare e in grado di realizzare progetti significativi che si scontrano con richieste garantiste impossibili da soddisfare in una fase di stato nascente. Sono portatori di istanze che faticano a essere accettate dall’istituto per quel tanto di “nuovo” che comportano. Molte esperienze degli anni ‘75/’80 – periodo a cui i custodi della tradizione si appellano per dire che il nuovo ha vita breve – iniziarono al più come concessioni o cedimenti da parte dell’istituto, con il desiderio nascosto che andassero male perché tutto fosse ricondotto alla normalità, alla cosiddetta fedeltà.

Cos’è mancato allora e che cosa manca oggi? Il coraggio da parte dell’istituto di tradurre in mandato la sfida del nuovo. Attualmente nell’orizzonte delle mie conoscenze non c’è alcuna esperienza veramente nuova che goda, nella fragile fase iniziale, di una corresponsabilità dall’alto che si esprima in un mandato.

Il biblista Piero Rattin intravede proprio in questa assenza il fallimento del nascente. Negli Atti – dice – l’apertura al nuovo, che è la missione di Paolo e Barnaba viene accolta nel contesto di una celebrazione liturgica: certe decisioni a cambiare, a rinnovarsi, a intraprendere strade inedite vanno accompagnate dall’ assunzione, espressa in un mandato da parte di chi ha autorità. Anche allora questo fu un punto di arrivo faticoso che nasceva dall’esperienza dolorosa di Paolo.

 

Rino Cozza csj

 

1 Viganò E., inVita Consacrata, n. 5/2004.

2 Viganò E., ib.

3 Viganò E., Ib.

4 Don Mario Aldegani, relazione alla XLIV Assemblea Generale CISM, Assisi, 9 nov. 2004.

5 Arnaiz Josè M, in Vita Consacrata, n. 5/2004.

6 Esercitazione nell’ambito del Pontificio ateneo salesiano nella facoltà di psicologia, sia nell’ambito del Claretianum, cf. Consacrazione e Servizio, n. 9/2004.