A 10 ANNI DA “LA VITA FRATERNA IN COMUNITÀ”
IL SERVIZIO DELL’AUTORITÀ
Il documento sulla
vita fraterna, uscito da oltre dieci anni, contiene linee di orientamento che
non sono affatto superate. È utile richiamarle per non correre il rischio di dimenticarsene.
«L’essere superiore non è un ruolo da svolgere, ma un
atto d’amore da offrire ai fratelli o sorelle per garantire la loro fedeltà a
Dio e alla missione ricevuta da lui. L’autorità si qualifica primariamente per
il suo servizio di animazione, di dare vita. Essa è chiamata ad approfondire le
motivazioni e la carica interiore che spingono le comunità e i singoli
religiosi o religiose a dedicarsi totalmente all’opera di Dio».
Si tratta di un compito indubbiamente difficile e
impegnativo per il quale ci vogliono persone adatte, in cui, tuttavia, non
bastano le doti naturali. Il superiore, infatti, per compiere la sua missione
«ha bisogno assoluto di relazione con lo Spirito, di famigliarità con lui, di
frequentazione della sua sapienza. Solo così potrà scoprire le motivazioni vere
del suo servizio, mantenendosi sempre in umile ricerca, perché chiamato a
servire testimoniando una serena speranza, capace di contagiare tutta la
comunità».
A ricordare questi punti di riferimento del servizio
dell’autorità nella vita religiosa è il bollettino Informationes SCRIS in una
rilettura del documento La vita fraterna in comunità, a dieci anni dalla sua
promulgazione, avvenuta il 2 febbraio 1994, nella festa della Presentazione.1
Con i due autori dell’articolo, non ci pare superfluo
ritornare a riflettere sul tema del servizio dell’autorità – che in passato,
in occasione dei capitoli speciali per l’elaborazione delle nuove costituzioni
ha fatto versare fiumi di inchiostro – anche perché i superiori cambiano di frequente
col volgere degli anni e, come sottolinea il commento, il servizio
dell’autorità ha bisogno di essere rievangelizzato, come ogni altra realtà
della vita cristiana.
A SERVIZIO
DELLA MISSIONE
L’esercizio dell’autorità, osserva il bollettino SCRIS,
ha un ruolo determinante in ordine alla missione dell’istituto. Il superiore è
chiamato ad armonizzare e fare sintesi tra i valori della identità che il
religioso vive e il tipo di comunità richiesto dalla missione, tenendo conto
che è la consacrazione che potenzia e qualifica l’azione missionaria e,
inoltre, che l’esercizio della missione è sottoposto alle profonde
trasformazioni della società.
Un problema che oggi pone non pochi interrogativi negli
istituti di vita apostolica è la gestione delle grandi opere, in cui sono
coinvolti anche i laici. Spesso i superiori sono costretti a essere in pratica
prevalentemente gestori di opere, nelle quali lavorano, assieme a religiosi,
dei laici, con i non facili problemi connessi, la cui soluzione esige anche una
visione nuova dell’autorità.
Si vede qui l’attualità della seconda parte del n. 50 di
Vita fraterna in comunità dove sono delineati alcuni elementi chiave sul ruolo
dell’autorità.
L’ autorità, è detto anzitutto, ha il compito di creare
un clima favorevole per la condivisione e la corresponsabilità. Si tratta
pertanto di superare la visione funzionale della comunità, che pur deve gestire
delle opere, per privilegiare la valorizzazione delle persone. Il superiore è
responsabile in primo luogo delle persone, e non può non guardare innanzitutto
ai loro bisogni, alle loro speranze, alle loro difficoltà. Non può interessarsi
del religioso o della religiosa solo nei momenti di crisi. Il miglioramento
delle attività dipende spesso dalla misura in cui le persone si sentono
accettate, seguite, comprese e valorizzate. Di qui la necessità di incrementare
un rapporto di fiducia, affinché ciascuno possa dare il meglio di sé.
In secondo luogo, il superiore incoraggia i fratelli ad
assumersi le responsabilità e le sa rispettare.
Si tratta di offrire ai fratelli e alle sorelle la
possibilità di esercitare la responsabilità, di generare situazioni in cui le
persone vengono considerate adulte. Ciò comporta in primo luogo il
coinvolgimento dei religiosi e delle religiose nell’elaborazione di progetti
operativi, in modo da corresponsabilizzare le persone sin dagli inizi in
un’attività che deve essere sentita come appartenente a tutti ed espressione
della comune missione. Spesso il superiore che non delega la responsabilità o non
sa corresponsabilizzare, produce disinteresse e partecipazione passiva
all’esecuzione di un progetto che non è sentito come proprio.
Terzo: il superiore deve sapere infondere coraggio e
fiducia, soprattutto attraverso la valorizzazione delle potenzialità dei
singoli. La persona infatti cresce non tanto quando vengono messi in luce i
suoi limiti, ma attraverso il rafforzamento delle sue doti positive. Lo deve
fare in modo particolare «nei momenti difficili», astenendosi da sterili
recriminazioni e malinconici pessimismi sui tempi e sulla situazione,
consapevole che ogni momento è un kairòs, un’ offerta di collaborazione alla
costruzione del Regno.
NECESSITÀ
DELLA FORMAZIONE
La complessità delle situazioni che vivono le persone
consacrate e le loro comunità religiose, la Chiesa e la società, e la
difficoltà a farne una lettura serena e profetica, richiede che i superiori
siano adeguatamente formati e accompagnati.
Il superiore deve essere per sua natura e per il ruolo
che è chiamato a svolgere un uomo delle relazioni. Egli infatti non deve
limitarsi a essere uno che informa, ma una persona che crea comunione. Tenendo
presente questo riferimento si possono allora tracciare, sia pure
sinteticamente, le linee che dovrebbero caratterizzare ogni servizio dell’autorità.
Questa si qualifica anzitutto come animatrice di vita
spirituale. La funzione primaria del ministero dell’autorità nella comunità
religiosa è quella di unire i suoi membri comunicando loro il senso della
presenza di Cristo tra di loro e in loro, invitandoli a condividere con gli
altri tale esperienza. Il superiore dovrà dare un’anima al progetto di vita
della sua comunità, dove delle persone, senza essersi scelte o aver fatto
accordi preventivi, si trovano insieme per condividere un cammino di comunione
e di servizio apostolico. La nostra società, dominata dall’individualismo e
dall’egoismo, ha bisogno di vedere all’opera la forza del Vangelo. «Da questo
tutti sapranno che siete miei discepoli se avrete amore gli uni per gli altri»
(Gv 13,35).
In secondo luogo egli deve saper accompagnare
personalmente i confratelli. Questo accompagnamento ha il suo naturale ambito
di attuazione nella vita concreta di ciascuno e della comunità. Per questo egli
è chiamato a creare un clima, dove nello stare insieme si ha una percezione di
benessere: ognuno non si sente giudicato ma accettato, non teme gli altri ma ha
il piacere di stare con loro, considera l’altro un arricchimento e non un
impoverimento di risorse. Quando, invece, il clima della comunità è poco accogliente
i religiosi si temono l’un l’altro perché, senza accorgersene, entrano in
competizione tra di loro, sono mossi da interessi personali più che da quelli
di gruppo, condizionano la propria partecipazione a quella degli altri e sono
presenti con uno stile che finisce più per scoraggiare o danneggiare che non
per sostenere o aiutare. Scrive il documento sulla vita fraterna: «Una
fraternità senza gioia è una fraternità che si spegne» (VFC 28).
L’accompagnamento umano e spirituale, poi, è
particolarmente importante per i giovani religiosi o religiose per sostenerli
nelle difficoltà e negli scoraggiamenti, creando spazi adeguati di crescita e
di interazione comunitaria. Si tratta di formare il singolo «alla libertà
d’imparare per tutta la vita, in ogni età e stagione, in ogni ambiente e
contesto umano».
Ma dovrà aver particolare cura anche degli anziani. La
loro presenza nelle comunità è particolarmente significativa e feconda. È vero
che è un’età che conosce la solitudine, la malattia e la sofferenza, ma, come
osserva il documento Ripartire da Cristo, «al servizio già reso e alla saggezza
che possono condividere con altri, essi aggiungono il proprio prezioso
contributo unendosi con la loro oblazione al Cristo paziente e glorificato in
favore del suo corpo che è la Chiesa» (6).
ATTENZIONE
ALLE SITUAZIONI UMANE
Altra caratteristica del superiore è di essere attento
alla situazione umana e spirituale delle persone affidate. I religiosi e le
religiose hanno certamente molte belle qualità, ma purtroppo anche capricci,
difetti, visioni parziali, alti e bassi nell’umore... Non sempre sono persone
perfettamente mature, ben disposte, responsabili. Realisticamente Ripartire da
Cristo scrive: «Accanto allo slancio vitale, capace di testimonianza e di
donazione fino al martirio, la vita consacrata conosce anche l’insidia della mediocrità
nella vita spirituale, dell’imborghesimento progressivo e della mentalità
consumistica. La complessa conduzione delle opere, pur richiesta dalle nuove
esigenze sociali e dalle normative degli stati, insieme alla tentazione
dell’efficientismo e dell’attivismo, rischiano di offuscare l’originalità
evangelica e di indebolire le motivazioni spirituali» (12). In questa
situazione il superiore in primo luogo è chiamato a prestare la massima
attenzione a ogni singolo confratello o consorella perché ciascuno possa essere
se stesso e, liberamente, rispondere al disegno di Dio su di lui. Tuttavia, non
deve mai perdere di vista l’insieme. La comunità è come un’orchestra nella
quale la qualità di ciascun strumento deve fondersi nel suono corale attraverso
un unico spartito. Inoltre l’attenzione alle opere, se da un lato è giusta e
doverosa, dall’altro a volte rischia di far vivere le persone in continua
emergenza e sotto stress. Per questo il servizio dell’autorità richiede un
dialogo umile con tutti i membri della comunità, una ricerca partecipata per
armonizzare tutti nella concreta fedeltà al carisma proprio dell’istituto. Così
in una comunità veramente fraterna ciascuno si sente responsabile della fedeltà
dell’altro, sa andare in aiuto, comprendere, perdonare, sostenere. Per questo
la qualità della vita fraterna ha una forte incidenza anche sulla perseveranza
dei singoli religiosi (VFC 57).
Il superiore inoltre favorisce i rapporti fraterni nella
comunità. Egli sa che ogni confratello è dono e grazia per la comunità e per la
congregazione con la sua singolarità. Per questo non può presumere o pretendere
che abbia gli stessi suoi vissuti e condivida la stessa interpretazione degli
eventi. Deve saper rispettare, ascoltare e prendere in considerazione il punto
di vista di ciascuno anche se, alla prima impressione, suscita fastidio o
rifiuto. Ugualmente non si può permettere di umiliare o squalificare il vissuto
o l’esperienza degli altri. Solo quando la soggettività è rispettata e accolta
si può aprire una vera relazione.
Egli pertanto qualifica il suo servizio quando sa creare
e valorizzare percorsi di comunione, permettere incontri nel gioco armonico e
libero delle diversità, tessere rapporti, cercando appassionatamente ciò che
unisce i confratelli nel cammino di fede e di servizio. Si tratta di fare in
modo che il “dito di Dio”, lo Spirito santo, possa scrivere nel loro cuore il
“comandamento nuovo”, e ogni comando che viene dato sia un’effusione di Spirito
santo, cioè di coraggio, di fede, di carità.
IL SUPERIORE DEVE
SAPER DECIDERE
Ma egli deve saper prendere anche delle decisioni e
verificarne l’esecuzione. Qui, sottolinea l’opuscolo SCRIS, siamo al punctum
dolens, ma necessario per chi esercita il ministero dell’autorità. Nel dialogo
non sempre si arriva a convergere e, a volte, è necessario, anche per il
religioso e per la comunità, che il superiore decida.
Rimandare, per paura di una reazione negativa, si rivela
quasi sempre controproducente. Quando il superiore ha cercato di comprendere
fino in fondo le ragioni dell’altro, ma non le ha trovate decisive, deve
decidere con trasparenza e rispetto della sofferenza e nonostante l’eventuale
reazione negativa o addirittura aggressiva dell’altro; se non fa questo, entra
in una relazione che si tinge di ambiguità e di “eccezionalità” e che quasi
sempre diventa dannosa sia per il soggetto che per la comunità.
Egli, infine, dovrà sempre sentirsi a servizio della
comunione, ossia creare nella comunità la comunione con Dio, da condividere tra
i fratelli e da testimoniare nella Chiesa e al mondo. L’ autorità dovrà,
pertanto, promuovere e favorire tutto ciò che giova alla crescita nella
spiritualità della comunione. La comunità deve mostrare quella circolarità,
quel dinamismo eucaristico, quella reciprocità, in cui il valore più vero è la
condivisione del bene e dei beni (cf. At 2,42-47; 4,32).
Ripensare all’autorità nella vita religiosa, conclude il
bollettino SCRIS, non significa, allora, cercare novità, ma promuovere più
autenticità e motivare più profondamente il suo significato. Parlare di
autorità non è soltanto riaffermare o dare nuovo senso ad un ruolo, ma
piuttosto illuminarlo con la luce del Vangelo e metterlo in cammino sulla via
della carità di Cristo.
A. D.
1 Eusebio Hernández Sola oar, Silvano Pinato rcj, A 10
anni da «La vita fraterna in comunità», Il servizio dell’autorità, in Informationes
SCRIS, 1/2004.